ELINORE BLAISDELL, LA DIMENTICATA SIGNORA DEI NONMORTI

Elinore Blaisdell. Un nome dimenticato. Eppure merita un posto d’onore nell’empireo dei cultori di vampiri. A lei, artista poliedrica, si deve infatti quella che può essere considerata la prima antologia letteraria dedicata espressamente ai nonmorti e ai vampiri, Tales of the Undead (sottotitolo, solo all’interno e non in copertina: Vampires and Visitants),edita nel 1947 da Thomas Y. Crowell di New York. 

Per la prima volta si prestava attenzione alla narrativa breve sui vampiri, a molti anni di distanza dalle future antologie che dagli anni Sessanta si moltiplicheranno all’infinito. Il libro, di quasi 400 pagine, non è stato mai ristampato, né edito in edizione economica dopo la prima uscita con copertina rigida. Si trattava di un’elegante edizione, ogni testo era accompagnato da un’illustrazione realizzata dalla stessa Blaisdell, in un caratteristico stile dai tratti bianchi su sfondo nero, e suoi disegni stilizzati apparivano anche su fronte e retro dell’hardback. La copertina era molto audace per l’epoca, con una donna nuda trafitta da un paletto. Una recensione su “Times Union” definiva Elinore Blaisdell “una signora con un perfetto gusto letterario per l’horror” (4 ottobre 1947).

La copertina di Tales of the Undead

Nel volume erano raccolti venti racconti brevi, due racconti lunghi e il romanzo Carmilla. Su 23 titoli, 10 erano apparsi sulle colonne di “Weird Tales”. Per curare Tales of the Undead, infatti, la Blaisdell si era avvalsa della collaborazione di due nomi di punta della rivista “Weird Tales”, Dorothy McIlwraith e Lamont Buchanan. Molti di quei testi sono stati riproposti decine di volte in anni recenti, anche in traduzione italiana, e sono diventati quasi “luogo comune” per l’immaginario vampirico. Ma nel 1947 si trattava di un esperimento pionieristico.

Questi i titoli riuniti in Tales of the Undead: “Carmilla” (J. Sheridan LeFanu); “Brother Lucifer” (Chandler W. Whipple); “The Metronome” (August W. Derleth); “Uncanonized” (Seabury Quinn); “The Feast in the Abbey” (Robert Bloch); “Clay-Shuttered Doors” (Helen R. Hull); “Amour Dure” (Vernon Lee); “School for the Unspeakables” (Manly Wade Wellman); “The Adventure of the German Student” (Washington Irving); “The Tomb” (H.P. Lovecraft); “Second Night Out” (Frank Belknap Long); “Clarimonde” (Theophile Gautier); “The Seed from the Sepulcher” (Clark Ashton Smith); “For the Blood is the Life” (F. Marion Crawford); “The Story of Ming-Y” (Lafcadio Hearn); “The Quick and the Dead” (Vincent Starrett); “Satan’s Circus” (Eleanor Smith); “Miss Mary Pask” (Edith Wharton); “Septima” (Marcel Schwob); “Count Magnus” (M.R. James); “‘And He Shall Sing.” (H.R. Wakefield); “Doom of the House of Duryea” (Earl Peirce); “The Room in the Tower” (E.F. Benson). 

Per capire l’approccio della Blaisdell alla narrativa vampiresca, leggiamo integralmente la sua prefazione a Tales of the Undead, con un’avvertenza: si cita Oscar Wilde, per ribaltare la sua celebre frase “love is stronger than death” (“L’amore è più forte della morte”, in The Canterville Ghost), ma al posto di “stronger” il testo riporta “stranger”, cioè “più strano” invece di “più forte”. Un errore di stampa? Probabile, ma se non lo fosse, la frase avrebbe comunque un senso inquietante.

In letteratura, come nella vita, ci sono due temi: l’amore e la morte. Tutto il resto è una propaggine dell’uno o dell’altra; e, contrariamente a Oscar Wilde, la morte è sicuramente più strana dell’amore. In tutto il mondo la leggenda dei vampiri — le storie di morti che non vogliono morire — compare in vari contesti e circostanze, però fondamentalmente identici. Questo libro raccoglie, con poche eccezioni, racconti di morti che ritornano, animati di una vita innaturale e profana. Nessuna apparizione può far rabbrividire più del cadavere stesso, ora alieno e straniero, che tuttavia continua le sue vecchie abitudini, aggrappato alla sua vecchia esistenza.

Sono qui inclusi uno o due vampiri che non appartengono ai nonmorti. Montague Summers segnala casi di vampiri viventi e Hans Ewers scrive di un vampiro che soffre di una malattia del sangue la cui vittima è costretta a cercare il sangue dei vivi per sopravvivere. Una di queste storie, forse, riguarda un caso simile. È inclusa anche una pianta vampiro. Altre storie sono di morti che tornano con uno scopo preciso, un torto da vendicare o una missione da compiere.

La maggior parte di queste storie soddisfa il requisito di M. R. James che le apparizioni dovrebbero essere “essenzialmente malvagie e odiose”.

Buonanotte! Piacevoli sogni!

Chi era quella donna di nome Elinore Blaisdell, abile disegnatrice e tanto appassionata di vampiri da essere la prima a divulgarne la disseminazione nella narrativa? Ecco come era presentata sul risvolto di copertina del libro Tales of the Undead:

Elinore Blaisdell ha letto emozionanti storie del soprannaturale da quando ha avuto libero accesso alla biblioteca di suo padre all’età di sette anni e ha scoperto Poe, Hawthorne e un breve racconto di Maupassant dal titolo L’Horla. Da ragazzina passava molte estati nella torrida Baltimora e andava a caccia di innumerevoli storie di quel tipo da leggere ai suoi cugini, convinta che i brividi avrebbero abbassato la temperatura. Le impressionanti illustrazioni che accompagnano ogni racconto danno eloquente testimonianza di questa lunga devozione.

Elinore Blaisdell è una persona davvero versatile. Ha una profonda conoscenza della mitologia come dimostrano le sue meravigliose illustrazioni per Bulfinch’s Mythology, pubblicate da Crowell nel 1946. Si è occupata ampiamente anche di storia, folclore e arte del costume. È un’autorità in materia di ballate in musica. I versi che ha pubblicato riflettono un forte senso estetico. Le sue illustrazioni di libri per bambini le hanno dato una invidiabile reputazione in quel campo.

Miss Blaisdell ha studiato arte con Naum Los, Robert Brackman e alla Slade School di Londra. Nel corso delle sue varie attività, Miss Blaisdell ha viaggiato e disegnato molto, sia negli Stati Uniti che in Europa. La sua casa-studio di New York è dominata dai suoi due gatti siamesi, Reri-Honey e C. B Joe.

Al profilo biografico che appariva nel risvolto di Tales of the Undead si possono aggiungere altre informazioni, reperibili con fatica in rete (solo due siti contengono post dedicati interamente a lei, deepcuts.blog e desturmobed.blogspot.com). Un’indagine tra le emeroteche digitali consente di ricostruire vari aspetti della vita dell’artista.

Elinore Blaisdell è nata a Brooklyn nel 1900. Disegnava da quando aveva 18 mesi e ha pubblicato la sua prima illustrazione su un giornale ancora bambina. Nell’ottobre 1924 recita in una rappresentazione teatrale di Icebound, dramma del Premio Pulitzer Owen Davis. Si dedica anche alla poesia e il prestigioso “The New Yorker(14 aprile 1928) pubblica un suo componimento poetico, dal titolo Boat Ride: una deliziosa lady in guanti e piumino da cipria è portata da Caronte nell’aldilà, destinazione l’Ade per i suoi “graziosi peccati”. Nel 1928 sposa Melrich Rosenberg, scrittore e poeta che la chiamava “Blaisie”. Durante il viaggio di nozze a Londra riesce ad accedere ai corsi d’arte della prestigiosa accademia Slade. Nel 1934 dipinge numerosi quadri per le suite di un hotel di New York. Illustra poi diversi libri del marito, morto nel 1937 a soli 33 anni. Elinore non si è risposata e non ha avuto figli.

Nel 1939 riceve un premio di 2000 dollari dalla Julia Ellsworth Ford Foundation per il suo libro destinato ai ragazzi Falcon, Fly Back, da lei stessa illustrato (edito dalla Messner di New York). Ambientato nelle Francia medievale narra le avventure della dodicenne Anne de Hauteville, impegnata con altri amici nella ricerca del suo falco, tra zingari e banditi.

Dopo un’apprezzata carriera come illustratrice di libri, soprattutto per l’infanzia, si guadagna da vivere per un trentennio disegnando cartoline di auguri. La passione per il fantastico non la abbandona, se si considera che il suo nome compare nelle carte, messe all’asta un paio di anni fa, della storica 12th World Science Fiction Convention (Worldcon) che si tenne nel settembre 1954 a San Francisco, accanto a giganti del genere come Isaac Asimov, Robert Bloch, Ray Bradbury, Philip K. Dick, Fredric Brown, Jack Williamson, Philip Jose Farmer, Henry Kuttner.

Negli anni Settanta tiene corsi di pittura e decorazione a Bradford. La sua attività di artista non decollerà mai e deve lasciare la casa-studio di New York per ritirarsi a Lancaster, in Pennsylvania. È lì che viene “riscoperta” da “The Sunday News”, che le dedica un lungo articolo il 13 luglio 1980: Elinore all’epoca viveva con il nuovo gatto Tigger, dedicandosi alla sua antica passione per la fotografia, ed era tornata ai pastelli e ai dipinti a olio. Rare sue opere sono tuttora vendute all’asta. Muore ultranovantenne nel 1994.

Ancora un disegno di Elinore Blaisdell per Tales of the Undead

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 9

Arriva Theda Bara

Dopo il 1913 il tema della Vampira sembrava in declino. Poi, improvvisamente, a quasi 20 anni dalla pubblicazione la poesia di Rudyard Kipling The Vampire torna non solo di attualità, ma inaugura anche una lunga stagione nella storia del cinema: la stagione delle vamp. Tutto grazie a un film che esce nelle sale americane nel gennaio 1915, A Fool There Was, diretto da Frank Powell e prodotto dalla Fox. Destinato a un grandissimo successo, lanciò il personaggio della vamp, interpretato da Theda Bara che all’epoca era una sconosciuta attrice di teatro. Il film era basato sul testo teatrale e il romanzo omonimi di Porter Emerson Browne, con alcune pagine riportate quasi alla lettera dalla sceneggiatura.

Dopo i tanti adattamenti dei versi kiplinghiani per il palcoscenico e per lo schermo, il film A Fool There Was dà un aspetto definitivo alla Vampira, tramite gli occhi, le espressioni e l’abbigliamento di Theda Bara. Il produttore William Fox per la scelta dell’attrice si consultò con Robert Hilliard, ormai esperto dopo aver interpretato per anni la parte maschile principale a teatro, che gli confidò le grandi difficoltà incontrate per il ruolo della Vampira. Decidere chi dovesse recitare in quel ruolo era essenziale e Fox ha raccontato sia come si giunse alla scelta dell’attrice sia come si creò una sua biografia fittizia: “Abbiamo fatto un provino a una ragazza di nome Theodosia Goodman, senza esperienza nel cinema, e abbiamo deciso che andava bene. Era figlia di un sarto di Cincinnati. Miss Goodman diede in quel film un’interpretazione davvero notevole, ma avevamo un problema: se volevamo continuare a servirci di lei, il nome non era attraente per il pubblico e dovevamo trovarle un nome d’arte. Un giorno il nostro dipartimento pubblicità si accorse che sullo schermo c’era stato ogni tipo di donna, salvo un’araba. Il nostro direttore della pubblicità riteneva che al pubblico sarebbe piaciuta un’araba e ideò la storia che Miss Goodman fosse nata in Arabia: suo padre era un arabo e sua madre una donna francese che aveva recitato nei teatri di Parigi. Così abbiamo preso la parola ‘Arab’ che letta al contrario dava ‘Bara’ e abbiamo abbreviato il nome Theodosia in ‘ Theda’, da qui ‘Theda Bara’. Poi il direttore ha detto: ‘Non prendiamo una decisione senza aver capito se funziona. Fatemi invitare i giornalisti per un’intervista e vediamo se se la bevono’. L’ha vestita con tipici costumi arabi, l’ha circondata dell’atmosfera adatta e quindi sono entrati i giornalisti. Ha detto: ‘Voglio farvi conoscere Miss Bara’ e ha raccontato la storia, spiegando che lei non sapeva una parola di inglese. Quel giorno i giornalisti sono tornati in redazione per scrivere che la Fox Film Corporation aveva scoperto la più grande attrice del mondo” (Upton Sinclair, Upton Sinclair Presents William Fox, autopubblicato, Los Angeles 1933).

In realtà i ricordi di Fox non erano del tutto precisi, Theda parlò con i giornalisti e forse fu proprio lei a scegliere lo pseudonimo che la renderà famosa: un doppio anagramma, perché veniva spiegato come Arab Death, morte araba.

Theda Bara e Edward José in A Fool There Was

La Vampira di A Fool There Was è una Cenerentola “nera” che ottiene la sua scalata sociale grazie all’attrazione sessuale, depredando tanto giovanotti perbene quanto padri di famiglia danarosi e portandoli dalla rovina alla morte. Il vampirismo si rivela nel prosciugamento delle vittime (di soldi ed energie vitali) e nel contestuale arricchirsi e rinvigorirsi della carnefice. La vamp di Theda Bara non è per niente “inconsapevole”, come la dipingeva invece Kipling, ma determinata e astuta nelle sue trame vampiresche. L’attrice non mancava di sottolineare i contenuti sovversivi, rispetto alla mentalità dominante, del suo personaggio: “Credetemi, per ogni donna vampiro ci sono dieci uomini dello stesso tipo: uomini che prendono tutto alle donne, amore, devozione, bellezza, giovinezza, e non danno niente in cambio! V sta per Vampira e sta anche per Vendetta. La vampira che interpreto è la vendetta del mio sesso sui suoi sfruttatori. Vedete… ho il volto di una vampira, forse, ma il cuore di una feministe” (“The Montgomery Advertiser”, 21 marzo 1915).

Grazie al successo clamoroso di quel film, Theda Bara recitò in una serie di innumerevoli pellicole dove interpretava la donna fatale, con un culmine in Salome (1918) prodotto ancora dalla Fox e diretto da Gordon Edwards. Quasi tutti i suoi film sono perduti (complice anche il devastante incendio che distrusse i magazzini della Fox), ma A Fool There Was è viceversa miracolosamente sopravvissuto. Possiamo quindi ripercorrerne la trama nel dettaglio, un espediente utile perché rivela l’intero portato degli anni precedenti nella costruzione della Vampira, da Kipling ai continuatori sulla carta stampata, sul palcoscenico e sullo schermo. A Fool There Was è la summa di tutti i tasselli accumulati nel periodo intercorso dal 1897.

Theda Bara e Edward José in A Fool There Was

La trama

Un uomo elegante, di mezza età (Edward José), è seduto a un tavolo e ammira due rose sorridendo. Le avvicina al viso per sentirne il profumo. Una didascalia riporta la prima strofa della poesia di Rudyard Kipling The Vampire e le immagini passano a una donna (Theda Bara) in abito lussuoso e cappellino piumato, in piedi accanto a un vaso con due rose. Anche lei porta i fiori vicino al volto per aspirarne il profumo, sorridente. Ma il suo gesto è ben diverso da quello dell’uomo: strappa i petali, li schiaccia nella mano e li guarda ridendo.

L’uomo è John Schuyler, ricco avvocato e politico, che vive felice con la moglie Kate (Mabel Frenyear) e la figlioletta (Runa Hodges). Suo amico è Tom (Clifford Bruce), fidanzato con Elinor (May Allison), la sorella di Kate. La donna, invece, è indicata in un cartello solo come “La Vampira”, senza un nome proprio. La vediamo litigare irritata con un giovanotto barcollante, Reginal Parmalee (Victor Benoit). I due passeggiano, poi la Vampira è attratta da una vivace bambina bionda, la figlia di Schuyler, che gioca con la madre e la zia. Improvvisamente la bambina corre verso la Vampira e prende un fiore caduto a terra. La Vampira sorride e sta per accogliere il fiore dalle mani della bimba, quando la madre si colloca tra loro, afferra il fiore e lo butta via, dando le spalle alla Vampira, come se non esistesse. “Un giorno te ne pentirai”, recita a questo punto una didascalia.

Il giorno dopo, un telegramma annuncia a Schuyler che è stato nominato rappresentante speciale del governo statunitense in Inghilterra e deve partire subito a bordo del Gigantic (un nome che allude ovviamente al Titanic, naufragato nel 1912 e ancora ben impresso nella memoria degli spettatori). La Vampira legge la notizia dell’importante incarico di Schuyler e decide di seguirlo. Quando Parmalee lo apprende, ha una crisi di rabbia (“Mi hai rovinato, demonio, e ora mi getti via!”) e distrugge l’appartamento della Vampira, tra l’altro calpestando dei fiori, tema ricorrente nel film.

Al molo, i familiari e Tom stanno aspettando Schuyler per salutarlo prima che parta. La Vampira scende da un taxi vicino al porto ed è avvicinata da un uomo vestito miseramente, un mendicante curvo e magro: “Vedi come mi hai ridotto, mentre tu prosperi ancora, gatto infernale [hell cat]!”. Per tutta risposta, lei ride e chiama un poliziotto che porta via il poveraccio. Appena sale sulla nave, la Vampira suscita subito le attenzioni dei passeggeri di sesso maschile.

Da un altro taxi scende Parmalee. Il mendicante si rivolge a lui: “Sapevo che l’avresti seguita, Parmalee! Il nostro predecessore, Van Dam, marcisce in prigione a causa sua! Guarda cosa mi ha fatto… guarda cosa sta facendo a te!” (se ne deduce che la Vampira annovera già almeno tre vittime). Sulla nave, la Vampira è sul ponte, in mano tiene una grossa rosa dalla quale aspira il profumo, con un sorriso. Anche Parmalee è salito a bordo e raggiunge la donna, i due discutono. Parmalee estrae una pistola, ma lei resta immobile e continua a sorridere, abbassando l’arma con la rosa che impugna. Ridendo, la Vampira avvicina le labbra a quelle di Parmalee. “Baciami, stupido mio!” [“Kiss me, My Fool!”], dice in una didascalia destinata a rimanere celebre. Lui, allora, si punta la pistola a una tempia. Il montaggio passa ad altre immagini della famiglia Schuyler, poi a un’inquadratura di Parmalee a terra, morto. Tom chiede cosa sia successo a un lavoratore della nave che sta pulendo il sangue. “Era solo un ragazzo, signore. E quella se ne stava lì a ridere come un demonio”. Schuyler vede passare la barella con il cadavere del suicida e ne resta impressionato. Poi si congeda dai suoi familiari, ma la Vampira li osserva da un oblò, mentre si ammira in uno specchietto e si incipria. Schuyler la vede, distraendosi dai saluti, e i due si scambiano uno sguardo. Appena Schuyler è solo, con in mano i fiori che la moglie gli ha donato, la Vampira lo avvicina e lascia cadere a terra la sua grossa rosa, battendogli sulla spalla per invitarlo a raccoglierla. Lui è talmente confuso che prende la rosa, ma per errore consegna alla Vampira il mazzolino di fiori della moglie. La Vampira si allontana sorridendo soddisfatta e torna a sedersi sulla sua sedia a sdraio, dopo aver fatto collocare da un inserviente la sedia riservata a Schuyler accanto alla sua.

Due mesi dopo, la Vampira è distesa tra i palmizi di un hotel, in Italia. Tiene una mano sul petto di Schuyler, coricato con la testa appoggiata sul suo ventre, e gli offre da bere. Lei lo accarezza e Schuyler le bacia la mano, portandosela poi sul cuore, mentre la donna sorride. Schuyler si addormenta e la donna alza lentamente le braccia sopra la testa, stirandosi, con un gesto che appare anche di trionfo o il dispiegarsi delle ali di un uccello predatore.

Il caso vuole che il medico della famiglia Schuyler (interpretato dal regista del film, Frank Powell) con la moglie (Minna Gale) siano arrivati in vacanza proprio nell’hotel di Sorrento dove si trova la coppia adulterina e scorgano Schuyler che scambia effusioni con la Vampira.

In America, la sorella di Kate legge un articolo di giornale dove si parla, senza farne il nome, di un milionario in missione diplomatica che sarebbe stato sedotto da “una nota donna della specie vampiresca, non estranea al suicidio del giovane Reginal Parmalee a bordo del Gigantic”. La rovina di Schuyler è imminente: il Segretario di Stato americano gli annuncia che per il suo comportamento indecoroso è stato rimosso dall’incarico.

Schuyler e la Vampira vanno ad abitare insieme in un appartamento del milionario. Sei mesi dopo, Schuyler è ormai ridotto a una larva. Non si regge in piedi, ha scatti d’ira e beve ininterrottamente. La Vampira lo ha lasciato, è tornata nella sua casa, con un nuovo partner, e organizza feste licenziose.

Kate va da Schuyler in un estremo tentativo di riconciliazione e lo trova ubriaco, in stato confusionale. La Vampira, avvisata di quella visita da un informatore, irrompe nell’appartamento e fissa a lungo la rivale, poi si volta verso Schuyler e lo bacia sulla bocca. Mentre l’uomo si inginocchia e bacia la mano della Vampira raggiante e trionfante, Kate se ne va sconfitta.

Una settimana dopo Schuyler partecipa a una sfrenata festa da ballo e quando scorge la Vampira che si intrattiene con un altro, furioso di gelosia, colpisce l’uomo, poi minaccia anche lei impugnando una bottiglia, ma un abbraccio della perfida amante lo immobilizza.

Kate ricorre a un ultimo espediente per riportare il marito alla ragione, presentandosi da lui con la figlioletta. Si fa precedere da Tom che prende Schuyler a calci e pugni per risvegliarlo dal suo torpore. Poi entrano Kate e la bambina che, felice, abbraccia il padre. La scena è osservata dalla Vampira, in camicia da notte. Non appena la Vampira si avvicina, Schuyler si avvinghia a lei voltando le spalle ai suoi familiari. Tom, Kate e la bimba non possono che andarsene.

Schuyler, nel buio, striscia come un verme scendendo la scala della sua casa e vede in una sorta di allucinazione la moglie e la figlia, poi rivive il momento in cui sulla nave veniva portato via il cadavere di Parmalee. Si trascina a fatica nel salotto, devasta gli arredi con un bastone e una bottiglia, quindi stramazza a terra. Ancora un cartello con le parole di Kipling: “Un poco di lui visse, ma il più di lui morì”. Ora la Vampira, tenendo tra le mani un mazzo di rose, è inginocchiata sul corpo riverso di Schuyler. Con un sorriso, lascia cadere dei petali sul volto dell’uomo e poi li soffia via. L’ultimo cartello, sulle immagini in dissolvenza, recita: “(proprio come te e me)”.

Rose e vampire destabilizzanti

Il legame tra il film A Fool There Was e The Vampire di Kipling era tale che si decise di aprire la prima proiezione allo Strand Theater di New York con una lettura integrale della poesia, stampata anche nel materiale promozionale. Sullo schermo era resa per immagini la descrizione precisa del “fool” che si fa irretire da una Vampira. Il ritratto di Schuyler è impietoso. È un uomo sottomesso e debole che, come nella poesia, permette alla sua amante di umiliarlo in qualsiasi modo: subisce ogni angheria (quando riceve una lettera della moglie, la Vampira gliela toglie di mano con furia e la strappa) e sopporta che la Vampira rida di lui mentre precipita nell’alcolismo. Estenuato, a un certo punto ha un gesto di ribellione e porta una mano alla gola della Vampira, ma lei risponde con un sorriso e lo abbraccia.

A fare da contraltare a Schuyler c’era il personaggio di Tom, dalla maschia mascella, che diventa un protagonista importante della storia, incarnando l’uomo che non si fa distruggere dalle “vampire” e che protegge la famiglia tradizionale. Anche lui, però, soccombe e deve lasciare spazio alla forza travolgente della Vampira.

La scena in cui la Vampira bacia sulla bocca Schuyler di fronte alla moglie fece sensazione, turbò il perbenismo dell’epoca e tuttora conserva un suo impatto. Vediamo la moglie soccorrere il marito barcollante e guidarlo verso la porta di casa, da cui emana la luce della redenzione. Ma l’ombra della Vampira si insinua tra i due. Schuyler si accascia su una parete, lei lo imprigiona contro il muro e lo bacia. Quando l’uomo si inginocchia di fronte alla Vampira e le bacia una mano, per la moglie non c’è altra possibilità che andarsene.

Il quadro di Burne-Jones sulla copertina del romanzo di Browne, riproposto da Theda Bara nel film del 1915 e in un servizio fotografico

Se il film gioca con i rimandi alla poesia di Kipling, anche attraverso le ripetute citazioni nelle didascalie, alcune immagini evocano il quadro di Philip Burne-Jones: Theda Bara in più momenti indossa una camicia da notte bianca, con i lunghi capelli scuri sciolti, presentandosi al pubblico come una replica della donna del dipinto The Vampire. E in una serie di scatti fotografici dell’attrice, realizzati poco tempo dopo e diventati celebri, compare nella tipica posizione della donna nel quadro di Burne-Jones, china su una vittima ridotta addirittura a scheletro.

Il film A Fool There Was eredita invece da Porter Emerson Browne la famosa frase “Kiss me, my fool!”, consacrandola e rendendola luogo comune duraturo. Anche il tema delle rose è tratto da Browne. Nel film, sono quei fiori a scatenare l’ira della Vampira, quando la bambina raccoglie una rosa da terra, ma la madre le impedisce di donargliela. Ed è con una rosa che la Vampira abbassa la pistola di Parmalee, con una rosa attrae Schuyler facendolo confondere con i fiori che gli ha dato la moglie, infine con i petali di una rosa cosparge il corpo della sua vittima. Secondo Anne Morey e Claudia Nelson (Phallus and Void in Kipling’s “The Vampire” and Its Progeny, in “Frame” 24.2, novembre 2011) quei fiori alludono ai genitali femminili usati come un’arma, pronti a castrare il maschio.

Anche a causa di questi contenuti destabilizzanti, accentuati dall’assenza di lieto fine, A Fool There Was incontrò ostilità censorie e campagne moralistiche. Nonostante il successo favoloso in America, il film non fu mai distribuito in Gran Bretagna. A Fool There Was sarà riproposto in sala nel 1918, di nuovo con ottimi risultati di pubblico, in una versione abbreviata dal taglio di circa 10 minuti.

Pubblicità per la riproposta di A Fool There Was nel 1918

Nel 1922 la Fox tentò di rinnovare il successo del film con un costoso remake sempre intitolato A Fool There Was. La regia era di Emmett J. Flynn e gli interpreti principali Estelle Taylor (la Vampira), Lewis Stone (il marito) e Irene Rich (la moglie). Paradossalmente, se il film con Theda Bara del 1915 è sopravvissuto, il remake è perduto.

Nonostante le critiche sottolineassero che il film era ben recitato e con scenografie sontuose, il nuovo A Fool There Was si rivelò un flop. La storia era pressoché identica all’originale, con alcune varianti nei personaggi, e la Vampira otteneva finalmente un nome, Gilda Fontaine (“Un volto innocente… e l’animo di Satana”, spiegava la pubblicità). Eppure era impossibile replicare l’impatto straordinario della prima pellicola. Le vamp si erano moltiplicate sugli schermi, ma il film del 1915 restava insuperabile e Theda Bara ineguagliabile. Le recensioni notavano come la Taylor fosse indubbiamente “più carina” di Theda Bara, però priva delle sue abilità seduttive e della sua presenza scenica. Si aggiunga che per gli aumentati rigori della censura vennero addolcite le sequenze più audaci del film originale.

Poster e pubblicità per il remake del 1922

A soli sette anni dall’uscita del film con Theda Bara, i giornali scrivevano che il remake poteva essere di interesse solo per coloro ai quali “piacevano i vecchi film sulle Vampire” (Will Please Those Who Liked the Old Vampire Pictures titolava “The Film Daily”, 23 luglio 1922). Nel tritacarne hollywoodiano, creatore di continue novità, in sette anni un fenomeno clamoroso come quello della Vampira di Theda Bara poteva considerarsi già “vecchio”. Questa rapida senescenza della Vampira attirò l’attenzione del commediografo Robert E. Sherwood, che sarà poi sceneggiatore, tra l’altro, del film di Alfred Hitchcock Rebecca (Rebecca – La prima moglie,1940). Per Sherwood A Fool There Was del 1915 “probabilmente ha esercitato sul pensare contemporaneo un’influenza superiore a qualsiasi film che sia mai stato prodotto”. Eppure il commediografo si trovava costretto a segnalare che il remake non reggeva ai rapidi cambiamenti del cinema, oltre ad aver rinunciato alla forza trasgressiva del film originario, sotto le pressioni del puritanesimo americano (“Life”, 10 agosto 1922).

Lo stesso Sherwood si era già dedicato alla Vampira con una parodia della poesia di Kipling, implicitamente indirizzata a William Fox che aveva reso Theda Bara “famosa in una settimana”, ma che al contrario del “fool” di Kipling non era uno sciocco, perché la scelta di contrattualizzare quella “dama dagli occhi scuri” gli portò buoni profitti (“Life”, 14 aprile 1921).

La parodia di Sherwood era solo l’ultima di una lunga serie, come abbiamo visto in puntate precedenti, riattivate dal successo di A Fool There Was. Dopo l’uscita del film nel 1915 e poi per la riedizione del 1918 tornano ad apparire le riscritture di The Vampire, come andava di moda un ventennio prima. È il caso di Ballade of a Rheumatic Vampire (“Motion Picture”, aprile 1918), una parodia in dialetto della Louisiana scritta dal poeta Lew Sarett.

La lunga parabola della poesia di Kipling con A Fool There Was era arrivata al suo culmine. Da quel momento sorge il fenomeno delle vamp, intenso e vivace per quasi un decennio. Ne scriveremo nella prossima puntata.

La poesia di Robert E. Sherwood su “Life” (14 aprile 1921)

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 8

Un presidente americano contro i vampiri

C’è stato un presidente degli Stati Uniti che ha avuto stretti rapporti con i vampiri. O meglio, con gli autori che hanno creato il vampirismo dell’immaginario novecentesco, in particolare diffondendo la figura della Vampira e di tutte le sue sorelle. È Theodore Roosevelt, detto Teddy, presidente degli Usa dal 1901 al 1909. Roosevelt è stato in contatto diretto con ben cinque nomi che abbiamo incontrato in questo viaggio alle fonti del vampiro moderno: Bram Stoker, Rudyard Kipling, Philip Burne-Jones, Porter Emerson Browne e George Sylvester Viereck.

Roosevelt vantava una vita avventurosa, prima come inflessibile capo della polizia di New York dal 1895, poi ardimentoso comandante sul campo a Cuba nella guerra contro gli spagnoli, per avviarsi quindi alla carriera politica su posizioni ultraconservatrici e diventare presidente nel 1901, subentrando a William McKinley  ucciso da un anarchico. La sua estrosa personalità lo portò a dialogare con scrittori come H. Rider Haggard e Arthur Conan Doyle.

La Vampira che popolava l’immaginario dopo la poesia di Kipling rispecchiava i pericoli che l’America correva secondo Roosevelt, il timore profondo per la svirilizzazione dell’uomo bianco e di conseguenza la messa in discussione del suo predominio sul mondo.

Roosevelt incarnava l’uomo della frontiera, con disprezzo dichiarato per gli Indiani d’America tanto che salutava lo sterminio dei nativi americani come un trionfo della civiltà su esseri paragonati a “squallide bestie feroci” (The Winning of the West, G. P. Putnam’s Sons, New York 1894). Anche verso gli asiatici nutriva ostilità, considerando i cinesi “rovinosi per la razza bianca” e quindi da tenere lontani dagli Stati Uniti (in “Sewanee Review”, maggio 1894).

Per Roosevelt i bianchi anglosassoni, specialmente americani e tedeschi (negli inglesi aveva poca fiducia), dovevano allearsi per contrastare le altre razze: neri, slavi, latini e persino irlandesi. Mantenere pura al cento per cento la razza bianca era considerato da Roosevelt il problema fondamentale della sua epoca. Intorno al 1906 incomincia a cavalcare il concetto di “race suicide”, il suicidio della razza bianca che sarebbe commesso tramite il calo delle nascite tra gli americani di origine anglosassone e con i matrimoni misti. Inoltre per Roosevelt il matrimonio doveva essere indissolubile o comunque chi divorziava non doveva avere il diritto di risposarsi.

A unire i sei nomi (Stoker, Kipling, Burne-Jones, Browne, Viereck e Roosevelt) era lo stesso retroterra ideologico: imperialismo, suprematismo bianco, discriminazione delle donne. Erano terrorizzati dai pericoli che correva il loro sistema di valori, tra popoli colonizzati in rivolta, donne che pretendevano diritti, immigrati che aumentavano. I cacciatori di vampiri in Dracula potevano profilarsi come “rappresentanti della razza anglosassone uniti contro la minaccia al sangue dell’Inghilterra che Dracula mette in atto” (Louis H. Palmer, Vampires in the New World, Praeger, Santa Barbara 2013), così come la Vampira kiplinghiana personificava le paure per un indebolimento della razza bianca e del maschio.

Theodore Roosevelt

Roosevelt e Stoker

L’incontro tra Theodore Roosevelt e Bram Stoker risale al novembre 1895, quando lo scrittore era in un tour americano con Henry Irving. In quel momento Roosevelt era capo della polizia di New York. Stoker ricorda in Personal Reminiscences of Henry Irving (Macmillan, New York 1906) di essere rimasto favorevolmente impressionato da Roosevelt che, dopo un pranzo insieme, lo invitò alla sede della polizia per presenziare a una sorta di informale “processo” ad alcuni agenti sotto accusa. Con notevoli capacità di predizione, Stoker annotò nel suo diario: “Un giorno deve diventare Presidente. Un uomo che non si può blandire, non si può spaventare né comprare”.

Stoker e Roosevelt si incontrarono ancora il primo gennaio 1904, alla Casa Bianca. Insieme a Irving, lo scrittore si trovava a Washington ed entrambi parteciparono al ricevimento presidenziale per l’anno nuovo. Da capo della polizia Roosevelt era ora presidente, la profezia di Stoker si era avverata. Nel corso della cerimonia, Stoker rimase sorpreso che dopo quasi dieci anni dal loro primo incontro Roosevelt lo riconoscesse subito e lo chiamasse per nome. Il presidente si intrattenne in privato con Irving e Stoker per un’ora.

Lo scrittore irlandese aveva un altro contatto con la famiglia Roosevelt, già prima di conoscere Teddy. Nella sua cerchia britannica, infatti, frequentava da anni Robert Roosevelt, zio di Teddy Roosevelt e amico di Oscar Wilde. Secondo un’ipotesi circolata soprattutto in rete in anni recenti, Robert sarebbe uno dei candidati come ispirazione per il personaggio di Van Helsing in Dracula. A parte provenire da una famiglia di origini olandesi (è stato anche ambasciatore Usa nei Paesi Bassi dal 1888), Robert Roosevelt non ha altro in comune con l’immaginario Abraham Van Helsing: non era uomo di scienza, ma avvocato, e non si occupava di occulto, ma di studi sulla pesca. Forse solo il suo aspetto fisico potrebbe adattarsi a Van Helsing.

Più fondata, invece, la tesi secondo cui Quincey Morris, il texano che partecipa alla caccia a Dracula nel romanzo di Stoker, possa avere dei tratti che rimandano a Theodore Roosevelt. Per Clive Leatherdale, ad esempio, Morris “è un po’ sullo stampo di Teddy Roosevelt, conforme alla visione altezzosa che si aveva nella Gran Bretagna vittoriana dell’americano rude ma genuino” (Dracula. The Novel & The Legend, The Aquarian Press, Wellingborough 1985).

Robert Roosevelt, possibile ispiratore di Van Helsing

Roosevelt e Kipling

La sua mentalità imperialista, il suprematismo bianco e l’avversione a ogni modifica del ruolo tradizionale assegnato alle donne dovevano portare inevitabilmente Roosevelt a provare simpatia per Rudyard Kipling, il “poeta dell’imperialismo”. Tra il presidente americano e lo scrittore britannico c’erano sensibilità comuni che trovavano terreno fertile nel clima culturale predominante in quegli anni, tanto che il premio Pulitzer per la storia Frank Luther Mott è arrivato ad affermare che Roosevelt e Kipling sono state le due personalità che più hanno influenzato gli intellettuali americani dell’epoca: “Roosevelt e Kipling erano divinità gemelle per gli scrittori ‘rudi e duri’ agli inizi del ventesimo secolo” (Golden Multitudes, Macmillan, New York 1947).

L’incontro tra Kipling e Roosevelt avviene un paio d’anni prima che lo scrittore britannico scrivesse The Vampire. Kipling era in America con la moglie, dove progettava di restare a lungo, e conobbe il futuro presidente Usa al  Cosmos Club di New York, rimanendone subito attratto per le sue qualità di uomo d’azione e di conservatore estremo. Da allora iniziò una frequentazione che proseguì con scambi di lettere anche dopo la partenza di Kipling dall’America nell’estate del 1896. In una lettera dell’8 gennaio 1919, Kipling definiva Roosevelt “il miglior amico” che aveva avuto in America e in occasione della morte scrisse una poesia in suo onore, Great Heart.

Roosevelt aveva letto The Vampire e non poteva che trovare consonante con le sue idee il ritratto di una donna predatrice, metafora di degrado morale, e di un uomo prosciugato e reso inutile per la difesa della nazione o degli imperi. Per Roosevelt il compito primario nella vita delle donne era prendersi cura della casa e dei figli, come teorizzò in un articolo per “Metropolitan” del maggio 1916 (The Parasite Woman), e al contrario andava promosso il culto della mascolinità, da realizzarsi attraverso il salutismo e il rafforzamento fisico. Le Vampire rappresentavano la massima minaccia, capaci com’erano di fiaccare e indebolire gli uomini fino alla consunzione. Non erano forse associabili al suo timore delle malattie veneree che, veicolate da uomini caduti tra le spire di Vampire del sesso, potevano contagiare le mogli e i figli americani?

Roosevelt poteva ben vedere nella poesia di Kipling una coincidenza con la sua battaglia “contro i degenerati effetti della sessualità femminile” (Sarah Lyons Watts, Rough Rider in the White House: Theodore Roosevelt and the Politics of Desire, University of Chicago Press, Chicago 2003). Quello che Roosevelt non poteva apprezzare in The Vampire era la descrizione troppo compiaciuta dell’uomo distrutto dalla Vampira, come testimonia una sua lettera del 28 aprile 1899 allo scrittore Elbert Hubbard che nel luglio 1897 era stato tra i primi a pubblicare la poesia The Vampire sulla sua rivista “The Philistine”. Le osservazioni di Roosevelt non erano lusinghiere: “Vi devo dire che sono deliziato dai vostri libri. Lasciatemi solo protestare contro la poesia di Kipling The Vampire. Mi ha sempre colpito per la nota decadente, molto fuori luogo nel carattere di Kipling” (in The Letters of Theodore Roosevelt, a cura di Elting E. Morison, Harvard University Press, Cambridge 1951)

Questi dissensi non indebolirono il rapporto positivo tra lo scrittore e il presidente, al punto che nella campagna per le presidenziali del 1912 Roosevelt usò la strofa di una poesia di Kipling per i suoi manifesti elettorali.

Kipling (a sinistra) e Roosevelt nel loro primo incontro al Cosmos Club (da Cassell’s Book of Knowledge, 1910)

Roosevelt e Burne-Jones

I rapporti di Roosevelt con il pittore Philip Burne-Jones, che aveva ispirato con il suo quadro la Vampira di suo cugino Kipling, furono più limitati. L’incontro tra Roosevelt e l’artista avvenne quando Burne-Jones si era provvisoriamente trasferito in America, nel 1902, alla ricerca di successo oltreoceano e per vendere i suoi quadri (come sappiamo, portò con sé anche The Vampire). Vide una prima volta il presidente americano mentre passeggiava con un ministro, apparentemente senza scorta, poi gli fu presentato durante una cerimonia alla Harvard University e un terzo incontro avvenne a Oyster Bay.

Burne-Jones nutrì la speranza di poterlo ritrarre in un suo dipinto. Roosevelt, infatti, aveva apprezzato un ritratto di Kipling realizzato dal cugino pittore, ma l’obiettivo di Burne-Jones non venne raggiunto e restò deluso il desiderio di acquisire prestigio immortalando su tela il presidente Usa.

Dell’incontro a Harvard, Burne-Jones scrisse nel suo libro Dollars and Democracy: “Ho avuto un’impressione molto precisa di quell’uomo acuto ed energico, l’incarnazione stessa della forza e del vigore mascolino. Con modi meravigliosamente allegri e cordiali, mi salutò come se fossi stata l’unica persona al mondo che era ansioso di incontrare – sicuramente la forma di cortesia più gratificante, e che ci tocca tutti all’istante – e sebbene avesse probabilmente dimenticato la mia esistenza un minuto dopo e si affrettava tra la folla entusiasta dei suoi vecchi compagni di college, come un ragazzone di buon carattere troppo cresciuto, ricevendo e facendo mille saluti, pieni, pensavo, di una bonomia leggermente accentuata, tuttavia mi restava una gradevole impressione della sua accoglienza”.

Una riproduzione del quadro di Burne-Jones dalla “Sahib Edition” delle opere di Kipling (1909)

Roosevelt e Browne

Molto stretta fu l’amicizia e la collaborazione tra Roosevelt e l’uomo che trasformò la Vampira di Kipling nel testo teatrale e nel romanzo A Fool There Was, Porter Emerson Browne. Lo scrittore era un fervente interventista durante la Prima guerra mondiale e nel 1915 Roosevelt fu attratto da un suo articolo sull’affondamento del Lusitania. L’ex presidente volle conoscerlo e tra i due ci fu subito sintonia, tanto che Browne iniziò a scrivere discorsi per Roosevelt. La loro intesa politica si rafforza quando Roosevelt partecipa attivamente al movimento dei Vigilantes, creato nel 1916 da Browne per unire gli intellettuali americani sotto una bandiera patriottica e bellicista (alla morte dello scrittore, nel 1934, il “New York Times” lo definirà “acerrimo nemico dei pacifisti”).

Browne dedicò a Theodore Roosevelt il libro Scars and Stripes (Doran, New York 1917) che raccoglie suoi testi apparsi su giornali e riviste. Tra questi, il racconto Mary and Marie che mette in contrapposizione due donne, l’una semplice, ma coraggiosa e pronta a partecipare alla guerra, l’altra benestante e indifferente a tutto, una sorta di Vampira kiplinghiana “che di nulla si cura”. Nella satira Uncle Sham, invece, Browne ridicolizza le politiche del presidente Wilson ed esalta Roosevelt.

L’attivismo di Browne a favore della partecipazione americana alla guerra si univa perfettamente alle intransigenti idee di Roosevelt e culmina in un opuscolo di propaganda a favore dell’intervento americano (A Liberty Loan Primer, pubblicato dal Liberty Loan Committee nel 1918), indirizzato ai bambini e illustrato da James Montgomery Flagg, il grande artista dei poster. L’opuscolo invitava all’acquisto delle obbligazioni emesse dal governo degli Stati Uniti per sostenere le spese militari, tramite testi e disegni dove gli americani erano eroi belli e angelici, mentre i tedeschi erano rappresentati come repellenti mostri assetati di sangue.

Come definitivo omaggio a Roosevelt, nel 1919 Browne scrisse la sceneggiatura per il film celebrativo Our Teddy, diretto da William Nigh.

Un germanico bevitore di sangue nell’opuscolo di Porter Emerson Browne A Liberty Loan Primer

Roosevelt e Viereck

La personalità connessa all’immaginario vampiresco di inizio secolo che ebbe maggiori legami con Roosevelt è senza dubbio George Sylvester Viereck, l’autore di The House of the Vampire. Il padre, tedesco, aveva collaborato nel 1904 alla campagna elettorale di Roosevelt per la presidenza, orientando i votanti della comunità americana di origini germaniche. Sylvester nel 1911 prende le redini del giornale in lingua tedesca di suo padre e ne pubblica una versione in inglese. A quel punto l’ormai ex presidente Teddy Roosevelt si incuriosisce e discute con lo scrittore le possibili iniziative per rafforzare i legami politici e culturali tra America e Germania, aiutandolo a trovare finanziamenti per il giornale. Viereck, così, da quel momento sviluppa per l’ex presidente un attaccamento filiale (vedi Phyllis Keller, George Sylvester Viereck: The Psychology of a German-American Militant, “The Journal of Interdisciplinary History”, vol. 2, n. 1, 1971) e vede in lui il tipico “superuomo” che aveva teorizzato in The House of the Vampire. Nel 1912 decide di appoggiarlo nella campagna per la candidatura alle presidenziali, mettendo momentaneamente da parte le sue ambizioni di scrittore e poeta. Quando non riesce a ottenere la nomination dei Repubblicani, Roosevelt crea un suo partito personale, il Progressive Party. Viereck partecipa alla convention dei Repubblicani a Chicago, poi appoggia la costruzione del nuovo partito ed è talmente entusiasta di Roosevelt che torna a scrivere poesie, inneggiando in The Hymn of Armageddon all’uomo che considerava ormai il suo idolo.

Il progetto di un nuovo partito fallisce e viene eletto presidente il democratico Woodrow Wilson, ma la collaborazione tra Viereck e Roosevelt prosegue, orchestrando polemiche con il nuovo inquilino della Casa Bianca.

Lo scoppio della Prima guerra mondiale doveva però incrinare l’amicizia tra loro. Viereck era deluso dalle posizioni di Roosevelt, che non sosteneva la Germania nella Grande Guerra, nonostante la simpatia che aveva dimostrato in precedenza per il Kaiser. Tra febbraio e marzo 1915 c’è uno scambio di lettere tra i due, chiuso da una ramanzina di Roosevelt al suo giovane seguace: “Hai reso evidente che tutto il tuo cuore sta con il paese che preferisci, la Germania, e non con il paese che ti ha adottato, gli Stati Uniti. In queste circostanze qui non sei un buon cittadino… Per quanto mi riguarda, non ammetto una fedeltà divisa in due per chi ha la cittadinanza degli Stati Uniti” (lettera del 15 marzo 19195 conservata al Theodore Roosevelt Center).

L’ex presidente si spinge a invitare Viereck a lasciare l’America e tenta persino di farlo espellere dalla Poetry Society. Le reprimende di Roosevelt nei confronti di Viereck, però, non divennero mai pubbliche e i due continuarono a scambiarsi lettere.

Alla morte di Roosevelt, lo scrittore gli dedicò un libro (Roosevelt: A Study in Ambivalence, Jackson Press, New York 1919) spiegando il loro rapporto di odio-amore. Per un lungo periodo avevano condiviso l’ostilità verso l’Inghilterra e l’ammirazione per la Germania, ma allo scoppio della Grande Guerra l’americanismo di Roosevelt diventò incompatibile con le posizioni di Viereck. Tuttavia, se Roosevelt condannava il Viereck filogermanico, continuava a condividere con lui idee di fondo (vedi, tra l’altro, Patrick J. Quinn, Aleister Crowley, Sylvester Viereck. Literature, Lust, and the Great War, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle upon Tyne 2021).

Anni dopo, con il nuovo conflitto mondiale, il filonazista Viereck sarà affascinato da un altro “superuomo”: nel suo ufficio di New York insieme a un ritratto di Roosevelt campeggiava una foto ancora più grande di Adolf Hitler (Rachel Maddow, Prequel: An American Fight Against Fascism, Crown, New York 2023). Per ironia della sorte, a causa delle sue attività a favore della Germania nazista Viereck si troverà contro un altro Roosevelt, il cugino di Teddy diventato a sua volta presidente degli Usa nel 1933, Franklin Delano Roosevelt.

Una lettera di George Sylvester Viereck a Theodore Roosevelt del 1912

Roosevelt e i pipistrelli succhiasangue

Finito il suo incarico presidenziale, Theodore Roosevelt si era dedicato ai viaggi e alla passione per la caccia. Da un libro che dedicò alle esperienze in Brasile (Through the Brazilian Wilderness, Scribner’s Sons, New York 1914), apprendiamo che con i suoi compagni di caccia discuteva “dei fatti inspiegabili che avvenivano sulla mutevole frontiera tra la vita e la morte, tra il conosciuto e lo sconosciuto, e di vampiri, licantropi e fantasmi”.

Proprio in Brasile, Roosevelt fece la conoscenza dei pipistrelli vampiri, trattandone in un capitolo del suo libro: “Eravamo ora nella terra dei pipistrelli succhiasangue, i pipistrelli vampiri che succhiano il sangue degli esseri viventi, aggrappati o sospesi in volo sopra la schiena di un cavallo o di una mucca, oppure sulla mano o il piede di un uomo addormentato, facendo una ferita dalla quale il sangue continua a fluire molto dopo che la sete del pipistrello si è saziata. A Tapirapoan c’erano dei bovini e uno dei vitelli si presentò una mattina indebolito per la perdita di sangue che ancora gocciolava da una ferita sulla parte anteriore della schiena, fatta da un pipistrello. Ma i pipistrelli creano pochi danni in questa zona a paragone di quanto fanno in altri luoghi, dove non solo i muli e i buoi ma anche le galline devono essere custoditi di notte dietro protezioni a prova di pipistrello, altrimenti rischiano la vita. I responsabili principali e abituali sono varie specie di pipistrelli piuttosto piccoli, ma si dice che altri tipi di pipistrelli brasiliani abbiano acquisito quella maligna abitudine, almeno sporadicamente e localmente, variando la loro consueta dieta con bevute di sangue vivo. Uno dei membri brasiliani del nostro gruppo, il botanico Hoehne, era anche zoologo. Mi informò di aver appreso che persino i grandi pipistrelli frugivori si nutrono di sangue. Secondo le sue osservazioni, non sono loro a fare la ferita iniziale, ma dopo che è stata fatta da un vero vampiro leccano il sangue che fluisce e allargano la ferita. In America del sud mancano, rispetto a Africa e India, i grandi carnivori dalla straordinaria ferocia che mangiano uomini, ma in compenso si trovano piccole creature assetate di sangue che altrove sono innocue. Solo qui dei pesci non più grandi di una trota uccidono i bagnanti e dei pipistrelli dalle dimensioni dei comuni ‘topolini volanti’ dell’emisfero settentrionale prosciugano di sangue vitale grandi animali e l’uomo stesso”.

Un’ulteriore presenza dei pipistrelli, infine, si rintraccia in un disegno che Roosevelt allegò a una lettera indirizzata al direttore di “Emporia Gazette” (1 gennaio 1917) dove illustrava i “fallimentari tentativi” di espellere dei pipistrelli da un campanile.

Il disegno di Theodore Roosevelt sui pipistrelli

Roosevelt cacciatore di vampiri

Il nesso tra Roosevelt e i vampiri si è trasferito in romanzi e racconti che lo vedono impegnato in una lotta senza quartiere, nel suo stile, contro i nonmorti. Un primo esempio è offerto da Mike Resnick, scrittore di fantascienza per cinque volte premio Hugo, in Two Hunters in Manhattan (nell’antologia The Secret History of Vampires, a cura di Darrell Schweitzer e Martin H. Greenberg, Daw Books, New York 2007; ristampato in Mike Resnick, The Other Teddy Roosevelts, Subterranean, Burton 2008). Il racconto è ambientato nel 1897, quando Roosevelt era capo della polizia di New York: il vampiro greco Demosthenes miete vittime in città e Roosevelt lo uccide trafiggendolo con un bastone da passeggio imbevuto di acqua santa. Il metodo usato da Roosevelt per eliminare il vampiro ricorda una sua celebre frase, “Speak softly and carry a big stick; you will go far” (Parla gentilmente e portati un grosso bastone; andrai lontano), che aveva utilizzato per spiegare la sua politica estera.

Roosevelt è a caccia di vampiri anche in un breve romanzo, scritto da James Fortescue, dal titolo Theodore Roosevelt: Vampire Slayer (New Street Communications, Wickford 2012). Nella prefazione, l’autore afferma di essere imparentato con Robert Roosevelt e quindi “distante cugino” di Theodore, dicendosi certo che Stoker abbia basato il personaggio di Van Helsing proprio su Teddy Roosevelt. Nel romanzo, Roosevelt poliziotto insegue i vampiri dall’università di Harvard al quartiere a luci rosse di Manhattan.

Roosevelt torna a confrontarsi con i vampiri nel romanzo The Last American Vampire (Hachette, New York 2015) di Seth Grahame-Smith che già si era dedicato ad Abramo Lincoln come cacciatore di vampiri. Il protagonista del libro, il vampiro Henry O. Sturges che aveva contagiato Lincoln, incontra Roosevelt, a conoscenza dell’esistenza dei vampiri e sicuro dell’affidabilità del suo interlocutore. A lui confida le preoccupazioni per l’uso degli anarchici da parte dei vampiri: “Secondo Roosevelt i movimenti anarchici in Europa e negli Stati Uniti, erano di fatto parte di una ‘nascosta resurrezione vampiresca’ con l’obiettivo di sovvertire i governi che erano diventati sempre più ostili nei confronti dei vampiri in seguito alla Guerra Civile. Con la diminuzione del loro numero, quei vampiri avevano approfittato di un movimento esistente, reclutando alla propria causa giovani menti ideologizzate e facilmente manipolabili. E non solo negli Stati Uniti”.

Ancora vampiri per Roosevelt in Stoker’s Wilde West (Flame Tree, London 2020), parte di una serie di romanzi scritti da Stephen Hopstaken e Melissa Prusi  che hanno come protagonisti Oscar Wilde e Bram Stoker, uniti nella lotta a minacciose forze soprannaturali. Sotto forma di romanzo epistolare ambientato nel 1882, in Stoker’s Wilde West oltre ai due scrittori irlandesi ritroviamo Henry Irving e Florence Stoker. Questa volta l’esperienza di Stoker e Wilde è richiesta da Robert Roosevelt e dal nipote Teddy che li chiamano per contribuire alla sconfitta di una banda di pistoleri vampiri dediti alle rapine nel Far West.

Due fantasie letterarie su Roosevelt cacciatore di vampiri

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 7ter

I vampiri invadono la Russia

L’influsso della poesia The Vampire di Rudyard Kipling, e del quadro di Philip Burne-Jones che l’aveva ispirata, nei primi anni del Novecento si spinse fino alla Russia. Contaminò la cultura e il nascente cinema, per quanto in modo limitato e circoscritto. In Russia la creatura che in occidente era definita con il termine vampiro si chiamava upyr’. Dagli inizi del XX secolo, però, anche in Russia si adotta il termine occidentale per descrivere creature soprannaturali che succhiano il sangue o donne fatali che sottraggono energie.

A dimostrazione di quell’influsso, dai risvolti anche lessicali, nel gennaio 1906 avvia le pubblicazioni a San Pietroburgo una rivista settimanale “artistica e satirica” dal titolo “Vampir’”, chiusa dopo otto numeri. Il periodico, con le sue eleganti illustrazioni e le sue invettive politiche, si inseriva nella vivacità culturale seguita alla rivoluzione antizarista del 1905. Ne era caporedattore Benedikt Avraamovich Katlovker, che tra i tanti suoi pseudonimi si firmava “Upyr’” (tra il 1909 e il 1917, invece, sotto lo pseudonimo B. Reutsky pubblicò la serie di romanzi neri e d’avventura “Dalle note di uno psichiatra”).

Non è un caso poi che Vsevolod Mejerchold abbia tradotto in russo l’opera teatrale di Frank Wedekind Erdgeist (Lo spirito della terra), dove compare il personaggio della donna fatale Lulu, dandogli il titolo Vampir (volume pubblicato da Shipovnik, Sankt-Peterburg 1908).

Copertina del primo numero della rivista “Vampir” (1906)

Per quanto riguarda il cinema russo, un primo esempio di influenza della Vampira kiplinghiana può farsi risalire al dicembre 1912, quando esce nelle sale Tajna doma n. 5 (Il mistero della casa n. 5), pellicola di circa mezz’ora realizzata dalla sede moscovita della francese Pathé. Diretto da Kai Gansen, il film si avvaleva della fotografia suggestiva di Alexandr Levitsky (Premio Stalin nel 1949).

Tajna doma n. 5 risulta conservato negli archivi russi del Gosfilmofond, senza didascalie, ma ne sono stati diffusi solo i primi 15 minuti (esisterebbe anche una copia ungherese, dal titolo Az 5-ös számú ház titka). Inoltre, a maggio 1913 il film uscì in Francia come Le Mystère de la rue Donskaya ed è stato restaurato nel 2021 dalla Fondation Jérôme Seydoux-Pathé che ha ripristinato le musiche di accompagnamento composte da Stephan Oliva. Anche questo restauro non è disponibile al pubblico, ma dalla sceneggiatura della versione francese, conservata alla Bibliothèque National de France, si desume la trama precisa del film.

Una donna che frequenta i circoli nobiliari, Elsa (Vera Pashennaya), viene lasciata dal ricco conte Darski (Boris Piasetski) per un’altra donna. Mossa dalla vendetta, Elsa orchestra una trappola con il suo ex amante Dobrov (Mikhail Doronin) e convince Darski a passare per sfida una notte in una casa abbandonata che si ritiene infestata dal fantasma della proprietaria, morta misteriosamente: secondo le dicerie, il suo ritratto a mezzanotte prenderebbe vita per uccidere qualsiasi uomo si trovi di fronte. Quando Darski si reca nella casa, Elsa si veste in abiti ottocenteschi e si finge il dipinto della defunta padrona di casa, appeso a una parete, per terrorizzare il conte. Poi il complice Dobrov spara a Darski ed è simulato un suicidio, lasciando un biglietto accanto al corpo: “Non avendo la forza di sopportare più a lungo tanto orrore, metto fine al mio supplizio”. La mattina dopo, Darski è trovato morto dalla ragazza che lo amava e la perfida Elsa gode della vendetta (“il dolore della rivale raddoppia la sua soddisfazione”, si legge nel materiale pubblicitario).

Il film Tajna doma n. 5 univa luoghi comuni dell’immaginario macabro, come la casa infestata e il ritratto che prende vita, togliendo però ogni aspetto soprannaturale alla vicenda. Il principale personaggio femminile è indubbiamente accostabile alle donne vampiro che si erano profilate nel cinema americano ed europeo. È significativo che in Tajna doma n. 5 la Vampira resti impunita e, nonostante palesi dei rimorsi in alcune espressioni nella parte finale del film, sia fiera del suo trionfo criminale. Questa protovampira del cinema russo non è inquadrata in una postura simile al quadro di Philip Burne-Jones, ma si erge vittoriosa, in piedi, accanto al cadavere della sua vittima. A interpretare la vampiresca Elsa era Vera Pashennaya che resterà un’attrice molto attiva e apprezzata anche nel periodo sovietico.

La Vampira nel ritratto (a sinistra) e poi trionfante sulla sua vittima in Tajna doma n. 5 (1912)

L’influenza della moda occidentale per la Vampira kiplinghiana, e in particolare per i balletti che aveva ispirato, si affaccia in Russia nel 1914 con il corto di circa tre minuti Tanez vampira (Danza del vampiro) della casa produttrice Tieman e Reinhardt. Le riprese erano ancora una volta di Alexandr Levitsky, qui sotto la direzione di Yakov Protazanov (da ricordare, tra l’altro, per la sua regia del celebre film sovietico di fantascienza Aelita, nel 1924). La danza era eseguita da V. Laskina e da Richard Boleslawski, all’epoca attore teatrale e ballerino, poi regista di varie pellicole di successo a Hollywood.

Il cortometraggio è perduto e apparteneva al genere allora popolare in Russia del film-balet, brevi riprese cinematografiche di numeri danzanti. La rivista “Sine-Fono” dedicò due brevi segnalazioni al film (15 febbraio 1914; 1 marzo 1914), definendo la Danza del vampiro “degna rivale del Tango”.

L’esempio più eclatante di Vampira nel cinema russo compare un anno dopo, nel 1915, con Zagrobnaia skitalitsa (Vagabonda dell’aldilà), noto anche come Zhenshchina-vampir (La donna-vampiro). Secondo Gary D. Rhodes (The First Feature-Length Vampire Film in gdrhodes.medium.com, 28 ottobre 2023) sarebbe “il primo lungometraggio sui vampiri nella storia mondiale del cinema”, perché mette esplicitamente in scena una vampira soprannaturale, tornata dalla morte per succhiare il sangue, e non una semplice femmina che insidia energie e beni del maschio.

Il film è perduto e restano oggi a disposizione solo cinque foto. Diretto e interpretato da Viacheslav Turzhanskii (una volta emigrato in Europa, dopo la Rivoluzione sovietica, prese il nome di Viktor Tourjansky), Zagrobnaia skitalitsa vedeva nella parte della Vampira l’attrice Olga Baclanova che continuerà a interpretare bionde donne fatali anche dopo il suo trasferimento in America nel 1925, in film come The Man Who Laughs (1928) di Paul Leni e Freaks (1932) di Tod Browning.

La giovane Vera (Olga Baclanova) si è innamorata dell’artista Amosov (Viacheslav Turzhanskii), ma si toglie la vita quando scopre che l’uomo la considera solo un passatempo tra un’avventura amorosa e l’altra. Nella morte, l’anima di Vera si fonde con quella di una ragazza che le assomiglia. Vent’anni dopo, la reincarnazione di Vera è una donna felicemente sposata. È però consumata da una strana malattia che i medici non sanno spiegarsi. Per sopravvivere, Vera di notte si nutre di sangue umano. Uno spiritista scopre la verità e grazie all’evocazione di un’entità dell’oltretomba la Vampira è neutralizzata.

Con Zagrobnaia skitalitsa / Zhenshchina-vampir abbiamo la prova che la Vampira, nel 1915, non era appannaggio solo del cinema americano, dato che nello stesso momento anche in Russia un personaggio analogo (e per di più direttamente connesso alla tradizione dei nonmorti) era al centro di un film. I critici russi non si distanziarono molto dai loro colleghi americani nel liquidare frettolosamente una pellicola che affrontava temi sensibili per il perbenismo, definendola sia “vergognosa” sia incapace di spaventare davvero. Il sindaco di Pietrogrado (oggi San Pietroburgo) proibì le proiezioni del film. Del resto, la garanzia che Zagrobnaia skitalitsa avrebbe fatto scandalo veniva dal nome dell’autore del soggetto, Anatolij Kamenskij, all’epoca celebre scrittore estremo, tanto che ancora nel 1976 la storica del cinema Neja Zorkaja stigmatizzava “l’esecrabile produzione del belletrista erotico Anatolij Kamenskij” (Sfondi e requisiti. La pornografia sugli schermi degli anni Dieci, ora in Letteratura e cinema nel Modernismo russo, a cura di Claudia Criveller e Anita Frison, WriteUp Books, Roma 2022).

Zagrobnaia skitalitsa / Zhenshchina-vampir (1915)

Nello stesso 1915 di Zagrobnaia skitalitsa, il cinema muto russo ci offre un’altra Vampira in Posle smerti (Dopo la morte) di Evgeny Bauer, ispirato a un racconto di Ivan Turgenev. Può sembrare una forzatura definire Vampira lo spettro al centro del film, ma sicuramente molte sequenze indicano un riferimento alla vampiresca donna distruttiva, presentando un uomo vinto e consumato da una figura femminile che torna dalla morte.

Il giovane scienziato Andrei Bagrov (Witold Polonsky), dedito solo ai suoi studi, rifiuta l’amore dell’attrice Zoya Kadmina (Vera Karalli) e la ragazza si avvelena. Leggendo il diario della suicida, Andrei comincia ad avere allucinazioni in cui vede Zoya vestita di bianco, il volto angelico e sofferente, che gli indica l’Aldilà. Col protrarsi delle visite dello spettro, il giovane deperisce, sta sempre più male. “Hai vinto… Prendimi! Sono tuo…”, esclama infine. Dopo l’ennesima apparizione, Andrei muore nel suo letto.

Il film Posle smerti è sopravvissuto, in ottime condizioni, permettendoci di valutare le effettive assonanze con il vampirismo. Per quanto immateriale, il fantasma al centro del film assomma le caratteristiche del vampiro: avvicina la bocca al collo del suo amato, lasciando intendere il desiderio di un morso, e lo sovrasta mentre è privo di sensi. Una scena fa sorgere il dubbio che Zoya sia un essere concreto, come i vampiri leggendari, perché Andrei dopo una delle apparizioni si risveglia e si trova tra le mani una ciocca di capelli della ragazza.

L’attrice Vera Karalli che interpretava la pseudovampira ha avuto una notevole carriera durante il cinema muto e il suo nome è legato a una vicenda importante della storia russa: era quasi certamente presente, anche se non è stato mai ammesso dai testimoni, nel palazzo del principe Feliks Jusupov quando, in una notte del dicembre 1916, venne ucciso con veleno e colpi di pistola Rasputin, il famoso consigliere dello zar. La Karalli era l’amante di uno dei cospiratori che eliminarono il “monaco nero”, il granduca Dmitrij Pavlovič Romanov, cugino dello zar Nicola II (e aspirante al trono).

Lo spettro vampiresco di Posle smerti (1915)

Per quella catena di coincidenze bizzarre che connota a volte il “vampirismo” dell’immaginario, uno degli attori di Posle smerti, Georgij Azagarov, nel 1917 scrive e dirige il film Zhenshchina vampir (La donna vampiro) che esce in sala nei giorni della Rivoluzione bolscevica. Era l’adattamento cinematografico del racconto Ubiystvo (Omicidio; in Sobraniye sochineniy, vol. 7, 1906) di Vlas Doroshevich, prolifico giornalista e scrittore che vantava oltre cento pseudonimi.

Il testo di Doroshevich è un’agghiacciante descrizione della lenta morte di un uomo, inizialmente convinto di avere solo una bronchite e a poco a poco consapevole che la sua bellissima moglie lo sta uccidendo, per impadronirsi dell’eredità. Ogni bacio che la donna gli concede lo porta verso la morte. L’uomo, in scenari tropicali, si immagina “sdraiato sull’erba, morente, mentre un vampiro succhia il sangue”.

Il film Zhenshchina vampir proponeva la stessa situazione del racconto, con il protagonista Victor (Nikolaj Rimskij) che è progressivamente indebolito dai baci e dalle attrattive sessuali di Alla (Vera Charova). Leggendo una recensione, recuperata da Gary D. Rhodes e apparsa su “Sine-Fono” (n. 1-2, 1918), pare che nel film comparisse anche il quadro di una “donna vampiro” che Victor ammira e che prende vita confondendosi con l’immagine di Alla. Il film è perduto, quindi non è dato sapere quali fossero le caratteristiche del ritratto, ma possiamo fantasticare su un’ipotesi: poteva trattarsi di una riproduzione del dipinto The Vampire di Burne-Jones?

Avendo lo stesso titolo (Zhenshchina vampir) del film con Olga Baclanova del 1915, l’opera di Azagarov è spesso confusa con la pellicola anteriore. Quel titolo, in ogni caso, è rimasto a lungo nella memoria russa, come dimostra una citazione nel film sovietico del 1968 Sluzhili dva tovarishcha (Servivano due compagni, 1968) di Yevgeni Karelov. Nella prima parte, ambientata nel 1920, un comandante dell’Esercito rosso tesse le lodi del cinema a un soldato, per convincerlo della necessità di girare un film sugli eroi della Rivoluzione: “Il cinema è una gran cosa! Cinema! Hai visto Zhenshchina vampir? Resti lì seduto, sconvolto dall’orrore”.

Non sappiamo a quale delle due “donne-vampiro” del cinema russo si riferisse quella citazione, ma indubbiamente si evince che almeno una di quelle pellicole fosse popolare ed evocativa. La figura della Vampira aveva conquistato anche la Russia.

Zhenshchina vampir, 1917 (dal forum del sito kino-teatr.ru)

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 7bis

Mute Vampire italiane

L’ondata di Vampire avviata dal 1897 grazie alla poesia The Vampire di Rudyard Kipling e all’omonimo quadro di Philip Burne-Jones sfiorò anche l’Italia. Da noi, i vampiri leggendari avevano avuto relativa popolarità, nonostante all’estero si fantasticasse spesso di un’Italia “terra di vampiri”: nel pieno della moda vampiresca di inizi Novecento, ad esempio, Francis Marion Crawford ambientò in Calabria il suo racconto For the Blood Is the Life (Perché il sangue è la vita, 1905).

Una riproduzione del quadro di Philip Burne-Jones da “Harper’s Weekly” (31 gennaio 1903)

Per quanto il vampiro vero e proprio non avesse un’attenzione particolare in Italia, sappiamo però che il fantastico, il gotico e il macabro non erano affatto estranei alla cultura italiana di allora, come hanno dimostrato dettagliatamente, tra gli altri, gli studi di Fabrizio Foni. Così, anche la Vampira kiplinghiana ha avuto un suo passaggio fugace in Italia.

Come spesso avveniva nella cultura nostrana, sapevamo innovare e rielaborare le mode estere: nel caso della Vampira si riuscì a unire la donna fatale al western. Nel dicembre 1913, infatti, esce nelle sale La vampira indiana, prodotto dalla torinese Aquila Films. A dirigerlo e interpretarlo era Roberto Roberti, pseudonimo di Vincenzo Leone, molto attivo nel cinema muto. E nel cast c’era Bice Waleran (o Valeran), pseudonimo di Edvige Valcarenghi: Roberti e la Waleran diventeranno genitori, nel 1929, di Sergio Leone, destinato a una splendida carriera proprio nel cinema western.

Il western non era estraneo all’immaginario italiano di quegli anni. Tra il 1908 e il 1910 Emilio Salgari aveva pubblicato una trilogia di romanzi definita “Ciclo del Far West” e le atmosfere western erano apparse clamorosamente nell’opera lirica di Giacomo Puccini La fanciulla del West (1910). Spesso negli studi di storia del cinema si definisce La vampira indiana “il primo western italiano”, ma non è del tutto corretto. Nel maggio 1913, quindi diversi mesi prima del film di Roberti, un’altra casa produttrice torinese, la Savoia Film, aveva realizzato Nel vortice del destino, vero e proprio western.

La particolarità di La vampira indiana sta nella fusione del western con la figura della femme fatale “vampiresca”. La donna del titolo è una “pellerossa” che, per aiutare i fratelli, uccide un uomo e fa accusare e condannare un innocente. Ma la figlia di quest’ultimo riesce a far riconoscere l’innocenza del padre. Commentava il quindicinale “Il Maggese cinematografico” (n. 1, 1914), descrivendo la cattiveria della “vampira”: “Ammettiamo pure che una donna indiana commetta dei crimini per beneficare i suoi fratelli, ma che faccia tutto da sé è un po’ troppo! Ed ha molto da fare e cose le più svariate e difficili. Non neghiamo però che ha della grande abilità. Entra ed esce nei palazzi e fa il comodo suo senza trovare alcuno che le sbarri il passo. Ammazza, telefona e fa condannare in sua vece un povero innocente”.

Il film è perduto, sopravvive una solo foto. “La Stampa” (29 dicembre 1913) in un breve trafiletto definiva La vampira indiana “straordinario cinedramma d’eccezionale interesse drammatico e con messa in scena veramente sfarzosa”, aggiungendo che “si prevede un successo grandissimo”.

L’unica foto esistente di La vampira indiana

A causa della scarsa documentazione e delle poche recensioni dell’epoca, non possiamo sapere se la Vampira fosse interpretata da Bice Waleran o da quella che risulta l’attrice principale del film, Antonietta Calderari, vera star delle produzioni Aquila e spesso ritratta in pose da vamp. Sergio Leone pareva certo, comunque, che fosse sua madre Bice la donna a cavallo che compare nell’unica foto esistente. Nel saggio di Lorenzo Codelli Il West in Europa, l’Europa nel West (in  Storia del cinema mondialeL’Europa. Miti, luoghi, divi, Volume I, a cura di Gian Piero Brunetta, Einaudi, Torino 1999) si legge: “Ricordo bene come Leone osservasse intensamente quell’unica foto rimasta de La vampira indiana – una scena in cui sua madre a cavallo in tenuta da pellirossa è attorniata da altri due indiani con tante piume folte sul capo, sullo sfondo d’un accampamento – quasi tentando di animare quel reperto immobile”. Codelli aggiunge che Leone “non si dava pace che tra i fortunosi ritrovamenti [delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone] non comparisse ancora quella mitica pellicola paterna”. E Vittorio Martinelli, ricordando i suoi incontri con Leone, in compagnia  di Aldo Bernardini durante la stesura di un saggio su Roberto Roberti, scrive: “Sergio Leone ci mostrò con molto orgoglio una fotografia di La vampira indiana, unica testimonianza rimasta di quell’impresa pionieristica e, a libro pubblicato, si meravigliò che avessimo trovato anche alcuni brani della critica del tempo” (Vittorio Martinelli, Laggiù nell’Arizona, in “Bianco & nero” n. 3, 1997).

Dunque nemmeno Sergio Leone possedeva altri materiali e documenti su quel film interpretato dai suoi genitori. Eppure era molto legato a La vampira indiana che vedeva quasi come un presagio del suo successo nel “western all’italiana” (in omaggio al padre firmò il suo primo film western, Per un pugno di dollari, con lo pseudonimo di Bob Robertson, cioè “figlio di Roberto”). Un fumetto dedicato nel 2019 alla vita del regista, intitolato Sergio Leone e pubblicato da Glénat (con disegni di Philan e testi di Noël Simsolo, amico di Leone e studioso del suo cinema), ritrae in una vignetta Sergio bambino che nel 1937 scopre la foto della madre in La vampira indiana.

Sergio Leone bambino guarda la foto della madre in La vampira indiana nel fumetto del 2019

Una vampira della notte

Le Vampire italiane dei primi anni del Novecento non finiscono con La vampira indiana. Nel 1914 la Aquila Films vende all’americana Greene’s Feature Photo Plays un film che viene distribuito come Vampires of the Night (paradossalmente è lo stesso titolo di lavorazione che nel 1935 sarà assegnato a Mark of the Vampire di Tod Browning). Si presume che il cast fosse simile a quello di La vampira indiana, perché i film Aquila di quel periodo erano quasi tutti realizzati con gli stessi attori.

Secondo la novelization del film, pubblicata da “Illustrated Film Monthly” (marzo-agosto 1914), la trama muove da uno scambio di neonati nella culla: Judith, la figlia di un criminale che è stato impiccato, viene sostituita alla piccola Edna, duchessa di Burville. Crescendo, Judith manifesta la stessa anima malvagia di suo padre e nonostante sia una duchessa guida una banda di delinquenti. Innamorata di un poeta “alla Byron”, Lord Norman, la malvagia Judith si vede portar via l’oggetto del suo amore proprio da Edna, ridotta a cantare in strada per sopravvivere. Quando la verità sulle sue origini viene svelata, Judith si uccide.

La novelization di Vampires of the Night su “Illustrated Film Monthly” (marzo-agosto 1914)

Si può ipotizzare, come fa Gary D. Rhodes, che Vampires of the Night fosse la versione americana di La belva di mezzanotte (o La belva della mezzanotte), uscito in Italia nel settembre 1913. Secondo Aldo Bernardini e Vittorio Martinelli (Il cinema muto italiano, 1905-1931, CSC-Nuova Eri, Roma-Torino, 1991-1996), La belva di mezzanotte era interpretato nel ruolo della duchessa da Claudia Gaffino Zambuto e nella parte del Lord dal marito Gero Zambuto (forse anche regista del film, suo esordio dietro la macchina da presa): entrambi erano stati da poco reclutati dalla Aquila Films. Viceversa “Illustrated Film Monthly” indica come protagonista femminile Antonietta Calderari, ponendo la sua foto in apertura della novelization di Vampires of the Night.

La similitudine tra le trame dei due film e l’assonanza dei titoli è tale da rendere quasi certo che La belva di mezzanotte sia Vampires of the Night. Comunque, i nomi dei personaggi in La belva di mezzanotte differiscono da quelli riportati dalla novelization americana di Vampires of the Night: almeno secondo quanto si evince da “La Vita Cinematografica” (15 ottobre 1913), i due protagonisti principali del film italiano si chiamavano duchessa di Burleigh e Lord Hashton. È possibile inoltre che una stessa attrice interpretasse entrambi i ruoli, Edna e Judith, dato che veniva sottolineata l’incredibile somiglianza tra le due donne.

Antonietta Calderari

Altre figure vampiresche del cinema muto in Italia

La presenza nel cinema italiano della Vampira di origine kiplinghiana si riduce dunque a due titoli. Inoltre, Dracula non era stato ancora tradotto nella nostra lingua e i film esteri che abbiamo citato nell’articolo precedente non arrivavano nelle sale italiane, già occupate dalla innumerevole produzione cinematografica nostrana. La critica, poi, stigmatizzava ogni incursione del cinema italiano nel macabro o nell’orrorifico, reputando inadatta al gusto “mediterraneo” ogni storia soprannaturale di vampiri o fantasmi.

Se il Decadentismo aveva offerto donne dominanti e disinibite che destabilizzavano l’uomo, il cinema muto italiano non sembra quindi assumere la figura della Vampira di Kipling. Ma l’immaginario non era certo impermeabile alle suggestioni della voga “straniera” delle donne fatali dai tratti vampireschi. Anzi, il nostro cinema muto aveva creato il fenomeno peculiare delle Dive, strette parenti delle Vampire, ma con significative differenze: “Le dive italiane non uccidono per pura crudeltà, ma perché i loro personaggi si ribellano contro molestia sessuale, stupro o adulterio. Sotto questo aspetto, la diva italiana non accoglie la vocazione omicida gratuita o egoistica della femme fatale. In altre parole, la diva non uccide per ottenere un avanzamento sociale” (Angela Dalle Vacche, Diva. Defiance and Passion in Early Italian Cinema, University of Texas Press, Austin 2008).

L’uomo esanime e la donna dominante in Il fuoco (1916)

Tra le attrici che per prime sono state caratterizzate come interpreti di donne fatali spicca Pina Menichelli, a partire da Il fuoco (1916), film che contiene un’immagine della perfida donna incombente su un uomo riverso molto evocativa del quadro The Vampire di Burne-Jones. Come in alcune pellicole americane sulla Vampira, i film italiani sulle Dive mettevano a volte in contrapposizione le figure della donna senza scrupoli che seduce e porta l’uomo alla distruzione e della Madre che tutela la famiglia e i figli. Molte erano le storie “in costume” che inscenavano donne crudeli o perverse sotto le spoglie di grandi personaggi femminili (reali o leggendari) dell’antichità, regine e seduttrici dell’Antica Roma o di secoli lontani.

Il nesso con la sottrazione di energia o di sangue, determinante nel successo della Vampira di Kipling, non pare presentarsi nel cinema muto italiano. L’uso stesso del termine “vampiro” è rarissimo, così come il riferimento ai vampiri soprannaturali nelle sceneggiature. Gli unici altri esempi (tutti perduti) di titoli che contengono quel termine, oltre a La vampira indiana, sono La torre dei vampiri (1914), Il vampiro (1915) e infine La carezza del vampiro (1918).

Prodotto dalla Ambrosia film e distribuito in America come The Vampire’s Tower, il film La torre dei vampiri era diretto da Gino Zaccaria e raccontava di una torre attorniata, secondo una leggenda, da pipistrelli vampiri in cui si sono incarnate le anime dei dannati: lì si nasconde  l’ex boia di Parigi (Oreste Grandi), scacciato dalla Rivoluzione, che si accanisce contro una coppia in procinto di matrimonio, la Fornarina (Lia Negro) e Raimondo (Alfredo Bertone). Il termine “vampiro” appare utilizzato quindi per descrivere personaggi criminali particolarmente spietati. Un delinquente è anche il protagonista di Il vampiro, prodotto dalla Film Artistica Gloria di Torino e diretto da Vittorio Rossi Pianelli, con Dante Cappelli e Lydia Quaranta. Uscito nel gennaio 1915, subì i tagli della censura per una scena cruenta. Anche se Bernardini e Martinelli nella loro storia del cinema muto italiano indicano Luigi Capuana come fonte letteraria del film, certo non traeva ispirazione dal suo racconto Un vampiro (1904) che aveva ben diverso contenuto. Così infatti è sintetizzata la trama del film su “La Vita Cinematografica” (22 febbraio1915): “Un cotale che vuole sposare per forza una ragazza che ama un giovane cugino. Un delitto che porta l’innocente in galera. Punizione del colpevole e trionfo della giustizia”.

Altrettanto metaforico sarà l’uso del termine per il titolo del film La carezza del vampiro, con visto della censura del novembre 1918, ma apparentemente distribuito prima all’estero che in Italia: anche in questo caso, il “vampiro” è un malfattore che agisce nel mondo dell’aristocrazia e finisce sconfitto niente meno che da Maciste.

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 7

La Vampira di Kipling invade il cinema

Quando nel 1897 Rudyard Kipling scrisse la poesia The Vampire per il quadro di Philip Burne-Jones, il cinema era ancora ai suoi primi passi. Nel giro di pochi anni, però, le produzioni cinematografiche e le sale per proiezioni erano aumentate: era inevitabile che l’ondata di interesse per la figura vampirica proposta da Kipling si presentasse anche sugli schermi.

Come abbiamo visto in un articolo precedente, l’unione tra vampiro leggendario e donna fatale ha una prima espressione al cinema nel 1905, grazie al corto Loie Fuller, prodotto dalla Pathé Frères.

Loie Fuller, della durata di un minuto e mezzo, colorizzato a mano, si avvia con le immagini di un pipistrello che vola su una terrazza e che un semplice effetto di montaggio fa tramutare in una donna dall’ampio abito. Alzando le braccia, la donna rende il costume simile ad ali di pipistrello e inizia una danza facendo vorticare il vestito, che cambia continuamente colore, nella tipica modalità delle rappresentazioni di Loïe Fuller. Dopo essersi completamente avvolta nell’abito, la donna scompare in una dissolvenza.

Il cortometraggio Loie Fuller (1905)

Non è certo che nel filmato sia ripresa proprio la Fuller o un’altra ballerina che esegue le sue tipiche danze, né c’è conferma che il regista fosse Segundo de Chomón, il cineasta spagnolo grande esperto di colorizzazione delle pellicole e di trucchi visivi. Secondo gli storici del cinema Loie Fuller si contende il ruolo di primo film sui vampiri con Le manoir du diable (1896) di Georges Méliès. Di certo entrambi condividono le immagini della trasformazione di un pipistrello in un essere umano, ma il corto di Méliès è incentrato su un tipico diavolo dal berretto piumato, non su un vampiro, per quanto arretri alla vista di una croce come i suoi colleghi succhiasangue.

Gary D. Rhodes (Vampires in Silent Cinema, Edinburgh University Press, Edinburgh 2024) assegna il primato a Loie Fuller, mentre David Annwn Jones (Vampires on the Silent Screen. Cinema’s First Age of Vampires 1897-1922, Palgrave Macmillan, London 2023) gli ha contestato che la caratteristica necessaria per definire un “vampiro” è il consumo di sangue, del tutto assente nel corto del 1905.

Loie Fuller si collega comunque a un immaginario che fonde il vampiro soprannaturale e la donna, sicuramente influenzato dalla Vampira sorta dalla duplice opera di Burne-Jones e Kipling che, come abbiamo visto, avrà di lì a poco un’affermazione decisiva proprio nella danza. A essere evocato dal corto Loie Fuller non è tanto il “vampirismo” (inteso come atto di succhiare il sangue da parte di un nonmorto), quanto un generico “vampiro” (figura soprannaturale e minacciosa) associato al pipistrello. La parentela tra vampiro e pipistrello era già ben radicata all’inizio del Novecento, grazie soprattutto alle arti grafiche che, ad esempio nelle illustrazioni di satira politica, mostravano da decenni il pipistrello come animale feroce e spesso gigantesco impegnato ad attaccare il collo di esseri umani per suggerne il sangue. Nel cinema, l’associazione tra pipistrello e vampiro in quello stesso 1905 era evidenziato dalle donne con ali da chirottero nel corto L’antre infernal di Gaston Velle.

La trasformazione da pipistrello a diavolo in Le manoir du diable (1896)

The Vampire (1910)

Loie Fuller non faceva alcun riferimento diretto alla figura della Vampira popolarizzata dalla poesia omonima di Rudyard Kipling. Ma dopo pochi anni, nel 1910, la Vampira di Kipling e Burne-Jones arriva sugli schermi del cinema in modo chiaro e diretto, in particolare dopo il successo a teatro di A Fool There Was e della “Vampire Dance”. Il produttore William Nicholas Selig si inserisce nella nuova moda vampiresca e a novembre 1910 porta nelle sale The Vampire, esplicitamente ispirato alla poesia di Kipling. “The Film Index” (29 ottobre 1910) rende più che evidente l’omaggio a Kipling e Burne-Jones illustrando una segnalazione del film con il celebre quadro e aggiungendo ampie citazioni dalla poesia.

Recensione per il film The Vampire su “The Film Index” (29 ottobre 1910)

Il regista di The Vampire è ignoto, mentre la direzione della fotografia era attribuita a William C. Foster. Secondo un commento dell’epoca (“Moving Picture World”, 26 novembre 1910) il film poteva essere capito solo da chi conosceva il quadro di Burne-Jones e la poesia di Kipling, mentre “non è abbastanza chiaro per lo spettatore medio”.

Guy Temple (Charles Clary) si sposa con Emily, ma dopo il matrimonio è attratto dalle arti seduttive di Loie (Margarita Fischer): per lei si rovina e le regala gioielli. John Temple, fratello di Guy, ricorda grazie a un sogno di aver già visto la perfida Loie: aveva distrutto la vita del padre di Emily, portandolo alla morte. John cerca invano di convincere Guy a lasciare la Vampira e le offre del denaro per abbandonare l’America. Tutto è inutile e Guy precipita nell’abisso della distruzione, mentre la Vampira festeggia sul suo corpo inanimato.

Pubblicità per The Vampire (1910) e un fotogramma dalla scena finale

The Vampire è un film perduto, ma nel febbraio 2013 il blogger doctor kiss annunciava su tapatalk.com di averne scoperto un brevissimo frammento, trovandolo in una scatola di vecchie pellicole di un disegnatore tedesco. È la scena finale, con la Vampira che incombe sul corpo della sua vittima. Il ritrovamento è importante perché permette di visualizzare il riferimento del film alle scenografie delle “danze della vampira” diventate popolari dal 1909, caratterizzate proprio da una scala ai cui piedi soccombe l’uomo vampirizzato.

L’onda lunga dei versi di Kipling sulla Vampira si riverbera anche in un film distribuito nell’ottobre 1911, A Woman’s Slave, probabilmente girato in Francia, dato che è una produzione Urban-Eclipse: il produttore angloamericano Charles Urban, infatti, era legato alla società parigina Eclipse, capace di realizzare 150 film all’anno. Il debito nei confronti di Kipling era dichiarato da “Moving Picture World” (11 novembre 1911): “Forse questo film può essere considerato una corretta rappresentazione della famosa poesia di Kipling, The Vampire. La donna è mostrata come un essere senza cuore che induce l’uomo al furto per ottenere gioielli con cui ornarsi. Lui si salva dalle sue grinfie grazie al costante amore della madre e alla benevolenza di un gioielliere. C’è qualcosa di sconvolgente nel freddo egoismo e nella crudeltà della donna”.

Alice Hollister

Alice Hollister, la prima diva vamp(ira)

Ormai il termine “Vampire”, applicato alla donna fatale, era garanzia di successo e nel 1913 si mise in cantiere un’altra pellicola con lo stesso titolo del film realizzato tre anni prima dalla Selig, The Vampire, prodotta dalla Kalem per la regia di Robert G. Vignola e di cui abbiamo parlato in un articolo precedente perché conteneva la celebre Vampire Dance del duo Eis-French. Il film lanciava anche la prima diva vamp(ira), Alice Hollister nel ruolo della donna che porta alla perdizione, cui si aggiungeva Alice Eis come “vera” vampira che uccide l’uomo dopo un ballo seduttivo.

Vista la buona accoglienza del loro The Vampire, la Kalem tornò a occuparsi di una Vampira con il corto di 26 minuti The Vampire’s Trail (1914), diretto ancora da Vignola in collaborazione con T. Hayes Hunter e di nuovo con Alice Hollister nel ruolo della donna fatale (alcune filmografie sui vampiri riportano un cortometraggio dallo stesso titolo datato 1910, ma non risulta alcuna informazione sulla sua esistenza).

Il giornalista americano dedito ai gossip John Dugan (Robert Walker) e una cantante spregiudicata, Rita Caselli (Alice Hollister), si alleano per compromettere un ricco uomo sposato, Horace Payne (Tom Moore). Rita fa amicizia con l’uomo e riesce a farsi invitare a casa sua, dove conosce la moglie Laura (Alice Joyce) e il loro figlio neonato. Il bambino si ammala di difterite e Rita deve restare in quarantena nella casa, tentando ancora di sedurre Horace. Laura scopre la tresca, il marito chiede perdono e Rita si pente.

La Vampira è qui sottoposta a un processo di “normalizzazione”, perché non trionfa come nella tradizione teatrale ispirata alla poesia di Kipling, ma viceversa giunge al pentimento in un classico happy end. Il nome italiano dato al personaggio della Vampira segnala inoltre che era arrivata oltreoceano l’influenza del sorgente fenomeno tricolore delle Dive, spesso simili alle donne fatali di Hollywood (della fugace presenza di Vampire nel cinema muto italiano tratteremo in un prossimo articolo).

Pubblicità per The Vampire’s Trail (1914)

Dopo il successivo boom delle Vamp/ire grazie a Theda Bara, la Kalem riproporrà ancora Alice Hollister in un ruolo vampiresco per The Lotus Woman, nel 1916, presentando l’attrice come “the original screen vampire”. Scriverà “The Moving Picture World” (24 giugno 1916): “Quando uno storico del cinema arriverà al capitolo dedicato alla mania per le vampire, dovrà assegnare una menzione speciale a Alice Hollister, in quanto ‘vampira originaria del cinema’. La star della Kalem sarà ricordata come ‘la’ vampira del cinema prima che quel tipo di personaggio diventasse una fonte comune di ispirazione per scrittori e produttori di film”. Sempre nel 1916 la casa produttrice Kalem prenderà in giro se stessa con una parodia della Vampira, An Innocent Vampire, un corto comico dell’allora famosa “Sis Hopkins” interpretata da Rose Melville: per una serie di equivoci, Sis appare a tutti come una cacciatrice di uomini che sottrae alle rispettive mogli e fidanzate, ma alla fine si scopre la sua buona fede.

Rose Melville in An Innocent Vampire (1916)

La Vampira attraversa l’Europa

Il personaggio della Vampira kiplinghiana e delle danze relative doveva presto varcare l’oceano e riverberarsi nel cinema europeo. Nell’ottobre 1911 una Vampira compare in Germania nel cortometraggio (218 metri) dal titolo Der Vampyr, grazie al produttore tedesco Oskar Messter. Distribuito in America nel gennaio 1912, per l’ennesima volta con il titolo The Vampire, il corto è così sintetizzato da “Moving Picture World” (20 gennaio 1912): “Un giovane milionario dopo l’incontro con una donna vampira sogna che lei entri nel suo appartamento e disprezzi i doni che le getta ai piedi. Il giovane si contorce per la sofferenza, fino a che cade sul pavimento e si sveglia rendendosi conto che è stato tutto un sogno. Allora si toglie dalla mente l’immagine di lei e torna a essere un uomo assennato”.

Qualche anno dopo Messter riproporrà il tema producendo il corto di 36 minuti Vampirette (1916), dove la perfida pianista Adele (Wanda Treumann) tenta il suicidio sdraiandosi sui binari del treno, ma è salvata dalla giovane Hertha (Claire Praetz): come ricompensa per il suo gesto generoso, Adele le seduce il marito (Viggo Larsen) e Hertha si uccide coricandosi a sua volta sui binari.

Clara Wieth in Vampyrdanserinden (1912)

Messter era un produttore che tentava di competere con le potenti ditte cinematografiche scandinave, a loro volta dedite a sfruttare l’interesse per le donne fatali vampiresche. Nel 1912 esce il film danese Vampyrdanserinden (Ballerina vampira), della casa produttrice Nordisk e con regia di August Blom, distribuito un anno dopo per il pubblico anglofono come Vampire Dancer – A Tragedy of the Stage. È uno dei pochi film della saga sulla Vampira di inizi secolo che non è perduto.

Silvia Lafont (Clara Wieth, vero cognome Pontoppidan) è una ballerina famosa per la sua “Danza della vampira”. Il suo nuovo compagno di ballo, Oscar Borch (Robert Dinesen), si innamora di lei, ma la giovane è fidanzata e lo respinge. Disperato per il rifiuto, Oscar si avvelena e muore mentre balla la “Danza della vampira” con Silvia.

Clara Wieth e Robert Dinesen in Vampyrdanserinden

Vampyrdanserinden fece scalpore soprattutto per la danza vampiresca, a conferma della popolarità di quel ballo in tutta Europa e non solo in America. Ed è importante notare che la raffigurazione cinematografica di quella danza, con la Vampira che strangola e poi morde la sua vittima, precede di un anno il film americano The Vampire della Kalem dove si reclutarono Eis e French per lo stesso ballo.

Va ricordato che la Danimarca aveva già proposto il tema della donna fatale nel 1910, con Afgrunden (L’abisso) dove Asta Nielsen si esibiva in una Apache dance (che il quotidiano “Nationaltidende” del 13 settembre 1910 definiva esplicitamente “vampyrdans”) e poi uccideva il suo compagno. Non a caso, Georges Sadoul si è spinto ad affermare che “la vamp è una creazione danese” (Histoire générale du cinéma, Tome III, primo volume, Denoël, Paris 1946).

Le suggestioni di Vampyrdanserinden sono state ribadite in anni recenti dallo scrittore svizzero di lingua tedesca Christian Kracht nel suo romanzo Die Toten (2016; trad. it. I morti, La nave di Teseo, Milano 2021). Il protagonista del libro, Nägeli, negli anni Trenta si reca alla sede della Nordisk per farsi mostrare il film Vampyrdanserinden, ma la pellicola durante la proiezione prende fuoco e si deve ricorrere a un estintore: “Nägeli ne rimase incantato, restò seduto profondamente toccato nell’animo dall’ipnotico caleidoscopio magenta, verde, blu, giallo, turchese sullo schermo davanti a lui, prodotto dal fascio di luce del proiettore che trapassava la schiuma antincendi”.

Il morso della vampira in Vampyrdanserinden

Anche la cinematografia rivale della Danimarca, quella svedese, mette in cantiere un film melodrammatico sulla Vampira. Nel febbraio 1913 esce in Svezia il film di 43 minuti Vampyren, noto anche con il sottotitolo En kvinnas slav (Lo schiavo di una donna), scritto e diretto da Mauritz Stiller, uno dei più prestigiosi registi svedesi. L’interprete principale era Victor Sjöström, in procinto di passare dietro la macchina da presa per diventare celebre con film come Körkarlen (Il carretto fantasma, 1921). L’attrice che interpretava la Vampira tentatrice di turno era la danese Lili Bech che un anno dopo si sposerà con Sjöström.

Il tenente Roberts (Victor Sjöström) si invaghisce di Theresa (Lili Bech), un’avventuriera senza scrupoli che lo deruba e lo costringe a falsificare una cambiale. Scoperto, Roberts è costretto a fuggire dalla polizia e lo scandalo fa morire di crepacuore sua madre (Anna Norrie). Roberts anni dopo trova impiego come lavorante in un teatro americano di varietà, dove si esibisce proprio Theresa. Respinto dalla donna, Roberts tenta di ucciderla. Quando Roberts cade rovinosamente durante il suo lavoro, Theresa lo soccorre e si pente.

Il pubblico parve gradire il film, affollando le sale, poi intervenne la censura per le implicazioni sessuali di alcune scene. I critici, da parte loro, dedicarono scarsa attenzione a Vampyren, pur lodando gli interpreti e in particolare Lili Bech. Vampyren è oggi un film perduto, ma nel 1980 sono riemersi 8 secondi di pellicola, il primo piano di un bacio tra Sjöström e la Bech.

Lili Bech e Victor Sjöström in Vampyren (1913)

Hiawatha, la danza della Vampira

Nel 1913 ancora la Germania offriva un riferimento alla “danza della vampira” con un film in due bobine della casa produttrice Colonia, Hiawatha, uscito in contemporanea con Der Student von Prag (Lo studente di Praga), il grande classico del cinema tedesco nato dalla collaborazione tra Hanns Heinz Ewers, Stellan Rye e Paul Wegener.

A interpretare Hiawatha erano Joe Biller e Hild Hadges, una coppia di ballerini piuttosto nota sulla scena europea per la “danza della vampira”: nel dicembre 1913, ad esempio, portano la loro  “vámpírtánc” a Budapest e nell’aprile 1915 saranno in Italia con le loro “danze acrobatiche” al teatro Fenice di Trieste. Si leggeva su “Il Piccolo”(22 aprile 1915): “Hild Hadges e Joe Biller, i bravissimi danzatori americani, ottennero anche ieri vivo successo e furono alla fine della suggestiva ‘Danza del Vampiro’ chiamati ripetutamente alla ribalta. Spettacolo davvero magnifico”. Il legame di Biller con l’Italia doveva durare a lungo, se nel novembre 1933 si esibiva ancora in un “trio di danze” al Rossini di Venezia.

Recensendo il film Hiawatha, il quotidiano “Metzer Zeitung” (7 marzo 1914) affermava che “lo stesso imperatore Francesco Giuseppe I e l’erede al trono l’arciduca Francesco Ferdinando d’Este hanno ammirato l’arte della coppia Joe Biller e Hild Hadges”. Secondo quanto si desume dalla stampa dell’epoca, il film presentava una Vampire dance dove la donna, per gelosia, durante il ballo bacia violentemente il partner e poi lo morde al collo, uccidendolo. Hiawatha fu vietato ai minori dalla polizia di Monaco e Berlino e poi censurato.

Pubblicità da “Lichtbild-Bühne” n. 33,1913

Il primo a segnalare Hiawatha come film di vampiri è probabilmente Denis Gifford nel suo Movie Monsters (Studio Vista, London 1969), ma non è stato preso in considerazione negli studi sul genere, anche a causa di un fraintendimento: il caso volle che nello stesso anno uscisse in America un film dall’identico titolo Hiawatha, ispirato a un noto poema di Henry Wadsworth Longfellow e incentrato sui nativi americani. Si è così creato un equivoco, testimoniato da innumerevoli filmografie, che ha “fuso” i due film e i loro interpreti a detrimento della pellicola tedesca. Il film americano diretto da Edgar Lewis, infatti, è rimasto celebre per essere il primo interpretato da veri nativi, oscurando così involontariamente l’esistenza dell’omonimo tedesco dal ben diverso contenuto.

Nel settembre 1913 anche in Gran Bretagna appare una Vampira cinematografica, nel cortometraggio della Searchlight Films dal solito titolo The Vampire, perduto e di cui si sa pochissimo. Ambientato in India, vedeva un esploratore uccidere la donna che aveva portato alla morte un suo amico, poi la femme fatale resuscitava, si trasformava in serpente ed eliminava anche l’esploratore. Il film ottenne persino un remake con Heba, the Snake Woman (1915), a sua volta perduto, imperniato su una principessa azteca con le stesse attitudini alla trasformazione in serpente. L’argomento era stato peraltro già affrontato nel 1912 nel film americano di 52 minuti The Reincarnation of Karma, diretto da Van Dyke Brooke, con la donna fatale interpretata da Rosemary Theby che sarà poi la fata Morgana in A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court (1921).

Il sacerdote indiano Karma (Courtenay Foote) resiste alle tentazioni sessuali messe in atto dall’incantatrice Quinetrea (Rosemary Theby), capace di trasformarsi in serpente. Secoli dopo Quinetrea riappare al giovane Leslie, che è la reincarnazione di Karma, e fa cadere in coma la sua fidanzata (Lillian Walker).

The Reincarnation of Karma (1912)

Altre Vampire kiplinghiane

Se gli scandinavi Vampyrdanserinden e Vampyren, l’inglese The Vampire e i tedeschi Der Vampyr e Hiawatha non dichiaravano il loro debito nei confronti di Kipling, in America il riferimento alla fonte letteraria era ancora efficace. Nel 1913, la Vitagraph produce The Vampire of the Desert (1913), cortometraggio in due bobine diretto da Charles L. Gaskill che la pubblicità definiva come “adattamento della ben nota poesia di Kipling” (“Moving Picture World”, 10 maggio 1913). La “vampira del deserto” aggiungeva ulteriori capacità sovversive alla figura della donna fatale: la distruzione della famiglia tradizionale da parte della Vampira comportava in questo caso la seduzione di padre e figlio.

The Vampire of the Desert è perduto, ma può essere dettagliatamente immaginato grazie a una novelization di Norman Bruce, basata su una copia del film inviata dai produttori e apparsa sulla rivista “Motion Picture Story” (giugno 1913).

La fascinosa Lispeth (Helen Gardner) vive in una capanna nel deserto con un uomo che la ama follemente, Ishmael (Harry T. Morey), e con la vecchia madre di lui, Hagar (Flora Finch). Il ricco banchiere William Corday (Tefft Johnson), in viaggio con la moglie (Leah Baird) e il giovane figlio Derrick (James Morrison) accompagnato dalla fidanzata Ethel (Norma Talmadge), si imbatte nella capanna durante una gita. William subisce subito il fascino di Lispeth che ne approfitta per unirsi al gruppo di turisti e sfuggire alla sua insoddisfacente vita nel deserto. Il banchiere è deciso a lasciare la sua famiglia per amore di Lispeth, ma il figlio scopre i suoi piani. Lispeth seduce anche il giovane Derrick e scatena la rivalità tra padre e figlio. Quando la situazione sta per precipitare, ecco apparire Ishmael che riporta di forza Lispeth nel deserto e la uccide.

La novelization di The Vampire of the Desert su “Motion Picture Story” (giugno 1913)

Poco prima di The Vampire of the Desert era uscito in America un altro film, Red and White Roses, che prendeva ispirazione non tanto da Kipling, ma dal testo teatrale e dal romanzo A Fool There Was di Porter Emerson Browne, associando come in quei due antecedenti la Vampira alle rose (ovviamente rosse, mentre quelle bianche sono riservate alle “donne per bene”). La trama era molto simile alle due opere di Browne e se in A Fool There Was il protagonista maschile era impegnato in importanti attività diplomatiche per il governo, qui c’è un politico in carriera, Morgan Andrews (William Humphrey), che si fa sedurre e portare alla distruzione da una donna.

Il personaggio della storia di Browne era felicemente sposato, così come Andrews ha una fidanzata di buona famiglia, Beth (Leah Baird), che lo adora. A sovvertire la situazione interviene l’attrice Lida de Jeanne (Julia Swayne Gordon, già Lady Godiva in un corto del 1911), capace di far perdere la testa a Andrews. In questo caso, però, la Vampira agisce in nome di un vero e proprio complotto politico, manovrata dal fratello che è un avversario di Andrews. La relazione tra Andrews e Lida finisce sui giornali e l’uomo perde le elezioni. Dopo lo scandalo, Andrews teme che la fidanzata lo lasci, rovinando anche la sua vita privata: quando vede Beth priva di sensi, ma in realtà solo addormentata, è sconvolto e il giorno dopo viene trovato morto.

Red and White Roses (1913)

Parodie di Vampire

La Vampira kiplighiana era ormai tanto famosa che poteva diventare oggetto di parodia, come dimostrano tre cortometraggi comici del 1914. A marzo esce A False Beauty, in una bobina, prodotto dalla Keystone di Mack Sennett, il “re della commedia” che era in procinto di lanciare il successo di Charlie Chaplin. Il film, diretto e interpretato da Ford Sterling, mette in ridicolo la donna fatale e sarà riproposto nelle sale nel 1918 con il più esplicito titolo A Faded Vampire. Una copia è conservata alla Library of Congress.

Un uomo (Ford Sterling) spasima per una fanciulla dai molti corteggiatori (Alice Davenport) e la copre di doni. Quando, spiandola dalla finestra, scopre che la ragazza ha una parrucca e i denti finti tenta di riprendersi i gioielli che le ha regalato.

Pubblicità e un fotogramma di A False Beauty / A Faded Vampire (1914)

A giugno 1914 è la volta di Universal Ike Jr. and the Vampire, uno dei corti comici di ambientazione western che avevano come protagonista il personaggio del cowboy Alkali Ike, talmente famoso che si produssero dei pupazzi con la sua immagine. L’attore che lo interpretava, Augustus Carney, era passato dalla casa di produzione Essanay alla Universal e così il personaggio cambiò nome, diventando Universal Ike Jr.

Nel corto Universal Ike Jr. and the Vampire, Ike contende ad altri pretendenti l’amore di una fanciulla, ma la Vampira lo depreda di tutti i suoi beni. Il ruolo della Vampira era affidato a Louise Glaum, presenza ricorrente nei film di Ike come tipica “ragazza del West”. In breve la Glaum si specializzerà in parti di vamp, tanto che quando nel 1916 interpreta una donna fatale in The Wolf Woman, è proclamata “the greatest vampire woman of all time.”

Louise Glaum, “the greatest vampire woman of all time” (da “Photoplay”, dicembre 1914)

Nel settembre 1914 esce poi un altro cortometraggio comico dal titolo A Fool There Was, scritto, diretto e interpretato da Frank C. Griffin. Era una presa in giro dei film sulla Vampira rovinauomini, qui interpretata da Mabel Paige, un’attrice che diventerà molto attiva nel cinema muto e continuerà la carriera fino alla tarda età con varie apparizioni televisive. In una parte minore recitava anche Oliver Hardy. Dopo l’uscita del film omonimo con Theda Bara si dovette cambiare il titolo, trasformandolo in She Wanted a Car.

George (Jerold T. Hevener) si innamora di una ragazza, Bess (Mabel Paige), che vuole a tutti i costi un’automobile. Per non perderla, l’uomo impegna tutti i suoi beni e acquista un’auto, ma investe un poliziotto (Oliver Hardy) e finisce in prigione. Assume poi un autista (Frank C. Griffin), sempre per accontentare la sua bella, e quello fa la corte a Bess fino a soppiantare George e a sposarla.

Apparentemente, la Vampira cinematografica partorita dalla poesia di Kipling stava arrivando alla sua fase finale, ormai stereotipo oggetto di parodie. Invece il 1915, a quasi vent’anni dalla poesia The Vampire, porterà una sorpresa sconvolgente, grazie al film con Theda Bara A Fool There Was che aprirà una lunga fase caratterizzata dalla immortale figura della vamp. Ne parleremo in un prossimo articolo.

Pubblicità per A Fool There Was (1915)

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 6

Il Vampiro psichico di George Sylvester Viereck

Abbiamo visto negli articoli precedenti che il 1909, a dodici anni di distanza dalla poesia The Vampire di Rudyard Kipling, ha ospitato un’ondata senza precedenza di vampiri, soprattutto a teatro. Quell’anno si era aperto con uno spettacolo teatrale, The Vampire, tratto non da Kipling, ma dal romanzo breve The House of the Vampire di un autore interessante e controverso: George Sylvester Viereck, nato in Germania nel 1884. Il padre, che si diceva fosse figlio illegittimo del Kaiser Guglielmo I, era un attivista marxista che emigrò negli Stati Uniti nel 1896. Qui George Sylvester fin da giovanissimo si dedica alla poesia. A 17 anni aveva stretto amicizia con Lord Alfred Douglas, il poeta che era stato compagno di Oscar Wilde, e nel suo Youthful Diary 1899-1903 affermava: “Amo tutto ciò che è malvagio! Amo lo splendore della decadenza, la ripugnante bellezza della corruzione. Ciò che odio sono gli inquisitori, freddi, gelidi raggi del sole. Il giorno è nausea, il giorno è noia, il giorno è prosa. La notte bellezza, amore, splendore, poesia, vino, aggressione, violazione, vizio e torpore. Io amo la notte”.

Nel 1905, Viereck fece girare la notizia, da lui inventata, che Wilde non era morto, ma si era nascosto in attesa di un ritorno spettacolare quando le leggi britanniche sulla sodomia fossero cambiate. Dopo aver pubblicato apprezzate poesie, Viereck a ventidue anni scrive The House of the Vampire (Moffat, Yard, New York 1907), dove il Vampiro non sottrae sangue alle sue vittime, ma idee.

Il Vampiro del titolo è un divo del mondo letterario, Reginald Clarke, ispirato chiaramente a Oscar Wilde. Noto a New York per l’oratoria affascinante, Clarke attrae nella sua casa giovani intellettuali che sono sedotti dalla sua forte personalità. La lussuosa “casa del vampiro” si trova a Riverside Drive, elegante strada alberata sul fiume Hudson. È una sorta di tipica casa del decadentismo, nello stile (in Italia) delle abitazioni di Gabriele D’Annunzio o di Mario Praz. Tra pesanti drappeggi che mantengono nelle stanze una parziale oscurità, sul camino c’è un satiro con Santa Cecilia, poi ci sono fauni, sfingi, busti di Shakespeare e Balzac ai quali Clarke si paragona, ritratti di Napoleone e damine rococo.

Il giovane poeta Ernest Fielding va a vivere nella casa di Clarke, ma presto si rende conto che alcuni personaggi e situazioni da lui creati compaiono nelle opere del suo ospite. Clarke gli spiega che il genio è caratterizzato dalla capacità di “assorbire” dalla vita: “ri-creare”, dice, è la prerogativa del poeta. Un amico scultore confida a Ernest di aver perso improvvisamente l’idea di una statua che voleva scolpire, “come se un soffio di vento l’avesse portata via”. E anche la bella artista Ethel Brandenbourg ha la sensazione di essere derubata della sua creatività e mette in guardia Ernest, innamorato di lei: “Di certo sai che nelle leggende di ogni nazione si legge di uomini e donne chiamati vampiri. Sono esseri, non sempre del tutto malvagi, che ogni notte un impulso misterioso spinge a introdursi nelle camere da letto incustodite per succhiare il sangue di chi dorme e poi, rinvigoriti dalla vita delle loro vittime, si ritirano con cautela. Per questo motivo hanno le labbra molto rosse. Si è detto anche che non possano trovare riposo nella tomba, ma tornino nei loro luoghi precedenti dopo che sono stati ritenuti morti. Coloro ai quali fanno visita, comunque, languiscono senza una ragione apparente. I medici scuotono le teste sapienti e parlano di consunzione. Ma a volte, ci garantiscono antiche cronache, nella gente sorgevano dei dubbi e sotto la guida di un buon prete andavano in solenne processione alle tombe delle persone sospettate. E aprendo le tombe si scopriva che le bare erano marcite e i fiori nei capelli erano neri. Ma i loro corpi erano intatti, non c’erano orbite vuote dove strisciassero vermi e le labbra con cui succhiavano erano ancora inumidite da un po’ di sangue”.

Il nesso con il vampiro soprannaturale è quindi dichiarato. Del resto, come il vampiro leggendario Clarke si introduce nascostamente nelle camere da letto delle proprie vittime, per sottrarre le idee durante il sonno. Invece del morso, usa le mani per trasmettere a sé stesso le idee degli altri o, di giorno, fissa intensamente negli occhi le sue prede. Espropriate delle loro idee, le vittime del Vampiro sentono estinguersi la fiamma artistica. A loro è sottratto lo spirito e sono assorbite non solo le idee, ma tutte le energie mentali delle prede, svuotate dei migliori pensieri, della forza vitale, fino a precipitare in una catastrofe fisica e psichica.

Come la Vampira di A Fool There Was, anche Clarke trionfa alla conclusione del romanzo, senza lieto fine. Nelle ultime righe Ernest è ridotto a una larva, gli occhi ormai privi di qualsiasi scintilla, “senza presente e senza passato”, un idiota che farfuglia e inciampa scendendo una scala. Si noti che una scala era anche lo sfondo scenografico dei vari balletti ispirati alla poesia di Kipling The Vampire, che abbiamo descritto in articoli precedenti.


La copertina originale del romanzo e, accanto, un’edizione francese del 2003, tradotta e introdotta da Jean Marigny, esperto di vampiri letterari

Al contrario di altri scrittori vittoriani e degli inizi del secolo, Viereck non ritrae negativamente il Vampiro, ma implicitamente lo assolve e anzi parteggia per lui, spiegando così la sua interpretazione del vampirismo: “Nel trattare questo argomento ho fatto ciò che altri scrittori non hanno fatto: cioè, l’ho reso psichico. Il mio Vampiro è il Superuomo di Nietzsche. È giustificato nel rubare dalle menti degli altri. È una figura peculiare della letteratura e del teatro nel mondo” (“New York Times”, 30 gennaio 1909).

Il vampirismo spirituale proposto da Viereck è attuato da geni con la statura di giganti che fanno avanzare la cultura e la società, depredando gli inferiori. Nina Auerbach sostiene che in Viereck “il potere del vampiro non è solo perverso, ma progressista: i vampiri di Stoker sono atavici nemici del progresso, i vampiri psichici di Viereck sono motori dell’avanzamento umano” (Our Vampires, Ourselves, The University Press of Chicago, Chicago 1995).

Oltre a essere una lode del Superuomo,The House of the Vampire è una sorta di celebrazione del plagio (su questo aspetto è imprescindibile Paul K. Saint-Amour, The Copywrights: Intellectual Property and the Literary Imagination, Cornell University Press, Ithaca 2011). Da poco le legislazioni europee avevano esteso il copyright anche dopo la morte degli autori e Viereck di fatto si oppone al concetto stesso di “diritto d’autore”, soprattutto nei confronti di opere non pubblicate: i “geni” sono autorizzati ad appropriarsi delle idee da creatori incapaci o senza doti straordinarie e per un “Superuomo” è lecito impadronirsi delle creazioni di autori “inferiori”.

Tra Clarke, uomo maturo, e la giovane vittima Ernest c’è un’attrazione omosessuale, tanto che il romanzo è convenzionalmente definito “gay vampire novel” e indicato come una delle prime rielaborazioni omoerotiche del vampirismo. Viereck, del resto, nelle sue prime poesie trattava spesso di amori tra uomini, ma in realtà i due protagonisti principali del romanzo sono bisessuali, perché entrambi amano o hanno amato delle donne.

George Sylvester Viereck

Dal romanzo al teatro

A due anni dall’uscita di The House of the Vampire, la permanente popolarità del vampiro in versione kiplinghiana induce Viereck a trasporre il romanzo in un testo teatrale in tre atti, scritto con il suo compagno di studi Edgar Allen Woolf che molti anni dopo sarà tra gli sceneggiatori del film The Wizard of Oz (Il mago di Oz, 1939). Per il teatro si sceglie di intitolare l’opera soltanto The Vampire, proprio come la poesia di Kipling e il quadro di Burne-Jones.

Prodotto dai celebri manager teatrali Jacob J. Shubert e Lee Shubert, The Vampire dopo un’anteprima a Albany fa il suo esordio all’Hackett Theatre di Broadway il 18 gennaio 1909 e chiude dopo 24 repliche, per spostarsi poi alla Grand Opera House di Chicago. Il ruolo del Vampiro era interpretato da John E. Kellerd, la vittima da John Westley e nello spettacolo recitava nella parte di un’altra delle vittime anche Warner Oland, futuro Fu Manchu e Charlie Chan sugli schermi. In occasione delle rappresentazioni si stampò un volantino con la domanda: “Credete nei Vampiri?”. Distribuito in un centinaio di copie, ottenne il 97 % di risposte “Sì”.

Il testo teatrale non è stato pubblicato e si possono desumerne i contenuti solo dalle recensioni di allora. La revisione del romanzo firmata da Viereck e Woolf cambia il finale, con la protagonista femminile che salva il giovane poeta, ma lascia intatte le riflessioni sul “vampirismo letterario”. Cambiano anche i nomi dei personaggi. Reginald Clarke diventa Paul Hartleigh, Ernest diventa Caryl e Ethel Brandenbourg si trasforma in Allene Arden modificandone inoltre la biografia: nel romanzo Ethel era un’ex amante di Clarke, mentre nel testo teatrale Allene è figlia di una passata amante dello scrittore e lo chiama “papà”. Nella conclusione dello spettacolo, Allene resta di notte nella camera da letto di Caryl e sorprende il Vampiro che sta per rubare dalla mente del giovane le idee di un suo romanzo non ancora scritto: gettandosi tra Caryl e il Vampiro, Allene impedisce l’estrema sottrazione di idee e vitalità. L’atto di vampirizzazione era visualizzato mostrando Hartleigh che pone le mani sulle teste delle sue vittime, mentre dormono, per assorbirne i pensieri.

Per quanto alcune critiche lo reputassero debole e “caotico” (“The Billboard”, 13 febbraio 1909), “freddo” e incapace di suscitare simpatia nel pubblico (“The New York Press”, 22 gennaio 1909), The Vampire suscitò più ancora del romanzo grande attenzione (anche per il tema della “proprietà letteraria” rubata), tanto che il fratello di Woolf, lo stimato pittore Samuel Johnson Woolf, scrisse a Mark Twain pregandolo di vedere The Vampire all’Hackett Theatre e mettendogli a disposizione un palco. Lo spettacolo restò in tournée per due anni sotto le cure dei fratelli Shubert e l’attore italiano Amleto Novelli voleva portare The Vampire in Europa, ma il progetto pare non si sia concretizzato.

Paradossalmente Viereck e Woolf, che avevano scritto quel testo fantasticando sul plagio, finirono accusati di plagio. Uno scrittore, Arthur Stringer, sosteneva di aver trovato interi passaggi di un suo romanzo nell’opera teatrale. Il commediografo Maurice Lyons intentò una causa affermando di avere scritto nel 1907 un testo dallo stesso titolo The Vampire. Analogamente Madame Fuji-ko (della quale abbiamo scritto qui) rivendicava il copyright sui titoli The Vampire, The Vampire Cat e The Vampire Cat of Nabeshima, accusando Viereck e Woolf di essersi appropriati indebitamente di quel titolo.

I due protagonisti principali di The Vampire in una vignetta da “The Evening World” (19 gennaio 1909)

Viereck dopo The Vampire

Considerato ormai un giovane prodigio, Viereck proseguì la sua scalata nel mondo giornalistico e letterario. Non nascondeva le sue posizioni reazionarie, opposte a quelle del padre, che lo porteranno a subire il fascino di Hitler e diventare un propagandista del nazismo in terra americana. Godeva tra l’altro dell’amicizia e della protezione di grandi intellettuali non certo di destra come H.G. Wells e George Bernard Shaw (vedi John V. Antinori, Androcles and The Lion Hunter: G.B.S., George Sylvester Viereck, and the Politics of Personality, “Shaw”, vol. 11, 1991). Con Shaw l’amicizia non tramontò mai, anche se tra i due si intromise un episodio che si potrebbe definire di “vampirismo”: Shaw accusò Viereck di avergli attribuito, facendogli un’intervista, considerazioni che erano solo sue. In una lettera del 6 dicembre 1929, Shaw protesta duramente con Viereck per quell’intervista che non conteneva nulla di autentico e lo accusa di “guadagnarsi da vivere” attribuendo a lui le sue opinioni personali, facendogli dire cose che non ha detto. Insomma, Viereck avrebbe approfittato dell’intervista per vampirizzare Shaw e veicolare le proprie opinioni (“ti limiti a riportare tue nozioni che sono suggerite dagli argomenti che io menziono”, si legge nella lettera).

Oltre a Wells e Shaw, tra le amicizie di Viereck si annoverava anche Nikola Tesla, mentre con Aleister Crowley collaborò per la rivista “The International”. Alla ricerca di “geni” che avvalorassero le sue teorie superomistiche, Viereck intervistò Sigmund Freud e Albert Einstein, incontrò Benito Mussolini, ma rimane negli annali soprattutto la sua intervista a Adolf Hitler dell’ottobre 1923 pubblicata su The American Monthly”, periodico diretto dallo stesso Viereck (significativo, per i tempi odierni, lo slogan “America First” che campeggiava accanto alla testata). Hitler, non ancora Führer, delineava il suo progetto politico e proclamava soprattutto il suo odio per i comunisti e il marxismo. Quando anni dopo è ristampata in forma modificata daLiberty” (9 luglio 1932), l’intervista si apre con una frase dalle assonanze vampiresche. Descrivendo il colloquio con il capo dei nazionalsocialisti, avvenuto sorseggiando del tè, Viereck commenta: “Adolf Hitler svuotò la sua tazza come se non contenesse tè, ma il vivo sangue del bolscevismo”.

Fervente anticomunista, Viereck era stato già al centro di polemiche per la sua propaganda filotedesca durante la Grande Guerra, tanto che la sua casa nel 1918 fu protetta dalla polizia per timore di attacchi. Negli anni Trenta è un sostenitore di Hitler e continua a promuovere le politiche naziste anche durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1941 per il suo collaborazionismo subì un processo che fece scalpore e lo portò a trascorrere quasi quattro anni in prigione. Viereck ottenne comunque un trattamento privilegiato, in una cella dotata di libreria e dove aveva potuto portare preziosi oggetti personali. Dopo la scarcerazione pubblica un libro di memorie sulla condizione di vita in prigione e un ultimo romanzo, The Nude in the Mirror  (Woodford Press, New York 1953). Muore nel 1962, a 77 anni.

L’intervista di Viereck a Hitler (da “Liberty”, 9 luglio 1932)

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 5

Vampire che danzano

Il 1909 è stato anno di vampiri sui palcoscenici. Lo spettacolo teatrale A Fool There Was, diventato in seguito romanzo sempre per la penna di Porter Emerson Browne, ispirato alla poesia The Vampire di Rudyard Kipling e al quadro omonimo di Philip Burne-Jones, va in scena a marzo. Contemporaneamente si rappresenta a New York una brevissima commedia musicale, The Vampire, scritta e interpretata da Walter Shannon con diretto riferimento alla poesia omonima. Non aveva nulla a che fare con Kipling, invece, il testo teatrale The Vampire messo in scena all’Hackett Theatre di New York già nel gennaio dello stesso anno e tratto da un romanzo di George Sylvester Viereck (dove il vampiro del titolo è ancora una volta “psichico”, ma in questo caso è un uomo che ruba le idee agli scrittori: ne tratteremo dettagliatamente in un futuro articolo).

Il 1909 è anche, e forse soprattutto, l’anno della vampire dance, da tradurre per la precisione come “danza della vampira” dato che a portare distruzione dopo un ballo seduttivo era sempre una donna. Si tratta di un vero e proprio filone che si prolungherà per oltre un quinquennio. La vampire dance si ispirava dichiaratamente alla poesia di Kipling, al quadro di Burne-Jones e al testo teatrale A Fool There Was, quando la Vampira dice alla sua vittima “Before we part, kiss me, my fool!” e l’uomo cade a terra morto, mentre lei ride lasciando piovere petali di rosa sul cadavere.

La danza contribuisce in modo decisivo al cambiamento semantico del termine “vampiro” nel mondo anglosassone di inizio Novecento: più che creatura soprannaturale di ritorno dalla tomba, una donna fatale che prosciuga i maschi di beni e vita. Nei balletti sui palcoscenici le antiche “danze macabre” (o le danze delle streghe e degli scheletri) si univano così alla figura della femmina seduttiva che agli inizi del nuovo secolo ballava sotto le spoglie di Cleopatra e Salomè o nelle danze tentatrici di Mata Hari.

Non era un fenomeno del tutto nuovo. Come sottolinea Gary D. Rhodes (The First Vampire Films in America, Palgrave Communications, nature.com, 2017), la vampire dance era popolare almeno dal 1890, quando una compagnia americana di “minstrel” (commedie musicali interpretate da bianchi con il volto truccato di nero o da afroamericani) presentava la “Great Vampire Transformation Dance” e nel 1896 un’altra vampire dance si registra nel Massachusetts. Si trattava però di balli ispirati al vampiro soprannaturale e non alle vampiresche donne fatali che si affermano solo nel 1897 con Burne-Jones e Kipling.

Da pipistrello a danzatrice nel cortometraggio Loie Fuller (1905)

Una sorta di “danza della vampira” può rintracciarsi nella Serpentine dance e in altre esibizioni dell’artista americana Loïe Fuller che ebbero grande influenza sui simbolisti e sull’art nouveau. Danzatrice autodidatta, Loïe Fuller dopo aver lavorato nel 1892 alle Folies Bergère diventò manager, autrice teatrale e coreografa, a Parigi, Londra e New York, contribuendo alla nascita della danza moderna. Le sue rappresentazioni erano spesso caratterizzate dalle tuniche che faceva roteare creando effetti straordinari. Un cortometraggio del 1905, intitolato semplicemente Loie Fuller, mostra un pipistrello che si trasforma in donna e avvia una danza, muovendo vorticosamente un abito che simula le ali del chirottero. Si univa così il vampiro soprannaturale, evocato dal pipistrello, alla seduzione della vampira kiplinghiana grazie alla danza affascinante e ipnotica. Va ricordato che Loïe Fuller pagò un prezzo piuttosto alto per le sue rappresentazioni artistiche: il radio che utilizzava per rendere fluorescenti le “ali” dei suoi abiti di scena le provocò un tumore.

Il riferimento della danza di Loïe Fuller al vampirismo era comunque solo allusivo. La prima, esplicita “danza della vampira” va attribuita all’artista Fuji-Ko. Nata a Tokio, ma cresciuta a Londra, si esibiva in America e in Sud Africa con brevi rappresentazioni in cui univa ballo e pantomima (su Fuji-Ko vedi una breve biografia in Dixie Hines, Harry Prescott Hanaford,Who’s who in Music and Drama, Hanaford, New York 1914). Il 19 novembre 1908 presenta al Neues Deutsches Theater di New York lo spettacolo The Vampire Cat of Nabeshima, pantomima con accompagnamento musicale di un’orchestra. Un gatto soprannaturale, tipico delle leggende giapponesi, dissangua Sakura-Ko, la favorita di un principe, e ne assume l’aspetto. Sakura-Ko usa il suo fascino vampiresco per distruggere il principe e lo fa ammalare gravemente. Un giovane samurai affronta la vampira per vendicare il suo signore, ma lei tenta di sedurlo. Il samurai riesce a resistere ai suoi sguardi ammaliatori piantandosi la spada in una gamba e uccide la vampira: al posto di Sakura-Ko c’è il cadavere di un enorme gatto (il testo integrale di The Vampire Cat of Nabeshima è stato pubblicato in “The Smart Set” n. 1, 1910).

Per quanto sovrappeso, Fuji-Ko con i lunghi capelli sciolti riusciva a essere emozionante nelle sue danze da vampira attorno alle due vittime, il principe e il samurai, tra suggestive melodie orientali. Secondo “The Kansas City Star” (22 novembre 1908) “la sua abile seduzione, i suoi trucchi di sensualità provocante e il suo balzo finale sull’uomo prostrato erano una meravigliosa combinazione tra una donna diabolica e il gioco di un gatto con una vittima senza scampo”. L’articolista dichiarava di aver avuto un brivido quando la vampira protendeva le dita ad artiglio, avanzando a piedi nudi verso la sua preda, e cambiava improvvisamente espressione passando “dalle astuzie di una sirena alla ferocia di una bestia”.

Fuji-Ko, autrice e interprete di The Vampire Cat of Nabeshima (1908)

Nasce la Vampire Dance

Fuller e Fuji-ko non prendevano ispirazione dalla vampira predatrice di uomini creata da Kipling e Burne-Jones. Il fenomeno Vampire Dance nasce solo quando si diffondono spettacoli esplicitamente derivati dal quadro e dalla poesia The Vampire. Uno dei grandi artefici della prosecuzione in forma di danza del successo di The Vampire è senz’altro Joseph C. Smith. Dopo aver ballato, tra l’altro, alla Scala di Milano, diventa coreografo a Broadway e dal 1909, in coincidenza con lo spettacolo teatrale A Fool There Was, sceglie di trasformare in balletto la scena finale vista a teatro, inserendo citazioni dalla poesia di Kipling e allusioni al quadro di Burne-Jones.

Cronologicamente, sembra proprio Smith il primo a inventare la vampire dance, che nella sua versione da vaudeville diventa presto nota anche come temptation dance e flirtation dance. Smith ha inizialmente come partner artistica Louise Alexander, che veniva dalle Ziegfeld Follies. Con lei nel dicembre 1908 aveva già eseguito la Apache dance nel musical The Queen of the Moulin Rouge, a New York. La Apache dance era nata a Parigi nel 1908, al Moulin Rouge, ed era caratterizzata dai modi brutali del ballerino verso la sua partner femminile, una sorta di lite violenta tra amanti che si concludeva con una riconciliazione e la resa della donna. La lotta tra una donna e un uomo trasformata in balletto è analoga nella Vampire Dance, però a ruoli ribaltati e con un finale tragico che vede la supremazia della donna. La vampira non usa la violenza per ottenere quello che vuole dall’uomo, ma la seduzione ipnotica.

Smith e Alexander portano la danza vampiresca a Baltimora nel giugno 1909, ma dopo la prima rappresentazione devono cancellarla dal repertorio per volontà del direttore del teatro di vaudeville dove andava in scena lo spettacolo, a causa della “volgarità” del tema. Il duo Smith-Alexander si separa ed entrambi continuano a interpretare la vampire dance con altri partner. Smith sceglie Ethel Donaldson per presentare, nel settembre 1909, una “original conception” della danza vampiresca al teatro American di New York. In questo caso l’azione si svolge in un salottino: lui è in abito da sera (il caratteristico abbigliamento di Smith come ballerino), lei in succinto vestito nero con le spalle nude. Nel frattempo, come vedremo tra poco, nel corso dell’estate 1909 si era affermata nei teatri un’altra vampire dance, molto simile, eseguita dal duo Bert French-Alice Eis. Inevitabilmente i giornali fecero dei paragoni tra le due versioni, ritenendo quella di Smith-Donaldson inferiore a quella di French-Eis, soprattutto per il minor temperamento e abilità della ballerina. Anche queste rappresentazioni sollevarono l’indignazione dei commentatori “benpensanti” che ne stigmatizzavano il “cattivo gusto”.

Joseph C. Smith e Violet Dale nella Vampire Dance (1909)

Indifferente alle critiche, Smith continuò a promuovere la sua danza vampiresca. In particolare, cura il segmento The Vampire Dance alla chiusura del primo atto di una commedia musicale che ospitava al suo interno dei numeri di danza, The Flirting Princess, imperniata su una bella egiziana che scappa in America per evitare un matrimonio combinato. Nell’ottobre e novembre 1909 Smith esegue la Vampire Dance in un tour americano della commedia, con Violet Dale (che dopo la recita faceva sensazione baciando tutta la troupe) e il danzatore/attore Harry Pilcer. In occasione dello spettacolo al La Salle Theater di Chicago, “The Show World” (6 novembre 1909) dava una breve descrizione del ballo: “Harry Pilcer appoggia il viso alla spalla di Violet Dale e sussurra un paio di strofe della poesia di Kipling, poi entra Mr. Smith in abito da sera per finire vampirizzato. Miss Dale ha un vestito verde brillante, con in rilievo sul seno la testa di un grande serpente che le si avvolge luccicante lungo il corpo. Ondeggia intorno all’uomo, lo afferra ansimante e lo bacia, fino a che lui crolla irrigidito. Allora, con un sorriso malvagio, lei lascia cadere petali di rosa rossa sul corpo esanime e cala il sipario”.

Nella primavera del 1910, sempre a Chicago, la partner di Smith nella danza della vampira è Vera Michelena, attrice e cantante oltre che ballerina. Un ulteriore allestimento di The Flirting Princess si ha nel marzo 1911, dove però la Vampire Dance sarà eseguita da Maude Emery e Charles Morgan.

Alice Eis e Bert French nella Vampire Dance (da “The Sketch”, 15 dicembre 1909)

La “danza della vampira” conquista New York e Londra

Quello che mancava alla vampire dance di Smith e delle sue partner era l’audacia, il coraggio di portare all’estremo possibile in quei tempi il contenuto erotico della “danza della vampira”. Quel coraggio lo dimostrarono viceversa nell’estate del 1909 Alice Eis e Bert French, lei diciannovenne, lui poco più che ventenne, con il loro spettacolo The Vampire Dance. Da tre anni French e Eis si esibivano come mimi e Bert si era preso cura di insegnare la danza ad Alice. Lavorando insieme diventano noti come il primo duo a eseguire la Apache dance sui palcoscenici americani.

Dopo il successo a New York della loro Apache dance, French cercava un nuovo tema per un balletto ed ebbe l’illuminazione quando un amico gli inviò una cartolina che riproduceva il quadro di Burne-Jones. Nacque così The Vampire Dance, uno spettacolo della durata di 17 minuti che fa il suo esordio al teatro Fifth Avenue nel luglio 1909.

La rappresentazione si apriva con una Apache dance, in ambientazione vagamente parigina, dove French abbordava una donna per strada e la maltrattava senza pietà. Poi si passava alla danza vampiresca. Dalle recensioni di allora si possono immaginare i tratti essenziali dello spettacolo.

Alice Eis e Bert French nella “danza della vampira” (1909)

La scenografia è dominata da una scala, tra pesanti drappeggi, in quella che sembra una caverna su una spiaggia. Sul palcoscenico, tra suggestivi effetti di luce, c’è un giovane in abiti semplici. Si china per prendere una rosa rossa e se la porta alle labbra. In quel momento il sole svanisce e dalle tenebre emerge una luce rossa che illumina la scena, rivelando a poco a poco la presenza di una donna addormentata, al centro del palco, avvolta in un velo rosso. Una dolce musica sfuma mentre la donna si risveglia e, accucciata, resta intenta a osservare il giovane. Rimosso il velo, mostra un lungo abito d’oro e argento di foggia orientale, attillato, che le lascia scoperte le spalle e le braccia. Si avvicina al giovane. Scivola sinuosa intorno alla sua preda. L’uomo si ritrae, con un atteggiamento “femminile” che qualche giornale accostò alla ritrosia delle eroine perseguitate nei melodrammi, poi cede alla seduzione e la abbraccia. Mentre la bacia sulla bocca, la vampira tenta di morderlo al collo. Inorridito, il giovane la allontana da sé e lei cade a terra apparentemente esanime. Ma improvvisamente comincia a strisciare come un serpente verso l’uomo che tenta di fuggire. Inizia la lotta contro la seduttrice che cerca di raggiungergli la gola. Lui la respinge con brutalità e, come nella Apache dance, la getta più volte a terra, ma lei si rialza e continua a muoversi intorno a lui e a tentare di abbracciarlo. Alla fine lo avvolge nelle sue spire, di nuovo lui la bacia, ma cade di schiena e la vampira lo morde alla gola. Resta morente a terra, mentre lei lo osserva trionfante. In un ultimo tentativo di resistenza rotola via dalla vampira, ma è ancora morso al collo e muore. Quando il giovane giace immobile è inscenata una sorta di replica del quadro di Burne-Jones, con la donna che si erge sulla vittima.

La pubblicità metteva in diretta relazione lo spettacolo e il testo di Kipling (“La sensazionale poesia di Rudyard Kipling The Vampire illustrata in forma di danza da Bert French & Alice Eis”), sostenendo che “ogni frase della poesia può esser compresa dal pubblico con la stessa chiarezza che se la si leggesse”. Ad avvalorare lo stretto legame anche con il quadro di Burne-Jones contribuiva una foto promozionale di Alice Eis in sottoveste bianca e lunghi capelli scuri che evocava chiaramente la vampira del dipinto.

Alice Eis

La reazione al fenomeno della vampire dance, avviato da Smith e quasi contemporaneamente consacrato da French-Eis, fu di definirla “rivoltante” e “decadente”. Esemplari le parole di “Variety” (31 luglio 1909): “Quando ci hanno rappresentato la Apache Dance credevamo che New York avesse assistito al culmine estremo della danza sensazionalistica. La Vampire Dance va ben oltre (o sotto, se vogliamo) quella esibizione scellerata”. Il periodico continuava definendo lo spettacolo “un numero sgradevole con un grado di vividi dettagli quasi da visita medica”. Per “Variety” la Eis poteva fare la contorsionista e sapeva cadere bene a terra, ma non era certo una ballerina. La sentenza finale era senza appello: si trattava di una “esibizione assolutamente indecente”, messa in scena solo per fare cassa. Non meno severo il “New York Dramatic Mirror” (7 agosto 1909) che considerava la Vampire Dance “volgare”, uno spettacolo che “getta vergogna e discredito sui gestori del teatro” (il proprietario del Fifth Avenue, Benjamin Franklin Keith, era un’autorità nel mondo del varietà e del vaudeville) e “chiamarla danza è una diffamazione per la parola arte”. Il giornale aggiunge un “povero Kipling!” e si augura che lo spettacolo non vada oltre la prima settimana di rappresentazioni. Invece The Vampire Dance ebbe un successo clamoroso, nonostante la stagione estiva, con applausi a scena aperta e teatri pieni. Dopo due mesi a New York lo spettacolo va in tour ed è rappresentato tra l’altro al Grand di Syracuse e all’Orpheum di Atlanta. In provincia l’accoglienza della stampa è meno ostile e “The Constitution” (3 ottobre 1909) arriva a definire lo spettacolo “una vetta artistica” e “una perfezione di grazia”. Il successo fu tale che Alice Eis divenne tanto famosa da dover uscire con la testa coperta da un velo per non farsi riconoscere dalle innumerevoli persone pronte a seguirla ovunque.

Nell’ottobre 1909 Eis e French eseguono la Vampire Dance all’Hammerstein’s di New York, durante uno spettacolo che vede anche un numero di Buster Keaton, poi il loro balletto varca l’oceano. Lunedì pomeriggio 29 novembre 1909 Alice Eis e Bert French presentano The Vampire Dance all’Hippodrome di Londra e la stessa sera un’analoga “danza della vampira” è eseguita da Mildred Deverez e Tom Terriss al Tivoli. Questi ultimi, per quanto chiaramente imitatori, affermavano che la loro versione era la migliore.

A sinistra la Vampire Dance di Bert French e Alice Eis, a destra quella di Tom Terriss e Mildred Deverez (da “The Constitution”, 3 ottobre 1909; “The London Magazine”, marzo 1910)

Il duo danzante French-Eis fa di nuovo scandalo. “The London Magazine” (marzo 1910) liquida sia lo spettacolo di Terris-Deverez che quello di French-Eis come “realismo ripugnante”, dove l’arte del ballo sarebbe tramutata in mera “diavoleria”: “La Vampire Dance è chiamata danza per cortesia. In realtà non è una danza, ma una sorta di dramma in movimento, nel quale l’azione consiste in una serie di corse selvagge e demoniache su e giù per il palcoscenico, intervallate da brutali abbracci, avvinghiarsi da serpente e seduzioni da sirena”.

Fuori dal coro era invece il periodico populista inglese “John Bull”: “Per la grazia delle pose, per le forme sinuose, per la bellezza del corpo e l’avvenenza del viso, non ho mai visto niente di più incantevole di Alice Eis che, con i suoi poteri affascinanti e i movimenti da pantera, può portare alla dannazione qualsiasi essere umano” (18 dicembre 1909).

Il clamore londinese dello spettacolo fa cambiare orientamento anche alla stampa americana: “Da molti anni non si assiste a qualcosa di così nuovo e sensazionale, per quanto terribile”, scrive il “New York Herald” (26 dicembre 1909).

Il successo di pubblico della Vampire Dance a Londra è comunque strepitoso, French riceveva continue telefonate di ammiratori che volevano incontrare il duo e lettere che lodavano la “lezione morale” contenuta nel balletto. La vampire dance, infatti, prolungava in forma di balletto il contenuto “ideologico” della poesia di Kipling: la donna come pericolo, una minaccia per lo status quo a guida maschile, insidiato dalla richiesta di suffragio universale e dal femminismo. La “lezione morale”, semplificando, era di mettere in guardia l’uomo, indicando che cedere alle lusinghe di donne lascive e prive di sentimenti porta distruzione e morte.

Da “Show World”, 18 dicembre 1909

La Vampire Dance arriva al cinema

Dopo Londra, Eis e French portano il loro spettacolo a Vienna, nel luglio 1910, poi in Francia nel 1911, dove è definito “mimodrame sensuel”. Quando si esibiscono nella Vampire Dance all’Olympia, “Le Figaro” (18 aprile 1911) parla di un “trionfale successo”. Ancora a dicembre di quell’anno la Vampire Dance di Eis e French girava nelle sale francesi della provincia.

Nonostante i risultati trionfali in Europa, al ritorno in patria il duo dovette fronteggiare i rigori della censura. Per il loro spettacolo Le Rouge et Noir, nel febbraio 1913, Eis e French finirono in carcere a New York insieme al direttore del teatro. La Eis interpretava la Fortuna, una figura resa simile alla Vampira che qui illudeva un giocatore e poi gli consegnava il coltello con cui uccidersi. A far scattare le manette erano i costumi della danzatrice e alcune posture nel ballo.

Eis e French sono presto liberati, le scene incriminate sono sostituite e il duo può continuare le sue danze, riproponendo ancora la Vampire Dance a New York nel corso del 1913. Il loro successo doveva moltiplicarsi proprio in quell’anno con l’arrivo della Vampire Dance sugli schermi cinematografici. Nell’ottobre 1913, infatti, esce nelle sale un film di 38 minuti prodotto dalla Kalem, The Vampire, dove il duo si esibisce nella famosa danza vampiresca (ottennero un notevole compenso per la partecipazione al film: 2000 dollari). La regia era di Robert G. Vignola (nato in Basilicata, ma vissuto fin da bambino in America), su sceneggiatura di T. Hayes Hunter “da Rudyard Kipling”. Il direttore della fotografia era George K. Hollister, marito dell’attrice protagonista principale del film e operatore anni dopo per The Thing from Another World (La cosa da un altro mondo, 1951).

Il duo Eis-French nel film The Vampire (1913)

The Vampire raccontava la storia del giovane Harold Brentwell (Harry Millarde) che cade vittima di Sybil (Alice Hollister), una “vampira”, avventuriera spregiudicata e peccaminosa. Nelle spire della Vampira, Harold perde il lavoro e la fidanzata. Quando Harold non ha più soldi, Sybil lo abbandona e il giovane diventa alcolizzato. In un teatro assiste a una “Vampire Dance”, interpretata proprio da Alice Eis e Bert French, restandone talmente turbato che comprende i suoi errori e torna dalla fidanzata.

La visione della “danza della vampira”, dunque, porta alla redenzione. Anche se nel film Harold assiste alla Vampire Dance in uno spettacolo teatrale, le scene con Eis e French furono girate in esterni, nei boschi del New Jersey, perché le produzioni Kalem preferivano la luce naturale per le riprese. “The New York Dramatic Mirror” (1 ottobre 1913) scriveva che, dopo una proiezione privata in anteprima, gli spettatori che avevano visto in precedenza la danza di Eis e French sui palcoscenici espressero “l’opinione unanime che la Vampire Dance nella versione per lo schermo primeggiava su qualsiasi sua rappresentazione a teatro”.

Il segmento della danza è forse la prima visualizzazione in assoluto, al cinema, del morso di un vampiro. Come si nota nelle fotografie superstiti, infatti, la gola della vittima è imbrattata di sangue dopo l’attacco della vampira: la donna fatale, ma realistica, di Kipling si unisce finalmente ed esplicitamente alla creatura leggendaria bevitrice di sangue.

The Vampire creò anche problemi di ordine pubblico. Ad Atlanta la scena della danza era stata censurata, ma ne arrivò una copia integrale in un “negro theater” (una delle sale riservate agli afroamericani). Si accalcò una grande folla, composta anche da numerosi bianchi, tanto che intervenne la polizia (lo riporta “The Constitution”, 22ottobre 1913).

Il film The Vampire era considerato perduto, ma una copia è custodita all’Eastman Museum di Rochester e periodicamente viene proiettato, anche se non è disponibile su nessun supporto per l’home video (la prossima proiezione è prevista il 4 marzo 2024 al Sie Film Center di Denver).

Nel 1917 Alice Eis e Bert French si sono sposati.

La danza della vampira in The Vampire (1913)

Ascesa e declino della danza vampiresca

La moda della vampire dance si estingue a poco a poco con il diffondersi al cinema della vampirica donna fatale, grazie a una serie di pellicole che culmineranno nel successo di Theda Bara e nella proliferazione della “vamp” . Ma tra il 1909 e il 1915 la vampire dance è il fenomeno principale che cattura l’attenzione sui vampiri, nell’immaginario dell’epoca. Era tanto popolare che poteva diventare oggetto di parodie, come nella rivista Hello… London, all’Empire di Londra dal febbraio 1910, che vedeva un numero dedicato alla “danza della vampira”, di nome Julia, in questo caso impegnata a sedurre un anziano e un giovane musicista.

I perbenisti ancora nel 1912 temevano le nefaste influenze di quel ballo: “The Catholic Telegraph” di Cincinnati (16 maggio 1912) invocava in prima pagina la censura per “temi orribili e malsani come ‘La danza dei vampiri'”.

La vampira Julia in Hello… London (da “The Sketch”, 2 marzo 1910)

Ma in quegli anni non è solo l’America (o l’Inghilterra) a scandalizzarsi per la “danza della vampira” e contemporaneamente a riempire le sale per uno spettacolo che faceva il tutto esaurito ogni sera. A Parigi il 23 novembre 1909 la Vampire Dance è presentata all’Olympia con l’interpretazione di Théodora Girard (alias Teddie Gerard), appena arrivata da New York, e Harry Watt. Secondo “Variety” (4 dicembre 1909) lo spettacolo era in costumi dell’antica Grecia ed era stato subito dopo riproposto con Harry Agoust nel ruolo maschile.

L’anno successivo, sempre a Parigi, va in scena alle Folies Bergère La Vampire, pantomima ispirata alla poesia di Kipling con la danzatrice Natacha Trouhanowa, famosa per le sue interpretazioni di Salomè, e con Robert Quinault, in futuro celeberrimo ballerino. Lo spettacolo si protrae dal 15 febbraio al 30 aprile 1910, di fronte a un folto pubblico che chiedeva spesso il bis. La Vampire sarà riallestito dal primo al 27 ottobre 1913 con Miss Monor nel ruolo femminile.

Nella primavera del 1910 si rappresenta in Germania Der Vampir-Tanz, spettacolo che dichiara di ispirarsi alla poesia The Vampire e al quadro di Burne-Jones. Si tratta chiaramente della stessa pantomima di French e Eis, qui proposta con la ballerina Violet Hope nel ruolo della vampira e Fred Lesly in quello della vittima. Così la pubblicità descriveva la rappresentazione: “Una vampira vive in una grotta vicino a una palude. Tentato da un fuoco fatuo e incantato dal profumo di una rosa avvelenata, un giovane artista si avvicina alla grotta, ma fugge spaventato alla vista della vampira. Lei esce dalla grotta ed esegue una danza che eccita i sensi, finché l’artista non trova il coraggio per avvicinarsi di nuovo. La figura demoniaca lo ammalia e alla fine gli si avventa addosso e lo soffoca. Lui si libera e la allontana, ma lei alla fine riesce ad attirarlo nella grotta usando il suo velo magico. La scena, che per un momento diventa buia, mostra poi un’immagine emozionante. Immersa nella luce della luna, la vampira si china sull’artista immobile, gli succhia la vita con un bacio appassionato e poi lo getta negli abissi” (“Leipziger Tageblatt”,  16 aprile 1910).

La danza della vampira in Germania: poster per lo spettacolo del 1910

La vampire dance arriva anche in Australia, dove i giornali avevano dato ampio risalto alle prime rappresentazioni americane e londinesi, descrivendo lo spettacolo con indignazione per la decadenza, la nudità e l’assenza di vergogna. Secondo l’“Express and Telegraph” di Adelaide (8 gennaio 1910), il momento della seduzione nel corso del balletto “ha tanto a che vedere con la danza, quanto il Vesuvio con il Polo Nord”. “The Bulletin” (27 gennaio 1910) dava anche una colorita descrizione della danza: “È l’ultima importazione dagli Stati Uniti e la sua caratteristica principale è una donna che volteggia in costume succinto e trasparente, scarlatto e nero. Ruota con sinuosi e vibranti volteggi da serpente attorno a un personaggio maschile che è troppo affascinato per andarsene o resistere. Può solo fissare quella forma vorticosa che sembra un’alta fiamma dissipata e piegata dal vento. Il turbine si fa sempre più veloce, fino a che la vampira si avvicina abbastanza da avviluppare la vittima. Lei lo morde con il suo morso fatale e lui crolla lasciando le sue spoglie mortali”.

Agli spettatori australiani, la “danza della vampira” non doveva dispiacere, se qualche mese dopo, nell’aprile 1910, la Edison Records incise un disco di due minuti con un brano intitolato Dance of the Vampires, eseguito dallaNational Military Band. Nel 1911 la Clarke and Meynell’s Dramatic Company portò in tour per l’Australia A Fool There Was di Porter Emerson Browne e alla fine anche la vampire dance approdò nel Nuovissimo Continente. Nina Speight, nata in Australia, diventa nota in patria come modella e intorno al 1915 ha un grande successo con la sua The Vampire Dance nei teatri di vaudeville, identica alla versione di Eis e French. Secondo il giornale australiano “The Lone Hand” (1 ottobre 1917) la “danza della vampira” minò l’equilibrio psicofisico della Speight: “La tensione che provava per la sua potente interpretazione si dimostrò troppo grande per la sua salute”, tanto che per quel motivo nel 1916 abbandonò le scene e si trasferì in America per cercare fortuna nel cinema (ha recitato in vari film di Harold Lloyd).

La vampira di Nina Speight (da “The Lone Hand”, 1 maggio 1916)

La Vampire Dance, dunque, aveva varcato i continenti, ma a poco a poco perdeva le sue attrattive, abdicando in favore delle vamp cinematografiche. Ciò non toglie che anche in America il fenomeno proseguisse con vari interpreti. Si ha notizia, ad esempio, di una Vampire Dance con Mae Murray, in procinto di diventare una star del cinema muto, sotto la guida di Julian Mitchell, nome di punta delle Ziegfeld’s Follies e già vittima della vampira Louise Alexander nelle rappresentazioni del 1910. Nel 1919 Vera Michelena, che nove anni prima era stata partner di Joseph C. Smith nello stesso ballo, si esibisce in una Vampire Dance con Fred Hillebrand nel musical Take It From Me. Lei interpreta una regina del cinema che seduce un giovanotto, come le “vampire” del grande schermo. Sono gli ultimi fuochi della “danza della vampira”, soppiantata dal cinema e dalle sue vamp dopo il successo di Theda Bara. Qualche spettacolo di varietà continuò a presentare la Vampire Dance, fino all’ultima propaggine negli anni Cinquanta come intrattenimento nei locali, spesso ridotta alla sola protagonista femminile in abiti succinti.

Vera Michelena “vampira” in Take It From Me (1919)

Due “vere” vampire

Due interpreti della vampire dance nei teatri di inizio Novecento si sono rivelate molto simili, per certi aspetti, al personaggio della Vampira che interpretavano nei balletti. Sono Louise Alexander e Teddie Gerard, entrambe note come “vampire” delle danze da vaudeville.

Esattamente un anno dopo la sua vampire dance con Joseph C. Smith, nel giugno 1910 Louise Alexander è in Ziegfeld’s Follies of 1910, dove il balletto ha titolo A Fool There Was, richiamando esplicitamente tanto la poesia di Kipling quanto lo spettacolo teatrale di Browne. Il partner della Alexander è Julian Mitchell che già aveva curato le coreografie per le danze di Louise in Miss Innocence, a Chicago.

La Alexander, vero nome Jeanne L. Spaulding, si era sposata nel 1908 con Lewis Strang, celebre pilota automobilistico, promettendogli di lasciare il palcoscenico. Ovviamente la promessa non fu mantenuta e Louise si dedicò alla vampire dance. Ne seguì la separazione, ma soprattutto un evento giudiziario che nel 1910 occupò varie pagine di cronaca sui giornali. La moglie di Julian Mitchell, anche lei ballerina, aveva chiesto il divorzio e in tribunale fece il nome proprio della Alexander come una delle amanti di suo marito. La stampa non perse la ghiotta occasione di ricordare l’identificazione tra la Alexander e la Vampira.

Pochi mesi dopo, nel 1911, Strang muore in un incidente stradale che il gossip interpretò come suicidio. Insomma, la vampira Louise aveva distrutto il matrimonio del suo partner sulla scena (anche se in seguito Mitchell e la moglie si riappacificarono) e il suo ex marito era andato incontro a una fine tragica.

Louise Alexander (da “Minneapolis Star-Tribune”, 17 luglio 1910)

Ancora più vampiresca la biografia di Teddie Gerard, nata in Argentina nel 1892. Si chiamava in realtà Thérése Théodora Gerard Cabrié e diventò nota sulle scene anche come Teddy Gerard, Terrie Gerrard, Theodora Gerard o Girard. Negli anni della sua popolarità nei teatri era soprannominata “La Belle Théodora” a Parigi e “Teddie the Great” a Londra.

Da giovanissima, come racconta Alva Johnston (The Legendary Mizners, Farrar, Straus and Young, New York 1953), era entrata nelle grazie dei commediografi George Bronson-Howard e Wilson Mizner, oltre che di un innominato scrittore di famosi polizieschi. I tre pigmalioni “istruirono la ragazza, ne corressero la dizione, ne raffinarono la personalità e la avviarono alla carriera teatrale”. Mizner e Bronson-Howard, con la passione per l’oppio, la incaricavano di preparare la sostanza per poterla fumare. Quando la ragazza lasciò il trio di uomini per calcare le scene, Bronson-Howard non prese bene l’abbandono. Nell’agosto 1909, mentre l’attrice era impegnata a Broadway nella commedia musicale Havana, Bronson-Howard si presentò a casa sua per riprendersi un anello con diamante che le aveva regalato e la minacciò con un coltello. Per tutta risposta, Teddie lo fece arrestare. Quando Bronson-Howard fu perquisito alla stazione di polizia si scoprì che nascondeva un lungo pugnale: lui sostenne che era di Teddie e che lo aveva preso perché l’attrice minacciava di usarlo per uccidersi. Mizner pagò la cauzione e Bronson-Howard tornò libero.

Al processo, Miss Gerard si presentò in tribunale con un vestito da sera nero ornato di piume e una preziosa collana di diamanti con pendant a forma di cuore, senza però riuscire a convincere i giudici. Bronson-Howard fu scagionato per il furto dell’anello, ma le sue disavventure non finirono. Restò sotto accusa per il coltello che portava con sé al momento dell’arresto e nel maggio 1910 fu nuovamente arrestato a Baltimora per decadenza della cauzione. Inoltre per vendicarsi del giudice aveva dato lo stesso nome del magistrato a un personaggio negativo di un suo romanzo, ottenendo così una querela. Caduto in depressione durante la Prima guerra mondiale, Bronson-Howard nel 1922 si uccide con il gas.

Teddie, invece, dopo la vicenda giudiziaria proseguì la sua carriera, interpretando la Vampire Dance a Parigi nel novembre 1909. Proprio nei giorni in cui ballava la danza della vampira, una sera da Maxim’s si sentì disturbata dagli sguardi di un russo e gli spaccò un bicchiere in faccia.

Teddie Gerard in posa da donna fatale e un articolo del “Los Angeles Times” (15 luglio 1912)

Nel 1910. a Londra, Teddie Gerard diventò amante dell’estroso milionario Edward Russell Thomas e quando l’anno dopo tornò in America sostenne nelle interviste di essere stata “la prima a presentare la Vampire Dance che appassionò l’Europa diversi mesi fa” (“The New York Press”, 6 marzo 1911). La attendeva però una vicenda quasi identica a quella che coinvolse Louise Alexander: nel 1912 la moglie di Thomas chiese il divorzio puntando il dito sulla “vampira” che a suo dire aveva distrutto il loro matrimonio. I giornali potevano così replicare, come per la Alexander, gli accostamenti tra il personaggio vampiresco sulla scena e la realtà: Il milionario, la moglie e la ballerina “vampira” titolò ad esempio “The Evening World” (20 marzo 1912).

Negli anni successivi la Gerard fu una star minore di Broadway, molto seguita dalla stampa scandalistica per le innumerevoli avventure amorose con aristocratici russi, ungheresi e britannici. Teddie Gerard recitò anche nel cinema muto ed ebbe l’opportunità di apparire con Boris Karloff in The Cave Girl (1921), nel ruolo del titolo.  Ancora nel 1926 rallegrava i party più chic, tra alcol e battute salaci, come ricorda nei suoi diari il grande fotografo Cecil Beaton (The Wandering Years: 1922-39, Weidenfeld & Nicolson, London 1961).

VAMPIRI A SMOLENSK

Quanti sanno che la serie tv più amata e popolare in Russia negli ultimi anni (tra pandemia e guerra) è una serie sui vampiri? Si intitola Vampiry sredney polosy, traducibile come “Vampiri dei territori centrali”: i “territori centrali” sono quelli di Smolensk e dintorni, dove si ambienta la serie.

Commedia horror unita a dramma, a storie d’amore e a meccanismi del poliziesco, Vampiry sredney polosy si incentra su una “famiglia” di vampiri, guidata da un anziano. Ibrido tra What We Do in the Shadows e La famiglia Addams (con suggestioni anche dalle saghe occidentali sui supereroi: ogni vampiro ha un suo personale superpotere), è stata veicolata dall’azienda russa di streaming Start dal marzo 2021 e poi dalla rete TNT.

Nell’episodio d’apertura della prima stagione, diretta da Anton Maslov, facciamo subito la conoscenza con il giovanissimo Zhenya (Gleb Kalyuzhny), diventato vampiro da poco tempo, che si dedica a dissanguare umani senza arrivare a ucciderli, portando fiale piene di sangue alla sua “famiglia”.

Il protagonista principale è Svyatoslav Vernidubovich (Yuri Stojanov), detto Nonno Slava, vampiro dalla notte dei tempi con un suo precipuo superpotere: può volare, anche se con difficoltà data l’età avanzata, e si trasforma in mostruoso pipistrello. È lui il capofamiglia: nel corso dei secoli ha reso vampiri tre persone che si trovavano in pericolo di morte e poi le ha riunite per creare una “famiglia”. Oltre a Zhenya, vivono con lui Jean (Artem Tkachenko) e Anna (interpretata da Ekaterina Kuznetsova nella prima stagione, Anastasiya Stezhko nella seconda).

Jean è un francese, medico in epoca napoleonica quando venne reso vampiro da Slava. Oggi lavora in un ospedale di Smolensk, sempre pronto a sedurre giovani infermiere. Grazie al suo lavoro fornisce alla “famiglia” sacche di sangue. Come superpotere, assaggiando il sangue può sapere tutto sul donatore.

Anna è stata vampirizzata da Slava nell’immediato dopoguerra, quando era agente della milizia sovietica. Anche ai giorni nostri fa la poliziotta, rivelando un carattere duro e femminista. Proprio a lei è affidata l’indagine che coinvolge i vampiri e quindi i suoi “familiari”. Grazie al suo superpotere può leggere i pensieri di una persona toccandola.

Zhenya gestisce un blog sui vampiri e organizza feste vampiresche. Ignora quale sia il suo superpotere, ma scopre la telecinesi e l’incredibile capacità di rigenerazione del suo corpo (Nonno Slava gli trafigge una mano con un coltello e la ferita si rimargina immediatamente).

I succhiasangue di Vampiry sredney polosy non temono la luce del sole e si riflettono negli specchi. Nonno Slava è l’unico che vuole dormire in una bara, per rispetto di antiche tradizioni. Questa piccola comunità vive come una tranquilla famiglia di provincia, cibandosi di sangue senza uccidere nessuno per seguire le precise regole della comunità vampirica, controllata da severi Guardiani, che vietano di togliere la vita agli umani così da non suscitare ostilità.

La famiglia dei vampiri di Smolensk: dall’alto Jean, Anna e Zhenya

La vita della famiglia di vampiri è turbata quando la polizia trova vari cadaveri senza sangue in un boschetto di betulle vicino a Smolensk. Tutti i vampiri della zona sono in pericolo, perché la loro esistenza può essere rivelata, e la famiglia di Nonno Slava deve allontanare ogni sospetto e scoprire i veri responsabili.

La seconda stagione ripete alcuni cliché della prima, con altri omicidi, un altro capo dei Guardiani e alcune novità: una misteriosa bambina testimone di delitti che viene ospitata dalla famiglia dei vampiri, l’arrivo in città di una violenta banda di vampiri e la prigionia di Olga, catturata dai Guardiani perché aspetta un figlio da un umano.

Vampiry sredney polosy è un prodotto per tanti versi di grande raffinatezza, sia nella cura delle immagini (il cinema e la tv della Russia si avvalgono di ottimi professionisti) che nei sottotesti, come le riflessioni sull’umanità in contrapposizione al vampirismo (“essere umani è difficile” dice Nonno Slava). La serie, tra l’altro, non è indirizzata a un pubblico esclusivamente giovanile, sia perché il protagonista principale è un anziano, sia perché evita di concentrarsi (al contrario delle saghe di Buffy l’Ammazzavampiri o di Twilight) su personaggi teenager, ma privilegia gli adulti se si esclude il blogger Zhenya.

Nonno Slava si trasforma

Gli ingredienti che hanno permesso alla serie di ottenere un vasto successo in Russia sono molteplici. I personaggi femminili sono tutti delineati come donne forti e indipendenti, ogni vampiro della “famiglia” attrae l’attenzione degli spettatori con la propria vita individuale, appassionando il pubblico che si affeziona alle loro vicissitudini, in gran parte sentimentali. La serie ospita una delle più intense storie d’amore tra vampiri, quella tra il francese Jean e la contessa Olga Vorontsova (Olga Medynich). È una storia d’amore tempestosa, tra reciproci tradimenti. Jean sposò Olga e poi la lasciò 80 anni prima. Ancora innamorato, oggi Jean si reca a prendersi cura della tomba di lei al cimitero, anche se sa che Olga non è lì. Olga, attrice di mestiere, come tutti i vampiri della serie ha un superpotere: ipnotizza con lo sguardo fascinoso.

Altra storia d’amore è quella tra Anna e il tenace investigatore moscovita Ivan Zhalinsky (Michail Gavrilov) che deve indagare sulle strane morti di Smolensk. Scapolo e donnaiolo, Ivan si innamora presto della collega e ne scopre il vampirismo durante un rapporto sessuale. Nella seconda stagione viene fatto subito morire, a sorpresa, gettando Anna nella disperazione.

La vampira Olga

Vampiry sredney polosy sfrutta la possibilità, tipica delle serie dei film sui vampiri, di ambientare flashback in epoche storiche lontane. Grazie alla sua lunga esistenza, Nonno Slava ha conosciuto tutta la storia della Russia e commenta sarcasticamente vari personaggi, da Stalin a Yuri Gagarin. Non mancano le critiche satiriche all’amministrazione pubblica russa. Irina Vitalievna (Tatiana Dogileva) è una funzionaria statale, ma è anche alla guida dei temuti Guardiani, e Nonno Slava farà capire che i funzionari di Stato, in Russia, possono fare più paura dei vampiri. Implicitamente la serie ci dice qualcosa sulla Russia di oggi e sulla sua cultura: quelle creature trasgressive per antonomasia che sono i vampiri qui sono integrati nella società. Insomma, nella Russia odierna anche i vampiri collaborano al bene del paese.

Vampiry sredney polosy attualmente consta di due stagioni (la prima del 2021 e la seconda del 2022) con 8 episodi ciascuna, più uno speciale natalizio che vede la famiglia di vampiri prepararsi al nuovo anno, ed è stata annunciata la produzione di una terza stagione. Nel 2018 era stato girato un episodio pilota, con alcuni interpreti e il regista differenti da quelli della serie definitiva.

Fin dall’inizio il ruolo cruciale di Nonno Slava doveva andare all’attore Yuri Stojanov che però rinunciò per altri impegni. La parte passò a Mikhail Yeframov, rimasto poi coinvolto in un processo che in Russia ha fatto scalpore, per un tragico incidente automobilistico: a quel punto il ruolo tornò a Stojanov. Un’altra sostituzione fu necessaria per la seconda stagione, dato che l’interprete della vampira-poliziotta Anna, Ekaterina Kuznetsova, aveva lasciato la Russia per dissensi politici.

La serie Vampiry sredney polosy può essere visionata nei servizi a pagamento start.ru e sovietmoviesonline.com (con sottotitoli in inglese).

A questo link https://www.facebook.com/ivo.scanner/videos/1116506389503010/ l’inizio del primo episodio, sottotitolato in italiano, con interessante colpo di scena finale.

Immagine dai titoli di testa della serie

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 4

Le Vampire di de Vylars e Souvestre

Tra le pagine di uno dei primi testi di moderna vampirologia, The Vampire: His Kith and Kin (K. Paul, Trench and Trubner, London, 1928), il reverendo Montague Summers citava uno spettacolo che pochissimi studiosi dell’argomento hanno preso in considerazione: The Vampire, rappresentato al Paragon Theatre di Londra lunedì 27 settembre 1909.

Summers segnalava che lo spettacolo “era stato accolto molto bene” e riportava il commento di “The Stage” (30 settembre 1909): “È una piccola opera teatrale scritta magistralmente e concepita alla maniera del Grand Guignol”. Il riferimento al Grand Guignol, il teatro parigino specializzato in spettacoli violenti e macabri, non era casuale perché The Vampire era in realtà l’adattamento in inglese di un’opera teatrale andata in scena un anno prima a Parigi: Le Vampire, dramma in due atti di Mme. C. de Vylars e Pierre Souvestre. Dell’autrice de Vylars daremo conto più avanti, mentre Souvestre era uno scrittore destinato a grande popolarità e che presto diventerà celebre per il suo personaggio Fantômas, creato con Marcel Allain.

Il cast di The Vampire (da The Era Almanack and Annual 1910)

Il testo risulta perduto, ma la trama di Le Vampire può essere ricostruita grazie alle recensioni di allora (in particolare una estesa sintesi su “Comoedia”, 5 agosto 1908).

Atto primo. Christian è inconsolabile, perché convinto di aver provocato la morte della sua amante Sonia, abbandonandola: la donna, infatti, si è suicidata. Su indicazione di uno strano medico, Christian chiede allo spiritista indù Suratshin di evocare lo spirito della defunta. Suratshin acconsente, ignorando che si tratti di una suicida, dato che le regole dell’occultismo vietano di evocare chi si è tolto la vita. Una seduta spiritica evoca così lo spettro di Sonia: lo spirito predice a Christian che diventerà pazzo. Christian è ossessionato dalle parole di Sonia, perde vitalità e ragione. Jacques, un avvocato che si sente in parte responsabile per la morte di Sonia, dato che Christian l’aveva lasciata su suo consiglio, vuole salvare l’amico e liberarlo dal terrore che lo attanaglia. Si rivolge quindi a Suratshin per inscenare una nuova seduta spiritica.

Atto secondo. Jacques chiede alla giovane attrice Nelly, sua fidanzata, ma che Christian non conosce, di prestarsi a un piano per far rinsavire l’amico: durante la seduta spiritica deve indossare veli per sembrare un fantasma e apparire a un segnale di Jacques, facendo credere di essere la reincarnazione di Sonia, perdonando Christian e garantendogli che non impazzirà. Il piano è messo in atto e Christian crede davvero di avere di fronte la reincarnazione di Sonia. Colto da una folle rabbia nei confronti della donna che tanto lo ha fatto soffrire, spara un colpo di pistola a bruciapelo uccidendo Nelly, convinto che sia lo spettro di Sonia.

Come nella poesia The Vampire di Kipling, non ci sono riferimenti diretti alla sottrazione di sangue ai vivi da parte di un nonmorto. Il significato prevalente della parola “vampiro” in quegli anni si conferma quello metaforico e allusivo, lontano dalle creature leggendarie succhiatrici di sangue. Il fatto che il “vampiro” della vicenda sia di sesso femminile si inserisce certamente nella moda delle donne fatali lanciata dalla poesia The Vampire, ma si accentuano gli elementi soprannaturali, sostanzialmente assenti in Kipling, perché la donna che porta alla rovina un uomo è una defunta tornata dalla morte grazie a una seduta spiritica. La caratteristica più originale del testo teatrale era di unire spiritismo e vampirismo, con la figura di un medium che mette in contatto con i morti. Come vedremo tra poco, il connubio spiritismo-vampirismo si deve alla coautrice de Vylars, direttamente interessata alle teorie spiritiste, ma non va dimenticato che il testo teatrale prendeva origine da un breve racconto dell’altro autore, Souvestre, intitolato Soirée dans le Monde e apparso su “Comoedia” il 10 febbraio 1908. Il racconto contiene alcuni dei personaggi e delle situazioni di Le Vampire, senza la figura dello spiritista indù. Il russo Dimitri soffre di allucinazioni in cui gli appare la fidanzata Sonia da poco defunta: “La rivide una sera, minacciosa, vendicatrice e si immaginò che gli dicesse: ‘Infame Dimitri, tu mi hai tradita!’. (…) Ormai la vedeva ogni notte, non importa dove, al ristorante, al ballo, a casa…”. Nel racconto, è il fratello di Dimitri a reclutare l’attricetta Nelly Roval per fingersi il fantasma di Sonia, ma la conclusione è simile a quella del testo teatrale: Dimitri crede di avere di fronte lo spettro e uccide Nelly con un coltello.

Si può aggiungere che Souvestre all’epoca era in procinto di pubblicare il suo primo romanzo, scritto con Marcel Allain, Le Rour (uscirà come feuilleton tra gennaio e marzo 1909 e in volume a maggio), che contiene alcune suggestioni vampiresche: il diabolico dottor Wumpt ha inventato ali da pipistrello che gli permettono di volare (si notano nell’illustrazione della copertina originale) e vuole creare un essere femminile artificiale dotato di immortalità.

La copertina di Le Rour e una recensione di Le Vampire su “Comoedia” (2 agosto 1908)

Se oggi Le Vampire pare completamente dimenticato, oltre che ignorato dalla saggistica recente sui vampiri, alla sua comparsa sui palcoscenici fece sensazione e la sua notorietà si prolungò per anni, tanto che Ernest Jones, nel suo fondamentale On the Nightmare (Hogarth Press, London 1931; trad.it. Psicoanalisi dell’incubo, Newton Compton, Roma 1978), citava Le Vampire di de Vylars e Souvestre tra i testi fondamentali a tema “necrofilo”, accanto a Justine di D.A.F. de Sade e Le Vampire di Charles Baudelaire.

Quando lo spettacolo Le Vampire fece il suo esordio al teatro parigino Little-Palace nell’agosto 1908 suscitò grandi emozioni. “Nonostante il periodo e le numerose partenze per le località marittime, una folla elegante si è accalcata, ieri sera, nella graziosa sala di rue de Douai”, scriveva “L’Auto-vélo”, giornale al quale collaborava Souvestre, appassionato di automobilismo. Lo spettacolo era definito “tra i più eclettici” e “degno di lodi”, un “dramma occulto” che si era rivelato il grande evento della serata: “I due atti toccanti del Vampire hanno fatto rabbrividire a volontà il pubblico. Tutta Parigi vorrà vedere quest’opera che provoca emozioni supreme” (2 agosto 1908). Aggiungeva “Le Triboulet” (9 agosto 1908): “Questo dramma ben strutturato ed efficace ci ha fatto passare qualche momento pieno d’angoscia”. Il giornale radical-socialista “Le Radical” (7 agosto 1908) si sperticava in elogi, affermando che lo spettacolo “ha ottenuto il massimo successo che si possa immaginare, perché era contemporaneamente un successo di curiosità, un successo di emozione e un successo d’arte”. Gli interpreti, raccontava il giornale, sono stati applauditi a lungo alla fine di ogni atto e l’attrice Magda Maguéra nella parte di Nelly “ha fatto attraversare la sala da un immenso brivido di spavento quando, colpita in pieno cuore da un proiettile sparato dall’infelice impazzito, crolla all’improvviso: non si potrebbe unire meglio la cura per il verosimile con quella per l’estetica”. Non mancavano gli apprezzamenti per la coautrice: “Mme de Vylars ha messo la sua conoscenza approfondita delle scienze occulte al servizio del dato pittoresco fornito da quell’eccellente narratore che è Pierre Souvestre”.

Anche la versione inglese del 1909, The Vampire, ebbe successo, tanto che tornò sul palcoscenico sei anni dopo, il 16 agosto 1915, al Garrick Theatre di Londra durante una affollata rassegna estiva di Grand Guignol. Dalle recensioni dell’epoca, parrebbe che nell’adattamento per il pubblico inglese sia stato modificato il finale. Nell’originale francese tutto si conclude con la morte della giovane attrice, mentre nella versione londinese l’assassino è a sua volta ucciso dall’amico. Nell’allestimento londinese cambiano anche alcuni nomi dei personaggi: Christian diventa Harry Le Strange, Jacques diventa Jack Harringer, Nelly diventa Olga, solo Sonia e Suratshin mantengono lo stesso nome.

L’adattamento e la traduzione per il pubblico britannico erano di un uomo di teatro che dedicò molti anni al progetto di importare in Inghilterra il successo del Grand Guignol. Si tratta di José G. Levy che inizialmente riuscì a rappresentare opere grandguignolesche in varie sale, gestendo poi dal 1920 il Little Theatre di Londra e trasformandolo in un punto di riferimento per gli appassionati del Grand Guignol. Era stato lo stesso Levy ad adattare in lingua inglese L’Angoisse, altra opera macabra di Mme C. de Vylars, e proprio a Levy si dovrà l’allestimento teatrale, nel 1927, del Dracula di Hamilton Deane con Raymond Huntley nel ruolo del vampiro e lo stesso Deane come Van Helsing. Fu proprio quell’allestimento prodotto da Levy che fu visto da Horace Liveright, talmente entusiasta da realizzarne immediatamente una versione per Broadway, con Bela Lugosi nella parte di Dracula, aprendo un altro capitolo decisivo nella storia del vampiro moderno.

Rare immagini dall’allestimento parigino di Le Vampire

Alla scoperta della misteriosa Cilia de Vylars

Chi era Mme C. de Vylars, coautrice con Souvestre di Le Vampire? Di lei è molto difficile trovare notizie. Dietro quella C. non è chiaro quale nome si celasse. Sulla stampa dell’epoca il suo nome è riportato in svariate forme: Célia, Céline, Célier, Coelia, Ceylia, Cilia, Cilla, Cylia, Lilia, Ciliade… Nei testi che scriveva per i giornali si firmava sempre Cilia e qui così la chiameremo.

Quale sia il suo vero nome è difficile stabilire, così come la sua data di nascita. Si può presumere che fosse ventenne nei primi anni del Novecento e il suo cognome fosse Ikelheimer, dato che risulta sorella di Marc Ikel, direttore di “Echos Parisiens” e membro della Association de la presse judiciaire parisienne, il cui vero nome era Marcel-Anatole Ikelheimer, nato nel 1879. Marc Ikel compare nell’elenco di ebrei attivi nelle professioni e nell’amministrazione statale (Etat Statistique des Juifs en 1914, a cura di G. de Lafont de Savines, Revue Antimassonnique, Paris 1914) e la carriera di Cilia si avviava in anni difficili per gli ebrei francesi, in un paese scosso dal caso Dreyfus, quindi si può supporre che come il fratello avesse optato per un “nome d’arte”. La scelta del cognome de Vylars rimanda a una vera famiglia di ascendenze nobiliari che a sua volta ha infinite varianti ortografiche, spesso inopinatamente applicate a Cilia dai giornali: Villar, Viller, Villier, Villiers, Villers, Villis, Villars e, appunto, Vylars. I de Vylars, in particolare, erano una nobile famiglia britannica nota almeno dal Duecento (un Nicholas de Vylars si registra in Sussex nel 1327). A quella famiglia dai tanti nomi, originati da un riferimento a località francesi, risalgono anche gli antichi nobili normanni dei Villiers de L’Isle-Adam e non si può escludere che Cilia abbia scelto il suo pseudonimo in omaggio allo scrittore simbolista Auguste de Villiers de L’Isle-Adam, autore dei Racconti crudeli (Contes cruels, 1883) e del romanzo Eva futura (L’Ève future, 1886).

Con un’attenta indagine nelle emeroteche si scopre, non senza fatica, il percorso intellettuale di Cilia, dal 1902 alla sua morte nel 1911, l’unico periodo che pare documentabile attraverso articoli e citazioni.

Le prime apparizioni del suo nome risalgono ad alcune recensioni teatrali che firma nel corso del 1902 per “La Lanterne de Boquillon”. Escono anche i suoi primi racconti, come la novella Superstition per la rivista “La Famille” e la triste favola macabra Rose fanée; coeur brisé per “Gil Blas illustré”. Avvia nello stesso periodo la sua attività di autrice teatrale con la commedia Le Suiveur, in scena al teatro Tour Eiffel da giugno a dicembre 1902, scritta con l’allora sessantenne Henri Le Verdier, prolifico autore di romanzi ambientati nel mondo vizioso di Parigi. Per l’occasione, proprio “La Lanterne de Boquillon” scrive che quella “curiosa fantasia” in un atto era “originale ed elegante come Mme Cilia de Vylars, che ne è coautrice, nostra davvero affascinante collaboratrice”. Il sodalizio tra la giovane esordiente e l’autore già affermato è molto produttivo: Cilia insieme a Le Verdier scrive tra l’altro i racconti La Torte per “Le Journal du dimanche” (28 dicembre 1902) e La bonne Etoile per “Le Petit Soleil” (21 marzo 1903), il breve pezzo teatrale sul divorzio con tre personaggi Pourquoi ils divorcent per “La Caricature” (30 agosto 1902), il romanzo Très Femme e un feuilleton, Le cercle rouge, che appare nella primavera del 1903 sul quotidiano “Le Rappel”. A febbraio 1903 aveva ripresentato Le Suiveur per un evento del quotidiano “Le Journal”, organizzando per l’occasione con Le Verdier una festa di beneficenza.

Una piccante vignetta illustra un pezzo teatrale di Cilia de Vylars e Henri Le Verdier (“La Caricature”, 30 agosto 1902)

Nel corso del 1903 Cilia scrive la pièce in un atto Fruit vert, rappresentata al Théâtre Rabelais da luglio a dicembre, e sempre a luglio firma i tre atti di Mimi Pinson (ispirati al racconto omonimo di Alfred de Musset, 1845) per il teatro Villerville, poi riproposto al Théâtre de la Bodinière nel 1904. Dello stesso 1903 è anche La Reconnaissance, un atto rappresentato al Rabelais dal 19 novembre. Nel frattempo continua a scrivere per i giornali: firma recensioni teatrali per “Le Petit Sou” e pubblica su “Le Supplément” (15 agosto 1903) la poesia erotica Volupté, una sorta di ode ai “preliminari” nei rapporti sessuali.

Dopo il sodalizio con Le Verdier trova un nuovo partner di scrittura, avviando una stretta collaborazione con Gaston Berthey, giovane giornalista destinato a diventare suo marito. Con lui firma À l’ombre de Kali, una pièce in un atto e in versi, e il testo teatrale La bonne œuvre, allestito in più riprese al teatro Nouvelle Comédie e poi nell’estate 1906 al Théâtre des Arts. In un’occasione, Cilia si improvvisò attrice per sostituire una delle interpreti, dimostrando “un felice talento e convinzione, nonostante fosse la prima volta che calcava una scena” (“Le Soir”, 17 giugno 1906).

Cilia è molto presente nel mondo culturale parigino. Sappiamo che era interessata a temi occulti e seguace dello spiritismo, molto in voga nella Francia di allora e diventato dottrina filosofica grazie alle teorie di Allan Kardec, ma non ci sono testimonianze dettagliate su questo suo interesse. Più evidente, invece, il suo legame con ambienti socialisti e femministi.

Il 7 marzo 1905 tiene una conferenza in cui auspica “una maternità volontaria e ragionata”, nella sede della loggia massonica “La Raison Triomphante” nota per l’appoggio alle istanza femministe. È inoltre sostenitrice della rivista “Carnet de la femme” promossa dalla Contessa Marcelle Weissen-Szumlanska, archeologa ed etnologa.

Le tematiche sociali emergono anche nel suo testo Dans la Boue, “studio dei bassifondi parigini”, rappresentato nel giugno 1906 al Théâtre-Municipal. Nello stesso mese pronuncia un discorso a un evento dell’associazione di beneficenza “Dotation des mères françaises” dove analizza i rapporti tra famiglia e società. Frequenta inoltre il cenacolo intellettuale della rivista “Le Grillon”, mensile “littéraire et satirique” diretto da Edmond Teulet, poeta e chansonnier. L’impegno di Cilia si evidenzia infine nel breve poema drammatico a tema esplicitamente sociale Vers la Force (Lafolye, Vannes 1905), scritto con Gaston Berthey e più volte rappresentato nel 1907: due operai discutono della loro condizione, uno ha scelto di dimenticare i suoi problemi ricorrendo all’alcol, l’altro non rinuncia a lottare per i suoi diritti, restando fedele a un ideale. Entrambi sono destabilizzati da un’operaia che lamenta di essere dimenticata da loro: “Sopporto, più ancora di voi, le iniquità sociali”. I due operai la invitano a unire le forze tra sfruttati: “Vieni con noi, vieni a far sentire la tua voce, e dalle nostre miserie unite e solidali creeremo una nuova forza”.

La scena cruciale di L’Angoisse in una vignetta da “Comoedia” (23 febbraio 1908)

Il successo al Grand-Guignol

Quella parentesi di attivismo radicale e femminista sembra chiudersi quando, nel 1908, arriva finalmente un notevole successo teatrale grazie al testo che rimarrà il più famoso nella breve carriera di Cilia de Vylars, L’Angoisse, firmato con Pierre Mille e in scena il 20 febbraio 1908 al Théâtre du Grand-Guignol di Parigi.

Così “Comoedia” (23 febbraio 1908) riferisce della prima al Grand-Guignol: “Ecco la bellissima Cylia de Vylars, responsabile di L’Angoisse, suo complice Pierre Mille. Anche lei sembra in grande angoscia, la bella Cylia, e ritrova un po’ di calma solo per mormorarmi all’orecchio: ‘Sapete, sono felice: a Mendès [Catulle Mendès, influente scrittore di quegli anni] è piaciuta molto’”.

La trama di L’Angoisse evocava Edgar Allan Poe. Uno scultore allestisce il suo atelier nello studio che era appartenuto a un collega americano, sparito nel nulla. Ogni sera le lampade si spengono misteriosamente e strane presenze ossessionano lo scultore. Una giovane modella, medium senza saperlo, cade in trance e racconta ciò che è avvenuto in quei locali: l’artista americano aveva ucciso la moglie a martellate e sigillato il corpo in un blocco di gesso, ancora abbandonato in un angolo dello studio. “È là!”, urla la ragazza. Lo scultore rompe il blocco di gesso e trova al suo interno il cadavere mummificato.

Lo spettacolo sarà riproposto nel luglio 1914, nel gennaio 1916 e ancora nel settembre 1922 (con la celebre star del Grand-Guignol Paula Maxa, “la donna più assassinata del mondo”). Poco dopo i primi successi parigini, il Grand-Guignol de Paris portò lo spettacolo a Londra, allo Shaftesbury Theatre, e nel 1912 è Jose G. Levy ad adattarlo in lingua inglese, come farà per Le Vampire, presentandolo con il titolo The Medium e riproponendolo per molte stagioni fino al 1932.

La popolarità dello spettacolo indusse Vernon Sewell, regista britannico da riscoprire, ad acquistarne i diritti e a girare ben quattro film ispirati a L’Angoisse: il cortometraggio The Medium (1934), i film Latin Quarter / Frenzy (L’amante della morte, 1945) e Ghost Ship (1952), infine l’episodio televisivo House of Mystery (1961) della serie “Kraft Mystery Theater”. Sewell, ricordiamo, ha diretto un film vampiresco con Peter Cushing, The Blood Beast Terror (Mostro di sangue / Una bestia vestita di sangue, 1968), dove una donna si trasforma in un mostruoso lepidottero ematofago, promosso con lo slogan “The blood lust of a frenzied vampire!!” (La brama di sangue di uno sfrenato vampiro!!).

Poster per il film di Vernon Sewell tratto da L’Angoisse

La buona accoglienza di L’Angoisse e il tema “orrorifico” portano pochi mesi dopo Cilia ad avventurarsi nuovamente nel genere con Le Vampire, in scena al Little-Palace dal primo agosto 1908 e scritto con Pierre Souvestre, ennesimo e prestigioso coautore. Mentre Le Vampire e L’Angoisse mietevano successi, Cilia continua a produrre. Il 17 giugno 1908 la sua poesia L’Eternelle Prostitute è letta in una serata letteraria e teatrale al Nouveau Théâtre d’Art.

Prosegue inoltre la collaborazione dell’autrice con il teatro Little-Palace, scrivendo il balletto Ivanowska in scena a settembre. “Comoedia” (3 settembre 1908) saluta i brividi d’orrore regalati al pubblico e gli applausi trionfali: “Mme C. de Vylars eccelle nelle situazioni drammatiche di una spaventosa semplicità, tanto più atroci quanto più sono semplici”.

Lo spettacolo narra la storia di una ballerina che versa del veleno nella coppa del governatore Potenief, beve da quella stessa coppa per sviare i sospetti e danza perdutamente, torturata da atroci sofferenze, comunque con il sorriso alle labbra, fino a che il tiranno beve infine a sua volta e muore. “La Vie théâtrale” (25 settembre 1908) scrive che Ivanowska “ci permette di applaudire una nuova forma del talento di questa autrice tanto affascinante. Vi ritroviamo il segno potente dell’Angoisse e del Vampire”.

L’inquietante balletto Ivanowska (da “La Vie théâtrale”, 25 settembre 1908)

Nel 1909 Cilia, in qualità di poetessa, ha l’onore di alcune pagine di apprezzamento da parte di Jules Bertaut, critico letterario di grande prestigio. Nel suo libro La littérature féminine d’aujourd’hui (Librarie des Annales, Paris 1909), Bertaut scrive: “Vorrei citare una giovane donna, Mme Cylia de Vylars, che ha già mostrato felici disposizioni per la scena e che avrà successo, ne sono certo, perché ha saputo svincolarsi da un femminilismo eccessivo. Del resto, basta sfogliare le sue poesie per capire che tende verso la poesia baudelairiana, verso la poesia di idee e non solamente verso un semplice connubio di parole, di epiteti e di sensazioni”. Per avvalorare le sue tesi, Bertaut riportava varie strofe di una poesia di Cilia, La Gloire, dove la gloria diventa una sorta di vampiro che porta alla distruzione morale chi ne è alla ricerca, straziando chi non la ottiene.

Uno stringato trafiletto su “L’Éclair” del 31 dicembre 1909 (notizia poi ripresa da “Le Figaro” l’8 gennaio 1910) annuncia: “J. H. Rosny aîné e Mme Cilia de Vylars stanno terminando una pièce in tre atti dal titolo Les Enlisés”. Dopo Le Verdier, Berthey, Mille e Souvestre, forse Cilia aveva trovato un nuovo partner intellettuale in Rosny, grande scrittore del fantastico e pioniere della fantascienza moderna. Purtroppo il progetto non risulta mai concretizzato, ma sarebbe stato interessante assistere alle creazioni in tandem dell’autrice di Le Vampire e del futuro autore di La jeune vampire(1920).

Il 4 novembre 1910 Cilia sposa Gaston Berthey. Dopo il matrimonio la sua attività creativa sembra svanire, forse per gravi problemi di salute. Vive nel cuore di Parigi, a rue de la Rochefoucauld, ma il suo nome non compare più nei teatri o sulla stampa. Si riparla di lei solo sabato 8 luglio 1911, in un necrologio del giornale “Le Rappel”: “Si annuncia la morte di Madame Gaston Berthey, in letteratura Cilia de Vylars, sorella del nostro collega Marc Ikel della cronaca giudiziaria. Le esequie saranno celebrate venerdì. Ci si riunirà al colombarium del Père-Lachaise. Cilia de Vylars ha collaborato a numerosi periodici e il teatro del Grand-Guignol ha rappresentato con successo un atto drammatico che aveva firmato con Pierre Mille”.

Gaston Berthey sopravvive a lungo alla moglie. Si stabilisce nel 1926 al Cairo, come corrispondente del giornale “Le Matin”, viaggia in Brasile e scrive per riviste brasiliane, collabora nel 1930 a “Le Journal des débats” e prosegue la sua vita in Egitto con una nuova e giovane moglie, giornalista. Gaston continuò a dedicarsi alla scrittura: legge i suoi versi nel maggio 1945 a un evento degli Amis de la Culture Française en Egypte, pubblica il romanzo Une vie atatons (Éditions de la Revue du Caire, 1948). Nel 1926 aveva dato un ultimo omaggio a Cilia, organizzando una recita al Cairo della pièce poetica che avevano scritto insieme, À l’ombre de Kali: a interpretare il poema furono due famosi attori francesi che si trovavano in tournée in Egitto, Henri Rollan e Véra Sergine, quest’ultima, va segnalato, madre di Claude Renoir che sarà direttore della fotografia per il film vampirico di Roger Vadim Il sangue e la rosa (1960).

Una scena da L’Angoisse (“Le_Monde_illustré”, 14 marzo 1908)

Cilia e gli Spiriti

Più di vent’anni dopo la morte, Cilia de Vylars torna a manifestarsi, come uno spettro, in un articolo scritto da quel Pierre Mille che aveva firmato con lei L’Angoisse. Giornalista, saggista e romanziere, Mille era stato anche incaricato governativo nel Madagascar. La sua penna salace si dedica nel 1934 a un articolo sarcastico, dove enuncia tutto il suo scetticismo verso i fenomeni soprannaturali e ricostruisce con accenti cinici e distaccati la sua collaborazione con Cilia de Vylars (Des rapports du Spiritisme avec le théâtre, “Le Temps”, 1 aprile 1934).

Mille torna al lontano 1907 quando, mentre è indaffarato nel suo studio, gli viene annunciato che alla porta c’è una dama intenzionata a incontrarlo. Nel biglietto da visita c’è il nome sconosciuto “Mme C. de Vylars”.

“Era una donna molto piccola e magra, con un grande naso”, scrive Mille (ma sappiamo che altri articolisti dell’epoca la definivano “bellissima” e “affascinante”). La donna avrebbe spiegato con queste parole il motivo della sua visita: “Monsieur, sono malata, molto malata. Condannata a morte. Mi sostengono solo con del siero di sangue di capra. Sto per morire, ma non mi importa, perché sono spiritista. E gli Spiriti mi hanno detto: ‘Prima di morire, avrai un giusto motivo di gioia e di fierezza perché scriverai un testo teatrale in collaborazione con Pierre Mille e quella pièce sarà portata in scena!’”.

Mille nel suo articolo racconta di averla creduta folle: “Sono sempre molto cortese con i folli, non li contrario mai, perché ne ho paura”. Così, per timore delle sue reazioni, accettò la proposta anche se, pur già affermato scrittore, non aveva mai avuto nessun desiderio di cimentarsi con il teatro. Cilia disse che gli Spiriti le avevano indicato anche il soggetto della pièce, un breve racconto dello stesso Mille, La peur.

Tre settimane dopo Cilia si presentò con un manoscritto, due atti intitolati L’Angoisse. Mille si limitò a qualche aggiustamento e quando il testo parve definitivo, Cilia disse: “L’ho letto agli Spiriti. Ne sono contenti, molto contenti. Sapete, amano che si parli di loro. E mi hanno detto che il signor Choisy, direttore del Grand-Guignol, non ha niente in questo momento per la sua stagione e quindi prenderà certamente questo testo, se andate a portarglielo voi stesso”.

Lo scrittore esegue, ma Choisy lo accoglie con freddezza. Mille credeva che il progetto fosse fallito, però quindici giorni dopo viene invitato alle prove dello spettacolo, in procinto di andare in scena. Mille non rimase favorevolmente impressionato e apprese poi con grande stupore che lo spettacolo era stato un grande successo e che nel pubblico si erano verificati vari malori per il terrore. I due autori dell’opera ricevettero una cospicua somma per il testo teatrale, ma tra loro non ci furono più contatti. Mille apprese solo dai giornali, tre anni dopo, della morte di Cilia.

Nel 1915 un’altra sorpresa: Mille riceve la somma del tutto imprevista di svariate migliaia di franchi per i diritti di L’Angoisse, grazie alla traduzione in inglese destinata alla versione da rappresentare in Gran Bretagna e in America. Sapeva di dover dividere gli introiti con gli eredi della sua coautrice, ma non aveva nessun recapito o contatto e ignorava che fosse sposata (“nessuno sapeva niente di lei”, sottolinea).

Due anni dopo, nel 1917, ecco un’altra visita inattesa nella sua abitazione. È un uomo che vuole conoscere lo scrittore perché sa che aveva collaborato con la sua defunta moglie. Si tratta di Gaston Berthey, di passaggio a Parigi dopo un viaggio dalla sua residenza egiziana.

Per quanto vedovo ormai da sei anni, Gaston parla con affetto della moglie, definendola una donna geniale e una sposa incomparabile. “Ma non importa”, aggiunge quasi con le stesse parole di Cilia nella sua prima visita a Mille, “sono spiritista e continuo a parlare con lei. Anche lo Spirito è rimasto in comunicazione quotidiana con lei, il cui genio si è ulteriormente accresciuto da quando si è disincarnata”.

Il racconto di Mille continua, con un distacco ironico quasi irritante. “Per caso gli Spiriti, e quello di Madame in particolare, vi hanno fatto sapere che io vi devo del denaro?”, chiede lo scrittore al vedovo. Alla risposta negativa di Gaston, Mille gli firma un assegno per saldare la parte di diritti per L’Angoisse che spettavano alla moglie.

La storia raccontata da Mille può essere certamente fantasiosa, se non inventata, ma contiene diversi elementi che hanno riscontri e comunque fornisce un ritratto unico di Cilia de Vylars. Scrittrice, poetessa, autrice teatrale e spiritista, la storia del vampiro moderno deve qualcosa anche a lei, caduta nell’oblio.

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 3

Porter Emerson Browne: la Vampira a teatro

Il quadro di Philip Burne-Jones The Vampire e la poesia omonima di Rudyard Kipling dovevano rinfocolare la loro popolarità nel 1909, grazie a uno spettacolo teatrale e a un romanzo, entrambi firmati dall’americano Porter Emerson Browne (ma come vedremo in articoli successivi, grazie anche a dei balletti e al cinema). Con l’arrivo a teatro, la figura della Vampira si concretizza per la prima volta davanti agli occhi del pubblico, accanto alla visione del decadimento fisico e morale delle sue vittime.

Nel 1907 l’attore Robert Hilliard, all’epoca idolo del teatro popolare, alto, soprannominato “Handsome Rob” (Rob il bello) e noto per la voce baritonale, propone a Porter Emerson Browne, giornalista ventottenne e aspirante scrittore, di creare un testo teatrale ispirato al quadro di Burne-Jones e alla poesia di Kipling. Nasce così A Fool There Was, con un titolo che riprende alla lettera l’incipit della poesia The Vampire.

Agente di borsa prima di diventare attore, Hilliard si impegna finanziariamente nel progetto e si accorda con il produttore Frederic Thompson, esperto di spettacoli a sensazione, creatore dei primi parchi dei divertimenti. A Fool There Was diventa così un evento destinato a grande successo di pubblico. Il 18 e 19 marzo 1909 va in scena all’Harmanus Bleecker Hall di Albany, poi seguono altre tappe nel New England fino all’esordio newyorchese, al Liberty Theatre, il 24 marzo. Le repliche a Broadway continueranno ininterrottamente fino a giugno, con un centinaio di rappresentazioni.

Foto da un opuscolo promozionale per A Fool There Was

Il testo teatrale in tre atti di due scene ciascuno non risulta conservato, ma è possibile ricostruirne i passaggi fondamentali grazie alle recensioni di allora. I nomi degli interpreti, qui di seguito, sono quelli delle prime rappresentazioni del 1909, poi in gran parte sostituiti da altri attori e attrici negli allestimenti successivi.

Primo atto, prima scena. John Schuyler (Robert Hilliard), un americano benestante in carriera diplomatica e con una famiglia felice, comunica alla moglie (Nannette Comstock) e alla figlioletta (Emily Wurster) che sta per partire: resterà lontano un mese per un’importante missione su incarico governativo.

Seconda scena. Sulla nave che deve portare Schuyler in missione. A bordo sale una donna (Katherine Kaelred), la Vampira, bella ed elegante, con un bouquet di rose. “Una donna bellissima, alta, flessuosa e languida, con le labbra rosse e i fianchi snelli che si muove ondeggiando come un serpente” (“Newark Evening Star”, 21 gennaio 1911). La donna è avvicinata da un giovane emaciato e nervoso, Parmalee (Howard Hull), che litiga con lei e la minaccia con una pistola. La vampira sorride e gli dice dolcemente: “Baciami, stupido mio”. Il giovane si punta la pistola alla testa e si spara. Appena il corpo è portato via, la Vampira si siede soddisfatta su una sdraio nello stesso punto dove il giovane è morto. Entra in scena Schuyler, accompagnato dai suoi familiari e dall’amico Tom (William Courtleigh) che vogliono salutarlo prima della partenza. In quel momento Schuyler nota la Vampira e ne è subito talmente attratto che non dà alcun peso alla notizia del suicidio di un giovane a bordo, limitandosi a sorridere recitando a Tom dei versi dalla poesia di Kipling. Quando i familiari lasciano la nave, la Vampira avvicina Schuyler e lo seduce.

Secondo atto, prima scena. Nel roseto della loro casa la signora Schuyler soffre per l’assenza del coniuge, ma sua sorella e Tom hanno appreso da una lettera che l’uomo ha rinunciato al suo incarico politico ed è in viaggio con la Vampira. Seconda scena, nella biblioteca della casa dove ora Schuyler vive da solo, lasciato dalla moglie, un mese dopo. Beve, è angosciato. L’amico Tom (che ama segretamente la moglie di Schuyler) lo scongiura di lasciare l’amante. Schuyler fa un tentativo di separarsi dalla Vampira, ma lei lo persuade del contrario ripetendo anche a lui “Baciami, stupido mio”.

Terzo atto. Un anno dopo, sempre nella biblioteca. Disordine, specchi rotti, bottiglie e bicchieri dappertutto. Tom fa un ultimo tentativo per riportare Schuyler alla ragione, ma lo trova in stato confusionale convinto di vedere le precedenti vittime della Vampira e di parlare con loro. Tom cerca invano di scuoterlo, arrivando a picchiarlo. Gli getta un bicchiere d’acqua in faccia e Schuyler si riprende, piange e sotto gli occhi di moglie e figlia promette di rompere con l’amante. Schuyler si sta apprestando a tornare dalla sua famiglia, quando la Vampira gli comunica che è stanca di lui e vuole lasciarlo. “Prima che ci separiamo, baciami, stupido mio!”, gli dice. Furioso, Schuyler tenta di strangolarla, ma è colto da malore e muore. Lei si ricompone e ridendo lascia cadere petali di rosa sul corpo di Schuyler. Sipario.

La coreografia dell’ultima scena era studiata per evocare il quadro di Burne-Jones, con la vampira vittoriosa che incombe sul cadavere dell’uomo. Niente lieto fine, la donna fatale e trasgressiva trionfa.

Pubblicità per lo spettacolo A Fool There Was

Browne dà un’identità al “fool” della poesia di Kipling. Ne fa un uomo d’affari e diplomatico, al servizio addirittura del Presidente americano. Il tema del maschio vulnerabile ai richiami della carne, tanto da farsi dissanguare economicamente e distruggere fisicamente da una Vampira, aveva ancora grande presa sul pubblico e al successo di A Fool There Was contribuì la sontuosa messa in scena. Il produttore Thompson aveva investito su scenografie che lasciavano incantato il pubblico, come la ricostruzione della nave, con una folla di comparse, o il giardino di casa Schuyler. Per le rappresentazioni serali faceva arrivare in teatro centinaia di rose rosse e agli spettatori era consegnata insieme al programma una copia della poesia di Kipling, con la riproduzione del quadro di Burne-Jones. Le rose rosse erano un tratto distintivo della Vampira: le ha con sé sulla nave, ne lascia cadere i petali sulla sua vittima, come gocce di sangue. La Vampira spiega nel corso della rappresentazione che ci sono due tipi di amore: uno come la rosa bianca, pallida e fredda, l’altro come la rosa rossa.

Gli interpreti si rivelavano ben scelti. A parte Hilliard, già famoso e ammirato, fa scalpore l’attrice inglese Katharine Kaelred nel ruolo della Vampira (che non è mai indicata con un nome proprio). Anche se i giornali prestarono maggiore attenzione al protagonista principale interpretato da Hilliard, non mancarono le lodi per la Kaelred, prima incarnazione di quella Vampira che prenderà poi il volto di numerose attrici sullo schermo cinematografico. Nelle recite newyorchesi si fa notare anche la breve apparizione di Howard Hull nella parte del giovane che si uccide a causa della Vampira. Per la cronaca, l’attore era fratello di Henry Hull, futuro licantropo in Werewolf of London (Il segreto del Tibet, 1935).

Il quadro di Burne-Jones e la poesia di Kipling utilizzati per pubblicizzare lo spettacolo teatrale

A Fool There Was ottenne gli apprezzamenti del “New York Times” e di gran parte della critica, con importanti eccezioni come “The Evening Post” (25 marzo 1909) che lo stronca senza appello, definendolo “fallimentare” e sciorinando una serie di definizioni negative: “sensazionalista”, “stravagante”, “zuccheroso”, “imitativo”, fino a un attacco diretto all’autore, al quale mancherebbe “l’ispirazione sia del pittore [Burne-Jones] che del poeta [Kipling]”.

Il pubblico, però, premiava A Fool There Was e dopo le rappresentazioni a New York iniziò un tour per gli Stati Uniti. Il cast cambia completamente, solo Hilliard mantiene il suo ruolo nello spettacolo. In particolare, la parte della Vampira va a Bernice Golden Henderson (morirà nel 1913, a trent’anni) e poi a Virginia Pearson, giovane attrice che in breve diventerà una diva del cinema muto girando una cinquantina di film. Dudley Glass su “The Atlanta Georgian and News” (24 novembre 1910) la definisce “perfetta” e loda “la stretta imitazione del dipinto di Burne-Jones con le labbra rosse e il viso mortalmente bianco, le forme flessuose da serpente e le sue rose rosse”.

Curiosamente, la Pearson apparirà nel primo film interpretato da Theda Bara, The Stain (1914). Proprio il regista di quel film, Frank Powell, prese in considerazione la Pearson per interpretare la Vampira nel film della Fox A Fool There Was, ruolo che poi andò a Theda Bara stessa. William Fox la scelse comunque come uno dei volti da affiancare a Theda Bara nelle tante pellicole che riproponevano storie incentrate sulle donne fatali. Nel 1925 la Pearson recita con Lon Chaney in The Phantom of the Opera nella parte di Carlotta, la cantante lirica che il Fantasma costringe ad abbandonare le scene per lasciare il posto alla sua amata Christine. Quando il film viene aggiornato con nuove riprese per una versione sonora, nel 1929, Virginia Pearson apparirà in alcune scene interpretando anche la madre di Carlotta. Nel corso degli anni Venti, però, la sua notorietà è in crisi, con il rapido declino delle vamp cinematografiche, le sue finanze tracollano e si riduce a vivere in una piccola stanza di hotel con il marito, l’attore Sheldon Lewis.

Due interpreti della Vampira a teatro, Katharine Kaelred e Virginia Pearson

Il successo di A Fool There Was prosegue per anni. Nel 1911 lo spettacolo è ancora tanto famoso da indurre una casa discografica a incidere un disco dove Hilliard legge The Vampire e declama altre battute dal testo teatrale di Browne. “The Washington Herald” salutava A Fool There Was come “opera audace e realistica che ha scosso i newyorchesi dal loro quaresimale letargo come una improvvisa esplosione di dinamite teatrale” (12 febbraio 1911).

Nello stesso anno un giornale chiese a Robert Hilliard se donne come la Vampira del suo spettacolo, oltre che delle opere di Burne-Jones e Kipling, esistessero davvero nel mondo reale. “Ce ne sono molte”, rispose l’attore. “Donne strane che portano distruzione a qualsiasi cosa tocchino, donne che non sono bellissime (molte di loro sono insignificanti), ma che possiedono una forza di attrazione che non manca mai di incantare ovunque si diriga. Questa forza è qualcosa di impossibile da analizzare, ma può portare un uomo, per tutta la vita indifferente o insensibile di fronte alle donne più belle, a un brivido improvviso quando gli presentano determinate donne, un brivido che lo cattura e lo scuote come un terrier fa con un topo, senza lasciarlo mai fino a che la vita e i sensi sono stravolti, lasciandolo inerme, troppo tardi consapevole della propria stupidità”.

Per rafforzare le sue tesi, Hilliard citava il caso di un illustre magistrato impegnato in politica, portato alla rovina da una vampira e morto in miseria, aggiungendo: “Non credo che le donne vampiro siano delle mercenarie: non sono mai sazie d’amore. Devono possedere completamente un uomo. Poi all’improvviso, e probabilmente senza sapere perché, se ne stancano. Non amano più quell’uomo, ma la loro natura richiede amore e così ne cercano un altro… e la storia si ripete continuamente. In altre parole, la donna nota comunemente come vampira è semplicemente una versione al femminile dell’uomo di mondo” (Bob” Hilliard Tells of Vampires in Real Life, “Buffalo Evening News”, 13 marzo 1911).

Nel 1912 Hilliard è sostituito nelle recite di A Fool There Was da William L. Gibson, mentre il ruolo della Vampira va a Elsie Jane Wilson, destinata a diventare una prolifica regista e sceneggiatrice. Per un singolare sovrapporsi di rimandi tra le attrici che interpretarono la Vampira, la neozelandese Wilson era moglie del suo conterraneo Rupert Julian, in seguito regista del già citato The Phantom of the Opera. Nel 1916 Julian aveva dato alla moglie una parte da “vampira”, una donna libertina e assassina, nel suo film The Evil Women Do.

Due copertine per la canzone A Fool There Was (1913). A sinistra, negli ovali l’attore Robert Hilliard nel primo atto dello spettacolo teatrale e nel terzo, quando il personaggio è rovinato dalla Vampira

Un altro indice della duratura popolarità di A Fool There Was si ha nel 1913, quando esce una canzone dallo stesso titolo, con testo di Alexander Dubin e musica di Gustav Benkhart “dalla poesia The Vampire di Rudyard Kipling”. Le prime parole sono significative: “Una volta un poeta scrisse dei versi ed emozionò il mondo con una verità”. L’omaggio a Kipling prosegue nella descrizione del giovane che a causa di una donna rimane con “il cuore freddo e morto”. Sulla copertina dello spartito, pubblicato contemporaneamente a Filadelfia, Londra e Sydney, non mancava il riferimento al “grande successo di Robert Hilliard”. Il 78 giri della canzone aveva la voce del tenore De Los Becker. La canzone si può ascoltare a questo link: A Fool There Was.

Come spesso accade con i vampiri (la diatriba Polidori-Byron, il sequestro di Nosferatu, ecc.) i diritti d’autore furono oggetto di contese. Nel novembre 1911 Browne accusa di plagio William Schilling che aveva scritto una commedia intitolata The Vampire Fool, sostenendo che aveva “rubato” intere parti del secondo e terzo atto di A Fool There Was. Da parte sua Hilliard nel marzo 1915 porta in tribunale una ditta cinematografica che voleva produrre un film dal titolo A Fool There Was e a luglio dello stesso anno fa causa alla Fox per aver distribuito il film con Theda Bara prima della data stabilita dal loro accordo.

In quel 1915, tuttavia, la parabola ascendente dello spettacolo teatrale di Browne e Hilliard si stava concludendo. Il suo successo si era esteso ai balletti da vaudeville, come vedremo nel prossimo articolo, ma soprattutto il cinema prendeva il posto del teatro, con una serie di pellicole che culminano nel film ovviamente intitolato A Fool There Was con Theda Bara.

Cartolina postale del 1910

Il romanzo di Porter Emerson Browne

Visto il grande successo a Broadway di A Fool There Was, Browne aveva subito trasposto in romanzo il suo testo teatrale, con lo stesso titolo. La prima edizione è pubblicata nel 1909 da The H.K. Fly Company di New York, con illustrazioni a colori di Edmund Magrath e a inchiostro di W.W. Fawcett, presto ristampato da Grosset & Dunlap. Il libro porta in copertina una riproduzione del quadro di Burne-Jones ed è dedicato a Robert Hilliard, vero promotore della saga sulla vampira. Browne rivendica anche l’ispirazione a The Vampire di Kipling, ponendo in epigrafe la prima strofa della poesia che viene poi citata espressamente nel corso del romanzo. Come nel testo teatrale, l’amico Tom, sulla nave dove si è appena ucciso il giovane Parmalee, chiede a Schuyler se ha letto la poesia di Kipling e lui risponde: “Beh, sì, ovviamente. Quasi tutti l’anno letta”. Poi ne recita i primi versi.

Il romanzo ripropone con uno stile verboso le stesse situazioni melodrammatiche dello spettacolo a teatro, ma aggiungendo molti dettagli sulla biografia della Vampira e sviluppando il riferimento moralistico a opinioni molto presenti nella cultura dominante dell’epoca. Si delinea ulteriormente la connotazione “di classe” dei personaggi. John Schuyler, padre modello, erede di una stirpe virtuosa anglo-olandese, cresciuto nella Fifth Avenue di New York, è esponente della “classe dominante”, ricco, di successo e ovviamente bianco. La Vampira, invece, è di povera estrazione, provenendo da un villaggio della Bretagna, tra contadini quasi animaleschi. Lei è figlia illegittima di un aristocratico francese e di una povera donna bretone che muore dopo averla data alla luce. Il padre, pur abbandonandola cinicamente, decide di scegliere il nome per la figlia: Rien (niente). L’uomo finirà male: anni dopo torna alla misera casa della figlia e lei lo fissa negli occhi, facendolo arretrare su un precipizio fino a che cade nel vuoto.

La copertina dell’edizione Grosset & Dunlap e una delle immagini all’interno

Può sembrare assurdo ai nostri occhi attuali, ma il romanzo indicava delle ragioni genetiche per il vampirismo. La povertà era considerata un segno di inferiorità e i poveri potevano essere indicati come parassiti, quindi vampiri. La Vampira, in quanto figlia del rapporto tra una povera bretone e un nobile francese, aveva genitori europei ma “latini”, diversi dal filone genetico anglo-olandese rivendicato dagli americani dell’epoca come loro ascendenza. Era dunque frutto dell’unione tra poveri, tali per la loro inferiorità, e aristocratici, decaduti a causa del vizio: il contrario dei borghesi benestanti che si ritenevano geneticamente privilegiati e mossi da rettitudine morale per guidare gli Stati Uniti. Cedendo alle attrazioni sessuali della Vampira, Schuyler indebolisce anche il suo rigore morale. Bram Dijkstra (Evil Sisters, Alfred A. Knopf, New York 1996) segnala che il disordine e la sporcizia in cui viveva la madre della vampira è analogo a quello in cui finisce a vivere Schuyler nella sua abitazione dopo essere caduto nelle grinfie della donna fatale.

La Vampira è bianca, ma viene da un mondo contadino sordido, dai bassifondi. Socialmente meticcia, incrocio tra un nobile e una contadina, si eleva a donna borghese, colta e bella, per esercitare il suo potere ipnotico sugli uomini. Come scrive ancora Dijkstra, per Browne la Vampira fa parte della schiera di donne “strisciate fuori dalla peggior feccia della peggior specie di umanità per infettare il mondo ariano con la loro lussuria”. Browne rendeva universale quella minaccia, indicandola in apertura del romanzo come valida anche nei millenni passati

In A Fool There Was non ci sono mai accenni a possibili caratteristiche soprannaturali della Vampira. Però le condizioni fisiche di Schuyler sono molto simili a quelle delle vittime di un vampiro soprannaturale: prosciugato, ridotto a una larva, Schuyler dice che quella donna “gli succhia il cervello”. Si ciba della sua salute e più lui si indebolisce (“Il sangue mi si è trasformato in acqua e le mie ossa in gesso! Il mio cervello si è avvizzito!”), più lei diventa forte e florida.

A molti decenni dalla pubblicazione del libro di Browne, almeno due romanzi hanno utilizzato lo stesso titolo. Nel 1958 esce il “mystery” A Fool There Was (Crest Books, New York) di John Manson che aveva avuto una precedente edizione l’anno prima con il titolo It Is a Dream. La nuova versione puntava molto sul legame con la poesia di Kipling, riprodotta integralmente all’interno e richiamata in copertina. Narra la vita di un uomo stravolta dall’amore incondizionato per una ragazza, i cui “profondi occhi bruni lo avevano ipnotizzato” sin dal primo incontro. Nel 2009, poi, i versi della poesia di Kipling aiutano la poliziotta Sukey Reynolds, creata dalla scrittrice Betty Rowlands, a risolvere un caso in A Fool There Was (Severn House, London).

Copertina del romanzo del 1958 con i versi di Kipling

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 2

La vampira di Kipling

Per un trentennio il mondo anglosassone, e non solo, fu attraversato da quella che si definì “vampire craze”, una vera e propria “mania per i vampiri” (o meglio per le vampire), avviata nel 1897 con il quadro e la poesia The Vampire per poi passare il testimone, nel 1927, alla passione per Dracula grazie a Bela Lugosi.

Come abbiamo visto nell’articolo precedente, l’inizio della saga di The Vampire (imperniata su una donna che porta sventura e distruzione ai maschi, preferibilmente benestanti e sposati) è avvenuto con il quadro di Philip Burne-Jones. Ma quella vampira vittoriana dipinta forse non avrebbe avuto successo per decenni se non fosse stata accompagnata dalla poesia scritta per l’occasione dall’autore del Libro della giungla, Rudyard Kipling. È uno dei primi esempi di vampiro multimediale che attraversa differenti mezzi di comunicazione e di espressione: un quadro, una poesia, poi un testo teatrale, un romanzo, diversi film, balletti.

Le loro madri erano sorelle, quindi Kipling e Burne-Jones si erano frequentati fin da bambini e per un periodo, in età adulta, furono legati da stretta amicizia. Ci si è chiesti se per The Vampire Burne-Jones si sia ispirato alla poesia di Kipling o viceversa. Stando alle sue dichiarazioni, in occasione dell’intervista che rilasciò a “The Argus” nel 1898, il pittore aveva avuto in mente il soggetto di The Vampire per molti anni e pare ormai certo che Kipling scrisse la poesia solo dopo aver visto il quadro del cugino, per aiutarlo a lanciare la sua opera.

Due cartoline postali con la riproduzione del quadro di Burne Jones e la poesia di Kipling

La prima apparizione in forma stampata della poesia è perciò affidata alla pagina 8 nel catalogo per la mostra della New Gallery, dove il quadro era esposto come opera n. 15. Il padre di Philip, il pittore Edward Burne-Jones, sapeva che Kipling, su richiesta del cugino, aveva scritto una poesia per quel catalogo. Andrew Lycett (in Rudyard Kipling, Weidenfeld & Nicolson, London 1999) cita un ricordo dell’assistente personale dell’artista, Thomas Rooke, che il 19 aprile 1897 discusse del quadro e della poesia The Vampire con il grande pittore preraffaellita. Secondo Edward Burne-Jones, “la poesia di Ruddy sul quadro di Phil” era talmente lunga che il catalogo sarebbe stato occupato quasi tutto da quel testo. In realtà la poesia era piuttosto breve, ma di certo focalizzò l’attenzione di pubblico e critica su quell’unico quadro, a detrimento delle altre opere esposte compresi dipinti di John Singer Sargent e dello stesso Edward Burne-Jones.

Questo il testo di The Vampire, in una traduzione rielaborata da Vampirismus. Gotico e fantastico nel mito del vampiro (Alfamedia, Roma 1986):

C’era un folle e diceva le preghiere
(proprio come te e me!)
per uno straccio, un osso e una matassa di capelli
(la chiamavamo la donna che di nulla si cura)
ma il folle la chiamava la sua bella signora
(proprio come te e me!)

Oh, gli anni sprecati e le lacrime sprecate
e il lavoro della nostra mente e della nostra mano
appartengono alla donna che non sapeva
(e ora sappiamo che non avrebbe mai potuto sapere )
e che non capiva.

C’era un folle e spese i suoi beni
(proprio come te e me!)
l’onore e l’onestà e un vero ardore
(e non era quello che la signora voleva)
ma un folle deve seguire la sua inclinazione naturale
(proprio come te e me!)

Oh, le energie che abbiamo perso e i guadagni che abbiamo perso
e le grandi cose che progettavamo
appartengono alla donna che non sapeva perché
(e ora sappiamo che non avrebbe mai saputo perché)
e non capiva!

Il folle fu spogliato sino all’osso
(proprio come te e me!)
e lei poteva accorgersene quando lo gettò via
(ma non risulta che la signora abbia provato ad accorgersene)
al punto che un poco di lui visse, ma il più di lui morì
(proprio come te e me!)

E non è la vergogna e non è la colpa
che morde come un tizzone incandescente.
Ma venire a sapere che lei mai seppe perché
(vedendo, alla fine, che lei mai avrebbe potuto sapere perché)
e mai avrebbe capito.

Un’edizione americana di The Vampire del 1898

La coincidenza temporale tra la poesia di Kipling e la pubblicazione del romanzo Dracula di Bram Stoker (il 17 aprile 1897 la prima, il 26 maggio il secondo) avviò un interesse inusitato per i vampiri alla fine del secolo e per i decenni successivi. Ma in quel periodo a influenzare il senso comune e persino il linguaggio non fu Dracula, ma The Vampire. Un decennio dopo, la parola “vampire” era associata correntemente solo al vampirismo parassitario indicato da Kipling e Burne-Jones e agli esotici pipistrelli mostrati nelle fiere che si diceva succhiassero il sangue, tanto che “The New York Times” (5 marzo 1899) scriveva: “La gente oggi usa con noncuranza la parola ‘vampiro’ come termine più forte e un po’ più spregevole di ‘parassita’… Probabilmente poche persone sanno cos’è un vero vampiro”. E il quotidiano si sentiva in dovere di spiegare che i vampiri risalgono alle credenze popolari sui morti che tornano dalla tomba e si cibano del sangue dei viventi (sostenendo del tutto fantasiosamente che “questa superstizione era prevalente nel sud Italia mezzo secolo fa”). Dracula quindi non aveva lasciato il segno sui lettori di quegli anni con il suo vampiro soprannaturale, ed erano momentaneamente dimenticati The Vampyre di John Polidori (1819) e Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu (1872): a conclusione del secolo era The Vampire a imporre la concezione realistica del vampirismo, un vampirismo “psicologico”, “spirituale” e soprattutto femminile, solo metaforicamente associato alle antiche credenze sui nonmorti.

È significativo che nel 1914 Ernst Havekost, in una sua pionieristica dissertazione di dottorato sulla leggenda dei vampiri in Inghilterra (Die Vampirsage in England, Facoltà di filosofia dell’Università di Halle-Wittenberg), citi Dracula solo come titolo, in un elenco di “opere minori” sul vampirismo, a testimonianza della inferiore notorietà del libro di Stoker, nei primi due decenni del Novecento, rispetto alla poesia di Kipling, riportata integralmente nella dissertazione.

Resta comunque importante e singolare che le due opere, Dracula e The Vampire, avessero fatto la loro comparsa a poche settimana di distanza l’una dall’altra. Entrambi accesi sostenitori dell’imperialismo britannico, Kipling e Stoker si conoscevano bene e si frequentavano almeno dal 1889, dato che il Lyceum Theatre di Irving era un crocevia per incontri tra intellettuali.

Il 3 febbraio 1892, Rudyard Kipling prende un treno con la moglie Caroline per recarsi a Liverpool e iniziare un viaggio di nozze negli Stati Uniti. Alla stazione, scrittori ed editori li salutano. C’era Henry James, ma c’era anche Bram Stoker. Secondo Jimmie E. Cain l’episodio dimostrerebbe “gli stretti rapporti tra Stoker e Kipling” (Bram Stoker, Geopolitics, and War in Bram Stoker and the Late Victorian World, a cura di Matthew Gibson e Sabine Lenore Müller, Clemson University Press, Clemson 2018).

Comunque, nella primavera del 1897 mentre Stoker era ancora intento a correggere le bozze di Dracula, Kipling aveva già scritto The Vampire. Charles Carrington (Rudyard Kipling: His Life and Work, Macmillan, London 1978) sostiene che Kipling non aveva preso sul serio quella poesia, non vi aveva messo nulla di se stesso e la considerava “un pezzo occasionale, un favore per il cugino Phil: niente di più”. Ciò sarebbe confermato dal fatto che Kipling non tutelò la proprietà del suo testo consentendo, come vedremo, il diffondersi incontrollato della poesia The Vampire su giornali e pubblicazioni “pirata”.

L’edizione Mansfield (1898) e Street & Smith (1899), entrambe di New York

Appena la poesia di Kipling compare sul catalogo per la mostra alla New Gallery è immediatamente pubblicata integralmente dai giornali. Parte il “Daily Mail”, contemporaneamente all’apertura della mostra, seguito da svariati quotidiani e riviste. Anche la stampa americana veicola la poesia (“New York Tribune” il 9 maggio 1897, “Buffalo Evening News” il 10 maggio, poi molti altri).

The Vampire visse poi un grande ritorno di popolarità tra il 1902 e il 1903, in coincidenza del tour americano di Philip Burne-Jones e della relativa esposizione del quadro The Vampire nelle gallerie degli Stati Uniti. Nel soggiorno americano del pittore i giornali parlarono spesso di lui e immancabilmente della poesia di Kipling, ristampata più volte. In quel contesto la poesia subì anche una piccola modifica: sul “Record-Herald” cambiarono nella prima strofa il termine “hank” (matassa), che sembrava poco appropriato riferito ai capelli, in “hunk”, dal significato simile, ma più spesso usato per definire un ammasso di capelli.

Tre citazioni dalla poesia di Kipling diventarono luogo comune, innumerevoli volte riproposte. Si tratta dell’incipit “A fool there was” (C’era un folle), della descrizione della donna-vampiro come “a rag and a bone and a hank of hair” (uno straccio, un osso e una matassa di capelli) e “the woman who did not care” (la donna che di nulla si curava), di “But the fool he called her his lady fair” (Ma il folle la chiamava la sua bella signora), oltre al ritornello “Even as you and I” (Proprio come te e me).

La poesia di Kipling affascinò i lettori perché vedevano rappresentata una paura e un’inquietudine molto diffusa alla fine del secolo: la donna non più passiva e sottomessa, ma capace di minacciare salute e beni dell’uomo.

Nella letteratura anglosassone la donna fatale aveva una lunga tradizione, che risale almeno alla belle dame sans merci di John Keats, in bilico tra soprannaturale e naturale. Nella versione di Kipling, ancor più che nel quadro di Burne-Jones (dove la ferita sul petto dell’uomo potrebbe indicare il morso di una creatura fantastica succhiasangue), la “vampira” è ricondotta al realismo, a una vera donna senza nulla di soprannaturale, anzi diffusa e nota all’epoca quanto meno nelle fantasie maschili. “The Marion Enterprise” (10 luglio 1897) citava un articolo del “Louisville Courier-Journal” per spiegare il successo della poesia di Kipling: “Non si tratta di meriti letterari eccezionali. Semplicemente si tratta del coraggio di Kipling nel dare espressione a ciò che gli altri pensano, ma non osano dire. Quel tipo di donna è comune, sia se si voglia credere che esista davvero o che esista soltanto nell’immaginazione degli uomini”.

In The Vampire gli uomini sono ingannati dall’apparenza (a loro pareva una bellissima dama, ma era solo “uno straccio, un osso e una matassa di capelli”), si rovinano per lei (spendendo “energie” e “guadagni”), fin quasi a morirne, per poi scoprire che era una donna sventata e incapace di capire qualsiasi cosa. L’uomo della poesia prova quindi vergogna di se stesso e soffre della propria stupidità. Per quanto chiaramente dettata da una mentalità che oggi si definirebbe semplicisticamente “patriarcale”, la poesia di Kipling non è certo lusinghiera verso il maschio vittoriano, ridotto a uno stupido che cade nella trappola di una donna tanto fatale quanto superficiale (due interessanti analisi su questi aspetti sono in Anne Morey, Claudia Nelson, Phallus and Void in Kipling’s “The Vampire” and Its Progeny, “Frame”, novembre 2011; Janet Staiger, Bad Women: Regulating Sexuality in Early American Cinema, University of Minnesota Press, 1995).

Quando Kipling scrisse The Vampire, il suo matrimonio con la moglie americana Caroline era in crisi e il testo evidenzia un risentimento personale dell’autore verso il sesso femminile (lo scrittore, tra l’altro, aveva una predilezione per le donne dal carattere mascolino). Secondo alcuni, la misoginia di Kipling era dovuta all’infelice infatuazione adolescenziale per Florence Garrard, che lo respinse (Angus Wilson, The Strange Ride of Rudyard Kipling: His Life and Works, Secker & Warburg, London 1977), secondo altri alla presunta relazione segreta con l’attrice americana di vaudeville Lulu Glazer, nelle cui carte è stata trovata la poesia The Vampire con testi scritti a mano da Kipling stesso (J. Lawrence Mitchell, Rudyard Kipling, The Vampire, and the Actress, “English Literature in Transition 1880–1920”, n. 3, 2012).

Le opinioni di Kipling sulle donne, come anticipate da The Vampire, vennero poi rielaborate e confermate dalla sua poesia The Female of the Species (1911), rimasta celebre per le parole ripetute più volte “The female of the species is more deadly than the male” (La femmina di ogni specie è più letale del maschio).

Disegno ispirato al quadro di Burne-Jones dall’edizione Mansfield di The Vampire (1898)

The Vampire tornò sulle prime pagine dei giornali il 28 novembre 1911, in occasione di un infuocato processo per uxoricidio a Denver. Sul banco degli imputati c’era Gertrude Gibson Patterson, donna dalla “vita licenziosa”. Aveva sposato il giovane Charles Patterson, ma presto lui la sorprese in viaggio con l’amante, il ricco e anziano imprenditore Emil W. Strouss. Ne seguirono molte liti tra i coniugi, fino a che Charles fu ucciso da due colpi di pistola alla schiena. Gertrude prima disse che il marito si era suicidato, poi ammise il delitto affermando di essere stata picchiata e maltrattata. Al processo l’avvocato dell’accusa, Horace Benson, descrisse Gertrude come una donna avida, spietata e recitò in aula la prima strofa di The Vampire, aggiungendo dopo il verso “ma il folle la chiamava la sua bella signora” un drammatico “E lei gli sparò nella schiena” (And she shot him in the back). Nonostante l’oratoria dell’avvocato e la citazione di Kipling, la donna fu assolta grazie alla dubbia testimonianza di un passante che dichiarò di aver visto Charles picchiare la moglie in strada.

La popolarità di The Vampire prosegue per molti anni, rinvigorita dalle trasposizioni teatrali e cinematografiche. Ancora nel 1916 Francis Scott Fitzgerald, nel testo per una delle canzoni del musical Safety First!, cita la poesia di Kipling. La canzone lamenta che le ragazze della vita reale non assomiglino alle vamp del cinema e Fitzgerald scrive: “Perché non ne incontro qualcuna che non sia dolce, ma / si comporti piuttosto come le signore di Kipling?”. E per il pubblico americano il quadro e la poesia The Vampire continuarono a essere evocativi per molti anni, come dimostrano tra i tanti esempi due lunghi articoli sui vampiri di “American Weekly” nel 1927 (Mystery of the Vampire’s Bite) e del “Detroit Evening Times” il 19 ottobre 1941 (New Reason Why People Still Believe There Are“Vampires”) entrambi illustrati da una riproduzione del quadro di Burne-Jones e con riferimento alla poesia di Kipling.

Due edizioni newyorchesi: Grosset & Company (1898) e Dodge Publishing Co (1900)

Le parodie

Il successo popolare di The Vampire fu tale che quasi subito si pubblicarono parodie, con gran divertimento dei giornali, dove la poesia era riscritta in chiave umoristica o polemica. Ovviamente le prime reazioni satiriche furono da parte di donne, giustamente irritate dal ritratto della vampira mangiauomini e rovinafamiglie. Ne uscirono diverse soprattutto in America, sia scritte da uomini che da donne, caratterizzate dall’imitazione dello stile e dei versi di The Vampire, aperte spesso dalla scritta “Con scuse a Mr. Kipling” (With apologies to Mr. Kipling).

Le parodie iniziarono quasi immediatamente. Già il 27 maggio 1897 sul “Buffalo Evening News” appare una parodia di The Vampire che ironizza sul Kipling scrittore, ripresa dal settimanale “New York Press”, e il 5 agosto lo stesso quotidiano pubblica un dialogo satirico dove una signora rivendica che le donne non sono vampire, ma per la maggior parte “angeli”. Pochi giorni dopo il “San Francisco Examiner” e “The Evening Journal” (18 agosto 1897) stampano una breve parodia anonima che imita lo stile di The Vampire.

Le più popolari erano parodie che rovesciavano il punto di vista, facendo della donna la vittima di uomini spietati e ottusi. È il caso di The Vampire (From a woman’s point of view. With apologies to Rudyard Kipling) di Mary C. Low, apparsa su “The New York Bookman” (27 marzo 1899) e poi dalla rivista “The Academy” che la ristampa accanto all’originale (1 aprile 1899). Tutta virata al femminile, la poesia si apre con un rovesciamento delle parole iniziali di Kipling, trasformate in “A woman there was”, ed è l’uomo che non si prende cura di nulla e non capisce.

Le parodie di The Vampire sono state innumerevoli ed è impossibile citarle tutte. Tre parodie sono riportate da Robert Thurston Hopkins in un suo libro (Rudyard Kipling: ALiterary Appreciation, Simpkin, Marshall, Hamilton, Kent & Co., London 1915). Hopkins segnalava la “vasta circolazione” della parodia scritta da Felicia Blake dove al posto della vampira c’è un uomo egoista e maschilista (i giornali la ristamparono ancora nel 1919), mentre T.W.H. Crosland nel 1899 sostituiva la vampira con “il pubblico che non compra poesie”. Hopkins citava infine i versi di The Vampire riscritti dal poeta James Douglas per polemizzare con Kipling intorno alla presunta “stupidità” dell’uomo di fronte alla donna-vampiro. Per inciso, Robert Thurston Hopkins si intendeva di vampiri: scrittore e “cacciatore di fantasmi”, è stato autore di The Vampire of Woolpit Grange (1938), racconto ispirato alla leggenda di una strega che ritorna dalla tomba.

Le parodie riprendono vigore con l’esposizione americana del quadro di Burne-Jones. Così, “The Brooklyn Daily Eagle” l’11 febbraio 1902 ne pubblica una di Harvey E. Williams, comica riscrittura di The Vampire dedicata al rapporto tra uomini e automobili, con l’aggiunta di un “coro” alle strofe originali. Su “The Sunday Telegraph” del 2 marzo 1902 c’era invece una parodia di The Vampire scritta da John Joseph Beekman, incentrata sul divorzio. Il giornale nei giorni successivi riceve una lettera firmata da un certo R. Blount che risponde alla poesia di Beekman con un’altra parodia, come se si fosse sentito tirato in causa per le sue personali vicende familiari (“The Morning Telegraph”, 7 marzo 1902). Non pago, “The Sunday Telegraph” due giorni dopo dedica un’intera pagina a una vignetta che ironizza sul quadro di Burne-Jones (definito “il dipinto che i versi di Kipling e il press agent di Mrs. Patrick Campbell hanno reso famoso”) e a un’ennesima parodia della poesia di Kipling, questa volta intitolata The Umpire (L’arbitro), accompagnata da un testo satirico.

Parodie e vignette da “The Coolgardie Pioneer” (1898) e “The Sunday Telegraph” (1902)

La moda delle parodie di The Vampire arrivò anche in Australia. Il 18 marzo 1898 “The Euroa Advertiser” pubblica la poesia originale di Kipling e di seguito “The Woman Version”, firmata da Isobel Henderson Floyd. Il 18 ottobre 1902 tocca a “The Western Mail” affidare una parodia a Ethel Howell che inizia la prima strofa con un “A girl there was”. Curiosa la parodia in chiave di satira politica su “The Coolgardie Pioneer” (3 settembre 1898), accompagnata da una vignetta che riproduce stilizzato il quadro di Burne-Jones, dove la donna ha sul vestito la scritta “Westralia” (l’Australia occidentale) e l’uomo esanime “The Toiler” (il lavoratore). Il testo altera la poesia di Kipling trasformandola in una critica a quella parte dell’Australia che, con promesse non mantenute, “vampirizza” il resto del paese. E in questo caso le scuse sono per il pittore e non per il poeta: “With apologies to Burne-Jones”.

Le parodie continueranno per un ventennio. Il 4 marzo 1914 “The Day Book” di Chicago pubblica A Cop There Was di H.M. Cochran, rielaborazione di The Vampire per criticare il malcostume dei poliziotti. La saga delle parodie culmina nel 1920 quando circola a Los Angeles un volantino, firmato Mrs. Stella Gilbert e intitolato The ‘He’ Vampire, dove la poesia di Kipling è riscritta in chiave esplicitamente e marcatamente femminista, invocando l’eguaglianza di diritti per le donne e con questa chiusa: “Alla fine gli uomini sono in fuga… / E noi abbiamo vinto! / (e loro non possono capire)”. È probabile che il volantino sia stato stampato in occasione della conquista del diritto di voto per le donne americane. Lo spirito polemico della parodia era segnalato anche dalla scritta sotto il titolo, che in questo caso sentenziava “Senza scuse a Kipling” (With no apologies to Kipling).

Il volantino femminista del 1920

La poesia di Kipling era tanto nota che i suoi versi potevano essere utilizzati anche come didascalia per vignette satiriche. È il caso di una vignetta apparsa su “Life” il 3 maggio 1917, vent’anni dopo la pubblicazione di The Vampire, e firmata da C.D. Gibson, un illustratore interventista che agiva anche politicamente per spingere l’America a partecipare alla Grande Guerra: “And the fool, he called her his lady fair”, recita la didascalia. Nota anche con il titolo Harlot of War (Prostituta di guerra), la vignetta ritraeva l’imperatore Guglielmo II nel panico alla vista della sua amante, una orribile megera ingioiellata e in vestito elegante, con la scritta “Guerra” sul copricapo, che simboleggia la morte.

Passano altri vent’anni e di nuovo la poesia di Kipling è utilizzata per un’ulteriore vignetta di satira politica, con la didascalia “But the fool he called her his lady fair” (Even as you and I)”. Pubblicata dal “Daily News” di New York il 21 settembre 1937 e il giorno dopo da “Washington Time”, era tipica del razzismo antigiapponese che tornava a crescere in America in concomitanza con i bombardamenti del Giappone sulla Cina. La vignetta raffigura nuovamente una vampira in abiti seducenti, ma con il volto da teschio e la scritta “War” sul torace: davanti a lei, un militare giapponese inginocchiato che porta sulla schiena la scritta “Yellow Race”.

Le vignette di “Life” (1917) e “Daily News” (1937)

Vampoesia per bibliomani

The Vampire è stato un vero e proprio caso editoriale di notevole interesse: per quanto breve, la poesia fu subito stampata in agili fascicoli, senza autorizzazione da parte di Kipling. Sui giornali americani comparve anche una presunta lettera inviata da Kipling a Burne-Jones dove gli cederebbe tutti i diritti della sua poesia: “I versi per The Vampire, che chiameremo vampoesia [vampoetry], sono di tua proprietà. Quindi chiunque voglia portarli sul palcoscenico, farne un’incisione, metterli in musica, dipingerli di celeste, tradurli in gaelico, celtico o ittita, usarli come pubblicità di tintura per capelli o come inno per la Chiesa d’Inghilterra, deve accordarsi con quest’uomo” (vedi “The Daily Republican”, 17 aprile 1902; “The Argonaut”, 3 marzo 1902).

Vera o meno che sia quella lettera, di certo Kipling non tutelò in nessun modo il suo testo, consentendo così un’ampia diffusione “pirata” della poesia. Kipling non inserì The Vampire nelle sue opere ufficiali fino al 1919, ma dal 1898 la poesia appare comunque in varie collezioni di testi di Kipling, per varie case editrici, tanto che lo scrittore fece causa a un editore che aveva pubblicato la sua poesia vampiresca assieme ad altre.

Il fenomeno più straordinario è però il diffondersi di “libricini”, sia in Inghilterra sia in America, che in edizioni “non autorizzate” riproponevano The Vampire ai lettori come singolo volumetto. In genere erano fascicoli di poche pagine, in carta color crema, con ornamenti e disegni spesso di colore rosso, a volte rilegati con un nastrino di seta, in molti casi con la riproduzione all’interno del quadro di Philip Burne-Jones. La sopravvivenza fino ai giorni nostri di molte copie di quei libretti conferma che ebbero una consistente diffusione, complessivamente in migliaia di copie.

Una delle prime edizioni è pubblicata a Boston nel 1898 in due versioni. Il frontespizio indica che il volumetto è “Privately Printed”, senza nome dell’editore (si è ipotizzato che si tratti della Cornhill Press). Sulla copertina svettano pipistrelli in rosso, su un cielo dove si staglia una falce di luna, disegnati da E. J. Clark e ripetuti in ogni pagina, su carta color crema, una strofa per pagina. Un’altra versione ha un frontespizio con il disegno in rosso di una donna, tra le tombe di un cimitero, che gioca con un pipistrello (lo stesso disegno si ripete come cornice di ogni strofa della poesia). Va segnalato che diverse edizioni di The Vampire sovrapponevano nell’iconografia il vampirismo leggendario associato al notturno pipistrello e la donna in carne e ossa.

Due versioni dell’edizione di Boston

Nello stesso 1898 The Vampire è stampato anche a Washington da Woodward & Lothrop, in 20 pagine su carta lucida, e a marzo e giugno di quell’anno in due varianti con carta diversa per M.F. Mansfield di New York. Quest’ultima edizione aveva copertina rossa con scritte in oro ed era illustrata da un pipistrello stilizzato in copertina e all’interno, opera di Blanche McManus (moglie dell’editore Mansfield). Stampata in 650 copie, ospitava un disegno che riproduce parzialmente il quadro di Burne-Jones. Un’altra edizione in sole 4 pagine è stampata per il giorni di San Valentino 1898 da Adirondack Press, di Gouverneur, nello stato di New York

Tra le tante edizioni, si segnala quella di Grosset & Co., New York (1898), con in copertina una testa di donna con ali da pipistrello su inserti in rosso e all’interno la riproduzione fotografica del quadro di Burne-Jones. La casa editrice Doxey di San Francisco stampa The Vampire nel 1899 con illustrazioni di Florence Lundborg e poi nel 1901 con illustrazioni di Lander Phelps. Tra il 1898 e il 1899 The Vampire compare anche su un solo foglio di grande formato.

Una certa fortuna ebbero infine i minilibri di piccolissima dimensione con la ristampa di The Vampire, quasi sempre assieme ad altre poesie di Kipling, ma con il titolo di copertina dedicato esclusivamente al testo vampiresco.

Copertine di vari volumi in piccolo formato

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 1

La vampira del quadro: The Vampire di Philip Burne-Jones

Il 1897 è l’anno di nascita dell’immaginario vampiresco moderno. Il 18 maggio si tiene la rappresentazione teatrale di Dracula: ovvero il Non-Morto, prima apparizione pubblica della creatura di Bram Stoker. Poi il 26 maggio il romanzo Dracula esce in libreria (e il 22 giugno si celebra il Giubileo di diamante della Regina Vittoria: può sembrare fuori tema, eppure non lo è). Un mese prima, però, i vampiri avevano già infestato l’immaginario grazie a un quadro e una poesia, oggi poco noti, ma per alcuni anni più popolari del conte Dracula. Il termine “vampire” si allontanava dalla sua valenza soprannaturale, indicando non tanto un morto che torna dalla tomba, quanto una creatura spietata, di sesso femminile, che sugge energie e provoca sciagure: di lì a poco la parola sarebbe stata sintetizzata in “vamp”.

In un freddo sabato 24 aprile 1897, alla New Gallery di Londra si inaugura un’esposizione di quadri in occasione della decima mostra estiva (Tenth Annual Summer Exhibition) della galleria. La maggior curiosità è subito creata da un dipinto racchiuso in una cornice dorata, The Vampire di Philip Burne-Jones, e dalla poesia omonima scritta per l’occasione da Rudyard Kipling, cugino dell’artista, e stampata nel catalogo. Nel quadro, un giovane uomo giace riverso sul letto, morente o in deliquio. Sul petto scoperto c’è una ferita e una donna lo sovrasta, in camicia da notte, le braccia nude e le labbra socchiuse in un sorriso enigmatico. Secondo gli articoli dell’epoca, nel dipinto (oggi perduto e mai riprodotto a colori se non in una cartolina poco attendibile) al bianco vestito della vampira si accostavano il verde e il rosso degli arredi, mentre sul petto del giovane esanime si notava una macchia vermiglia.

Oggi il quadro ci appare certamente innocuo, ma nel 1897 l’immagine di un uomo soggiogato e vampirizzato da una femmina predatrice era ancora capace di far nascere turbamenti. “The Sunday Times” (25 aprile 1897) scriveva che The Vampire “colpisce il pubblico”: “La donna appoggiata sul giovane morto, della cui linfa vitale si è nutrita, è dipinta con tale forza che cattura l’attenzione”. “Tutti si fermano davanti al quadro di Mr. Philip Burne-Jones”, esposto nella South Room della galleria, e leggono la poesia di Kipling, aggiungeva il “Country Life Illustrated” (1 maggio 1897).

The Vampire in una riproduzione del 1902 e, accanto, colorizzato con l’intelligenza artificiale

In breve The Vampire si rivela un evento e l’interesse si moltiplica grazie ai versi di Kipling, mentre il quadro viene proposto in fotografia da vari giornali (“The International Studio” ne pubblica una riproduzione a tutta pagina, nella sua edizione speciale per la mostra alla New Gallery). I critici sono generalmente benevoli, a parte qualcuno che trovò il soggetto “sgradevole”.

L’autore del quadro portava un nome illustre, perché il padre Edward Burne-Jones era uno dei più apprezzati pittori preraffaelliti (e la madre Georgiana, pittrice a sua volta e zia di Kipling, tra l’altro presenziò all’inaugurazione della mostra alla New Gallery, in abiti elegantissimi). Di carattere instabile, Philip Burne-Jones frequentava le cerchie di Oscar Wilde e poi di Virginia Woolf. Quest’ultima nei suoi diari non dà giudizi molto positivi del suo amico Phil, definendolo “una specie di dissipatore degenerato” che spendeva tutte le sterline guadagnate con i quadri in “avventure galanti e lussi”. Tra le frequentazioni di Philip non mancava Bram Stoker: i due si conoscevano bene, da tempo. Il padre dell’artista, Edward, aveva realizzato scenografie per il Lyceum, il teatro londinese di Henry Irving gestito da Stoker, e nel 1882 aveva disegnato un ritratto di Florence Balcombe, moglie dello scrittore. Sono conservate inoltre lettere del 1895 tra Edward Burne-Jones e Stoker. Sappiamo anche che il pittore preraffaellita era ospite a pranzi e cene con Irving e Stoker all’esclusivo Beefsteak Club, a conferma di una familiarità che senza dubbio coinvolgeva anche Philip. Quest’ultimo, inoltre, nel 1888 aveva collaborato lui stesso a scenografie per il Lyceum e il suo nome è citato nei ricordi di Ellen Terry, la diva indiscussa di quel teatro.

Inconsapevole di aver anticipato con il suo quadro una stagione destinata a fondare l’immaginario vampiresco successivo, Philip Burne-Jones ricevette in omaggio il romanzo Dracula da Stoker in persona. Lo testimonia una sua lettera datata 16 giugno 1897: “Caro Bram Stoker, la tua gentilissima promessa dell’altra sera si è concretizzata con grande piacere oggi, quando il tuo libro è arrivato. Inutile dire con quanto interesse lo leggerò o quanto valore abbia per me in quanto dono del suo dotato autore. Appena ne avrò una copia ti prego di accettare una fotografia del mio ‘Vampire’ – una donna in questo caso, tanto per creare il giusto equilibrio!”.

L’uscita di Dracula a poche settimane dalla mostra della New Gallery non poteva che collegarsi a un crescente interesse, non solo “anglosassone”, per i vampiri. La recensione di Dracula sul “Weekly Sun” del 6 giugno 1897 metteva in diretta relazione il quadro di Burne-Jones e il romanzo di Stoker: “Solo quando ho letto il libro del signor Stoker ho capito in pieno il significato e la stranezza misteriosa [weirdness] di quel dipinto” (non ho rintracciato l’articolo originale, citato in due testi di David J. Skal: Fatal Image. The Artist, the Actress, and “The Vampire”, in Vampires: Encounters with the Undead, Black Dog & Leventhal, New York 2001; Something in the Blood, W. W. Norton & Company, New York 2016. Su Stoker e i Burne-Jones vedi anche Barbara Belford, Bram Stoker: A Biography of the Author of Dracula, Weidenfeld & Nicolson, London 1996).

Gossip vampireschi

Philip Burne-Jones dopo The Vampire si trovò al centro di una grande attenzione da parte dei giornali e il quadro scatenò subito una marea di pettegolezzi, perché nel volto della vampira si notò una straordinaria somiglianza con un’attrice inglese che si vociferava avesse avuto una tempestosa relazione con l’artista: Beatrice Tanner, di madre italiana, nota sulle scene come Mrs. Patrick Campbell (dal nome del primo marito).

La stampa, anche oltreoceano, evidenziò subito la vicenda, all’inizio senza citare il nome dell’”attrice inglese”, la quale – scrivevano – si sarebbe irritata non solo per essere apparentata a una vampira nel quadro, ma soprattutto per la descrizione impietosa contenuta nella poesia di Kipling. Di fronte al clamore intorno a quel dipinto, l’attrice si confidò proprio con la sorella di Burne-Jones, Margaret, sua amica e vicina di casa.

Mrs. Patrick Campbell

Il critico teatrale Elwyn Barron, su “The Brooklyn Daily Eagle” (27 giugno 1897), sarà poi esplicito, facendo nome e cognome: “Chi guarda quel quadro vede abbastanza chiaramente nella donna un eccellente ritratto di Mrs. Patrick Campbell. La somiglianza è casuale?”. La risposta di Barron era negativa, dato che era notorio il legame tra l’artista e l’attrice: Burne-Jones era stato un “generoso amico” e “benefattore” per Mrs. Campbell (i gossip dicevano che l’avesse ricoperta di gioielli e pellicce), fino a che lei gli aveva voltato le spalle, inducendolo alla “vendetta”.

Mrs. Patrick Campbell era all’epoca molto nota. Ritratta anche da Aubrey Beardsley, aveva recitato al teatro Lyceum in ruoli scespiriani ed era diventata famosa nel 1893 con la parte del titolo in The Second Mrs Tanqueray di Arthur Wing Pinero. Per certi aspetti era un ruolo di vamp ante litteram, una donna dalla grande libertà sessuale che alla fine non regge ai pregiudizi sociali verso il suo comportamento e si uccide. In seguito l’attrice diventerà la grande passione amorosa di George Bernard Shaw.

Il teatro ha dunque un ruolo importante nella nascita dell’idea moderna di vampiro. Se Dracula fa il suo esordio sul palcoscenico, prima ancora che in libreria, la donna vampiro pare connessa strettamente al teatro e alle attrici. Non solo Stoker in Dracula paragona apertamente Lucy diventata vampira a Ellen Terry, ma con tutta probabilità il volto della vampira di Burne-Jones era quello dell’attrice teatrale Campbell. Negli anni immediatamente successivi, come vedremo in un prossimo articolo, proprio a teatro si manifesterà più spesso la vampira, recitando o ballando.

Le fonti della vampira di Burne-Jones

Anche se alla sua prima apparizione londinese The Vampire ottenne buone recensioni dai critici d’arte, il quadro deve la sua popolarità soprattutto all’argomento scottante della temuta emancipazione femminile e al gossip su Mrs. Campbell. L’artista, poi, doveva sostenere il peso del paragone con il celebre padre. Edward Burne-Jones ritraeva spesso donne che apparivano svenute o addormentate e di fatto il figlio Philip ribaltava quelle concezioni, facendo della donna una predatrice. Ma ci sono almeno due importanti eccezioni nell’opera di Edward Burne-Jones che anticipano proprio il dipinto del figlio e ne sono state ispirazione. Come The Vampire, anche quei quadri fecero scandalo e sensazione. Si tratta di Phyllis and Demophoon (1870) e The Depths of the Sea (1887).

Il primo dipinto evoca il mito di Fillide e Demofonte, descritto da Ovidio e poi da Geoffrey Chaucer. Fillide, regina della Tracia, si innamora di Demofonte che però la abbandona. Fillide si impicca e gli dei la trasformano in un albero di mandorla. Demofonte pentito abbraccia l’albero e Fillide si materializza nei germogli della pianta. Aprendo uno scrigno che Fillide gli aveva donato, Demofonte inciampa e muore trafitto dalla sua spada. Edward Burne-Jones rielabora il mito facendo di Fillide una sorta di vampira che torna dalla morte per rivendicare gli abbracci del suo amante.

Ad apparentare Phyllis and Demophoon e The Vampire concorrono anche le polemiche che circondarono entrambi i quadri. Se Philip Burne-Jones fece scalpore per aver ritratto una nota attrice a cui era stato legato, sia Fillide che Demofonte avevano nell’opera di Edward Burne-Jones il volto della modella Maria Zambaco, con la quale l’artista aveva avuto una relazione. Quando il quadro fu presentato a una mostra della Old Watercolour Society nel 1870 si sollevarono grandi polemiche per la rappresentazione di Demofonte nudo, con i genitali esposti, tanto che dopo due settimane Burne-Jones ritirò il dipinto e poi si dimise dalla Society. Oltre un decennio dopo, il pittore rielaborerà il quadro con il titolo The Tree of Forgiveness (1882), lasciando il volto della Zambaco solo nelle fattezze di Phyllis: quasi per scherno verso i critici dell’opera precedente, ora il nudo integrale era della fanciulla, mentre il giovane maschio era pudicamente coperto nelle parti intime da un velo.

Le due versioni di Phyllis and Demophoon

Il tema della donna fatale è poi proposto ancora da Edward Burne-Jones con The Depths of the Sea (1886, oggi è visibile al pubblico solo una copia realizzata successivamente), dove un’androgina sirena trascina il corpo di un giovane nudo nelle profondità marine. Di nuovo il soggetto suscitò polemiche, per il sorriso indefinibile della sirena che pare compiaciuta dal destino fatale del giovane annegato e che, come un serpente, avvolge il maschio nelle sue spire.

The Depths of the Sea di Edward Burne-Jones

A parte l’ispirazione alle opere del padre, i riferimenti innegabili di Philip Burne-Jones per The Vampire risalgono a L’incubo (1781) di Johann Heinrich Füssli e La morte di Chatterton (1856) di Henry Wallis. La posizione reclinata dell’uomo in The Vampire coincide con quella della donna nel quadro di Füssli, ma al posto del demone che le pesa sul corpo c’è la vampira, la donna emancipata ormai diventata l’incubo del maschio vittoriano, il pericolo da cui fuggire. Così come la posizione del giovane vampirizzato è identica a quella di La morte di Chatterton, ispirato al suicidio con arsenico del poeta diciassettenne Thomas Chatterton.

In alto, L’incubo di Johann Heinrich Füssli e in basso La morte di Chatterton di Henry Wallis

Per quanto riguarda il soggetto di The Vampire, Philip Burne-Jones ne ha parlato in un’intervista rilasciata, nel suo grande studio londinese di West Kensington, a un anonimo giornalista (o a una giornalista: raramente all’epoca gli articoli dei quotidiani erano firmati) che esprimeva un’ammirazione sconfinata per il pittore e per The Vampire, al punto di sostenere che con quel quadro l’artista aveva “tristemente distrutto la mia serenità mentale e la mia capacità di lavorare” (“The Argus”, 26 giugno 1898). L’intervista è interessante perché Burne-Jones spiega le sue intenzioni nella realizzazione del quadro: “Volevo dipingere una di quelle donne che portano rovina, che prosciugano la linfa vitale di un uomo e i versi di Kipling rendevano l’idea. Un uomo può essere consapevole che la donna amata è malvagia, priva di anima, irragionevole, una vera Vampira egoista e avida, ma nonostante questa consapevolezza continuerà ad amarla. Ha calcolato il costo, ha considerato la pena: si tratta di rovina e morte, ma lui non può resistere. Di sicuro era così per l’uomo del mio quadro, ma era contento che andasse in quel modo ed è morto con un sorriso in parte di pietà, in parte d’amore, ma senza rimprovero negli occhi”.

Un disegno che riproduce una prima versione di The Vampire (da “The Argus”, 26 giugno 1898)

The Vampire in America

Nel 1902, Philip Burne-Jones tentò la fortuna negli Stati Uniti, partendo con un carico di suoi dipinti nella speranza di venderli a clienti americani e aprendo un suo studio a New York. Portò con sé anche The Vampire, il cui valore era stimato intorno ai 15.000 dollari, una cifra non alta considerato il clamore che circondava il quadro. A un certo punto, durante il soggiorno in America di Burne-Jones, corse voce che il dipinto fosse stato venduto a 18.400 dollari, ma l’autore si affrettò a smentire e sostenne che non era in vendita.

Philip Burne-Jones nel suo studio di New York con The Vampire alla parete

L’artista (che nel 1898 alla morte del padre aveva ereditato il titolo di baronetto, diventando Sir Philip) espose The Vampire alla galleria M. Knoedler & Co, sulla Quinta Strada di New York, dal 17 al 29 marzo 1902, con un catalogo che nella seconda pagina ristampava la poesia di Rudyard Kipling. Le recensioni, a distanza di cinque anni dalla mostra londinese, questa volta non furono positive. “The New York Press” definì il quadro “ripugnante” e “morboso” (28 marzo 1902), ma il culmine fu la stroncatura del “New York Times” (20 marzo 1902), severo e sprezzante per altro sia verso il padre Edward che verso lo stesso Kipling. “Sir Philip ha il talento di un topolino”, sentenziò l’autorevole quotidiano.

Mentre Philip era in America, sua madre si rese protagonista di un episodio che coinvolgeva proprio Kipling. Convinta pacifista, la signora Burne-Jones aveva appeso uno striscione alla finestra della sua abitazione contro la seconda guerra boera, appena vinta dalle truppe britanniche con un bagno di sangue: “Avete ucciso, avete conquistato”, si leggeva nello striscione. Una folla inferocita di nazionalisti prese d’assedio la casa della signora e solo l’intervento di Kipling, che abitava nella stessa zona, sedò gli animi. Il “poeta dell’imperialismo”, come era definito allora, scese in piazza e convinse sua zia Georgiana a togliere lo striscione e i manifestanti ad andarsene.

Sir Philip era lontano dalle posizioni politiche di sua madre e in America pensava solo a promuoversi nel mondo artistico. Espose The Vampire anche a Chicago, nel gennaio 1903 alla Russell’s Gallery, ancora suscitando scandalo e richieste di rimozione da parte dei sostenitori di Mrs. Campbell. L’attrice era a Chicago con il suo agente, ospitata nello stesso residence di Sir Philip, per la gioia dei giornalisti che potevano ricamare sul vecchio gossip intorno a The Vampire. Così, Burne-Jones si trovò costretto a smentire con la stampa qualsiasi nesso tra la sua vampira e l’innominata star del teatro: sostenne che la modella del ritratto, a pagamento, era una ragazza di Bruxelles e non la famosa attrice. Mrs. Campbell invece inviò una lettera a “The Daily News” (16 gennaio 1903), negando di trovarsi a Londra quando venne realizzato il dipinto, ma senza sfatare l’ipotesi di essere la “donna del ritratto”.

Incalzato da William Salisbury (ne scriverà in The Career of a Journalist, B. W. Dodge & Company, New York 1908), Burne-Jones rispondeva di non conoscere affatto Mrs. Campbell. Peccato che il giornalista si sia recato subito dall’attrice chiedendole se conosceva l’artista: “Beh, certo. Lo conosco e conoscevo bene suo padre. Sua sorella l’ho sempre considerata una delle mie più care amiche”. “Eravate voi l’originale di The Vampire?”, preme Salisbury. “Questo non posso dirlo. Ho sentito che il quadro ha una somiglianza impressionante con me e che questo ha dato origine al suo successo sensazionale”. Dunque Burne-Jons smentisce, mentre Mrs. Campbell implicitamente conferma e anzi lancia la stilettata: sarebbe solo grazie a lei se The Vampire aveva fatto tanto discutere.

I gossip proseguirono per giorni, tanto che secondo Salisbury “alla fine l’artista ci ha chiesto, quasi in lacrime, di non nominargli più ‘quella donna’”. A un ballo della buona società si invitarono sia Mrs. Campbell che Sir Philip, sperando forse nelle scintille di un incontro tra i due, ma il pittore se ne andò accuratamente prima dell’arrivo di lei, per evitare di vederla, e continuò a prendersela con i giornalisti fino alla sua partenza per l’Inghilterra. Dopo un anno, infatti, Burne-Jones lasciò l’America e tornò in patria, senza aver migliorato radicalmente la sua carriera. Il destino di The Vampire è a questo punto oscuro. Il quadro trovò un compratore negli Stati Uniti o seguì il suo autore a Londra? Certamente è svanito nel nulla.

Sir Philip Burne-Jones dall’esperienza americana trasse un libro, Dollars and Democracy (D. Appleton & Company, New York 1904), illustrandolo con eleganti e ironiche vignette. Non era per nulla soddisfatto del soggiorno negli States e con il libro mise in atto un’altra vendetta, dopo quella verso la Campbell che lo aveva lasciato, in questo caso una vendetta verso un paese che non lo aveva trattato troppo bene: criticò l’amore per il denaro dei cittadini, l’assenza di “deferenza” da parte della servitù e dei subalterni, le differenze di costumi tra le donne americane e quelle europee.

Negli anni successivi Burne-Jones non vide mai decollare la sua carriera di artista. Ebbe molte relazioni, ma non si sposò mai. Nel 1926 muore a Londra, all’età di 63 anni, ufficialmente per un infarto, ma alcune voci dell’epoca insinuavano che si fosse tolto la vita.

Dopo il successo clamoroso del suo quadro, Philip Burne-Jones era restato sempre “il pittore di The Vampire”, identificato con quell’unica opera. Era vittima della maledizione che pare colpire chiunque si apparenti al tema dei vampiri (da John W. Polidori a Bram Stoker, da Bela Lugosi a Christopher Lee): rimanere ingabbiato nel riferimento al vampirismo, come un marchio indelebile.

LE STATUE DI DRACULA? SONO ITALIANE!

Intervista a Fabio Varesi

Incredibile, ma vero: sono italiani gli artefici di un omaggio straordinario e di imminente uscita a Dracula (Dracula il vampiro, 1958), il film della Hammer con Christopher Lee e Peter Cushing. I due attori saranno trasformati in due statue a metà strada tra action figure e bambole “horror”, in scala 1 a 6 (alte circa 30 cm.), rigorosamente fedeli fin nei minimi dettagli a quanto appare nel celebre film di Terence Fisher.

Questi (costosi) pezzi da collezione toccano il culmine nella versione Exclusive, 200 esemplari numerati che comprendono Dracula, Van Helsing e la bara del vampiro. Le due statue hanno entrambe corpi con articolazioni, 3 diverse teste, 4 paia di mani, vestiti in stoffa. Come oggetti: candelabri, croce, paletto e martello, ma soprattutto una bara bianca identica a quella che compare nel film. “Vampyrismus” non poteva che rivolgere qualche domanda a Fabio Varesi, direttore di produzione e fondatore di Kaustic Plastik, la ditta che realizza le statue di Dracula.

Le due statue della Kaustic Plastik

Innanzitutto come e quando nasce l’idea di fondare in Italia un’azienda dedicata a statue e collectibles soprattutto di cinema e fumetto?

In realtà la nostra è una storia di “lunga data”. La Kaustic Plastik nasce nel 2010 dalle ceneri della Twisting Toys che fu una delle prime ditte europee a occuparsi di Action Figures 1/6. Nel 2020 siamo entrati in contatto con Infinite Statue, altra realtà italiana storica specializzata invece nella produzione di Statue in Resina. Da quel momento è nato un matrimonio artistico e produttivo tra Kaustic Plastik e Infinite Statue, abbiamo organizzato un gruppo di artisti condivisi tra le nostre due realtà ed in qualche modo pur mantenendo una nostra indipendenza, abbiamo creato una sorta di fusione. Non a caso tutti i nostri prodotti escono proprio con doppio logo, Kaustic Plastik e Infinite Statue. Originalmente la Kaustic Plastik era molto più improntata nella realizzazione di Action Figures basate sull’antica Roma e sul tema antico e storico in generale. E’ proprio con il matrimonio artistico con Infinite Statue che abbiamo cominciato a lavorare su tematiche legate al cinema. Fin da subito abbiamo capito che aveva molti gusti in comune, soprattutto per i grandi classici del cinema, in particolar modo per il Western e appunto l’Horror. Abbiamo unito quindi le forze per trovare delle licenze che potessero adattarsi a questo nostro progetto, l’amore in particolare per il cinema horror classico è molto forte in tutti noi e credo infatti che proprio su questi tema che stiamo dando il meglio di noi. “Bela Lugosi as Dracula” è stato un grandissimo successo sia commerciale che mediatico, abbiamo ricevuto recensioni e feedback pazzeschi praticamente in tutto il mondo. Nosferatu, uscito pochi mesi fa è stato un altro nostro omaggio al cinema classico, ed è stata considerata da quasi tutti i siti specializzati e forum di collectibles come una delle migliori uscite del 2023! Quindi ancora una volta un ottimo successo di vendite e di feedback generali. Speriamo di fare anche meglio con la linea Horror of Dracula! Non solo, come saprai abbiamo recentemente firmato un contratto con la famiglia Chaney e ci apprestiamo a presentare nei prossimi mesi le action figures (e anche statue in resina) di “Phantom of the Opera” e “London After Midnight”.

Ti farò una confidenza. Sono un amante dei tatuaggi, e proprio uno dei miei tatuaggi è dedicato a Christopher Lee in Dracula! Questo ti farà capire l’amore che ho per un certo tipo di cinema horror e per certi personaggi che di fatto hanno “costruito” il mio background culturale e popolato le mie fantasie e passioni dell’infanzia. Lee è stato a mio modesto parere uno dei più grandi attori di sempre, la sua presenza scenica, la sua voce, ma anche la sua cultura generale erano “imponenti”. Peter Cushing fu per tutti i film dedicati a Dracula la sua eterna “nemesi”. Quando si concretizzò il contratto con la Hammer Movie, la nostra scelta fu quasi automatica! Dovevamo fare Horror of Dracula del 1958! Il film dal quale iniziò la saga di Lee che lo portò ad interpretare il conte immortale per moltissimi anni!

La bara bianca “modellino” e a destra un fotogramma del film

Sono state realizzate in 3 differenti versioni, Regular, Deluxe e Exclusive. Quindi si parte da un set base, e via via ogni set avrà più opzioni. Ad esempio cominciando dal set base della versione standard con una sola testa, si passa a due teste con differenti espressioni intercambiabili per la versione Deluxe per finire a ben 3 differenti teste con 3 differenti espressioni naturalmente per la versione Exclusive. La scelta degli accessori e outfit è rigorosamente legata al primo film del 1958, quindi avremo Dracula con il mantello foderato di nero (ricordiamo che solo più avanti nei film successivi il mantello diventa foderato di rosso!) i tipici candelabri che vengono mostrati nel combattimento finale, e ovviamente la bara bianca che è un po’ il “trademark” del Dracula del 1958! Anzi ti dirò una piccola storia riguardo la bara. Originalmente contattammo la Hammer chiedendo di poter fare proprio Horror of Dracula, purtroppo la prima risposta fu negativa. Dopo che uscì il nostro Bela Lugosi (anche lui nella sua versione “Deluxe” era provvisto di bara “movie accurate”), fu la Hammer stessa a contattarci perché era rimasta molto colpita dal nostro lavoro su Bela. E la prima cosa che ci disse fu: Vi diamo la licenza ma anche noi vogliamo il Dracula della Hammer con la sua bara bianca! 😊

Normalmente quando si lavora con le licenze cinematografiche, è la stessa casa di produzione cinematografica che fornisce quello che si chiamo la “style guide”. Un documento che raccoglie foto di scena in alta risoluzione a volte anche inedite e altro materiale inerente il film del quale si ha la licenza. Proprio partendo da questa “guida” che si comincia a lavorare su delle idee che poi vanno ovviamente proposte alla cinematografica per l’approvazione.

Abbiamo un team piuttosto affiatato di artisti, alcuni dei quali molto conosciuti nel mondo dei collezionabili e molto attivi nei social. Sono un gruppo di collaboratori che ormai lavorano con noi da anni, quindi estremamente affidabili e dei quali andiamo molto orgogliosi (e anche gelosi a dirla tutta). Sicuramente oltre alle direzione artistica e direzione di produzione, curata da me (Fabio Varesi) e Fabio Berruti (Infinite Statue), abbiamo una discreta scelta di selezione del team che si occuperà dello sviluppo del 3d (parte essenziale nel nostro tipo di lavoro). I nostri scultori 3d sono Inigo Gil (Spagna), Sean Dabbs (Inglese naturalizzato Francese), Daniele Angelozzi (Italia) e Rocco Tartamella (USA), in realtà ho citato solo alcuni di quelli che collaborano più spesso con noi. Alla colorazione dei prototipi abbiamo Dario Barbera (Italia). Abbiamo poi un nostro service interno per la stampa in 3d e per la prototipazione dei vestiti in stoffa. Tutta la fase concettuale e di prototipazione viene svolta essenzialmente in Italia/Europa. Creato il prototipo e approvato dalla cinematografica si passa alla produzione vera e propria. Lì entrano in gioco una serie di nostri collaboratori e di fabbriche in Cina con le quali collaboriamo da anni e che si occupano sotto la supervisione dei nostri ingegneri della realizzazione del prodotto vero e proprio.

Come dicevo entrare in contatto non era stato particolarmente difficile, ma è stato grazie al nostro Bela Lugosi che si son convinti della qualità della nostra proposta. Dal punto di vista di controllo del progetto, assolutamente sì, abbiamo ricevuto diversi input e talvolta richieste di correzioni su espressioni, materiali, colori o semplicemente artwork. Quindi un lavoro sicuramente influenzato dalle scelte della Hammer. 

In alto, la bara di Dracula (1958) e sotto la pubblicità della versione in scala

In genere tra la fase di design/prototipazione al prodotto finito almeno un anno. Per alcuni progetti anche un anno e mezzo.

Prevalentemente Europei e Americani. Ma abbiamo anche un buon gruppo di appassionati italiani che ci supportano da sempre.

Per fortuna siamo quasi in dirittura di arrivo! Salvo grandi ritardi logistici contiamo di avere tutto in stock per Marzo 2024! Quindi l’attesa è quasi finita!

LA VAMPIRA DI MARRAKESH

Questa è la storia di un bizzarro cortometraggio “di vampiri” e del suo ancor più bizzarro regista, entrambi poco noti anche agli appassionati del genere. Il cortometraggio si intitola Quest of the Perfect Woman: The Vampire of Marrakesh, diretto e interpretato da Tom Terriss nel 1934. Per capire quanto sia curioso l’autore di quel corto basti anticipare, come vedremo tra poco, che Terris ha conosciuto di persona Bram Stoker, ha intervistato Bela Lugosi, ha lanciato la “danza dei vampiri”, portandola a teatro e sullo schermo, e sosteneva di aver presenziato all’apertura della tomba di Tutankhamen.

Tom Terriss

Prima di arrivare a The Vampire of Marrakesh è quindi utile fare la conoscenza con Tom Terris, per decenni famosissimo soprattutto in America e oggi dimenticato.

La sua vita è quanto meno romanzesca. Nato a Londra nel 1872, era figlio di William Terriss, celebre attore scespiriano che ha fatto parte della compagnia di Henry Irving al londinese Lyceum Theatre. Sì, si tratta proprio della compagnia per la quale lavorava come manager Bram Stoker, l’autore di Dracula.

La sua fantasiosa biografia vuole che Tom da giovanissimo abbia studiato a Oxford, sia stato apprendista marinaio, allevatore di pecore in Australia, minatore nel Colorado, rimanendo intrappolato in una tormenta sulle Montagne Rocciose dove i riflessi della neve gli danneggiarono permanentemente la vista, e impiegato alla Borsa di Londra (così si legge, ad esempio, in John Parker, The New Dramatic List. Who’s Who in the Theatre, Small, Maynard and Company, Boston 1914). Seguendo le orme del padre, nel 1890 fa il suo esordio teatrale nella parte di Osric in Amleto, al Globe Theatre di Londra, poi per tre anni recita al Theatre Royal. Nel 1897, però, nella sua vita irrompe una tragedia: il padre è ucciso a coltellate da un pazzo, in un episodio che colpì molto l’opinione pubblica. Per decenni, dopo il delitto, si è vociferato che il fantasma di William Terriss apparisse nella stazione della metropolitana di Covent Garden e all’Adelphi Theatre.

L’amico di Bram Stoker

Il padre di Tom Terriss è un personaggio molto interessante. Dopo aver cercato fortuna alle isole Falkland come allevatore si era dedicato al teatro, diventando uno degli attori principali che lavoravano con Irving e di fatto il “numero due” del Lyceum. William Terriss era forse l’unico che si poteva permettere di dare consigli a Irving, uomo notoriamente dal carattere molto forte. Irving aveva tale stima di Terriss che gli consegnò un reperto storico in suo possesso, la spada impugnata dal grande attore inglese Edmund Kean nella messa in scena del Riccardo III nel 1814, a lui tramandata. Irving e Terriss insieme furono ricevuti dalla Regina. Una volta, Stoker chiese a Terriss di sostituire per il Re Lear il grande Irving in persona, a letto con l’influenza, ma William rifiutò quel compito troppo impegnativo. Terriss suscitò anche l’interesse della figlia di Karl Marx, Eleanor. Nei suoi articoli sul teatro per la rivista “Time” si leggono molte parole di apprezzamento di Eleanor Marx per Terriss (e si scopre anche un accenno a Bram Stoker, da lei definito “il principe dei manager teatrali”).

William Terriss dichiarava di possedere misteriosi poteri ipnotici che mise alla prova in presenza di Stoker, inscenando una fittizia seduta di ipnosi con la complicità della giovane attrice Jessie Millward, sua partner a teatro e nella vita privata.

Lasciato il Lyceum, Terriss divenne l’attore di punta dell’Adelphi Theatre di Covent Garden, continuando una prestigiosa carriera. Ed è proprio uscendo dall’Adelphi che troverà la morte, il 16 dicembre 1897: un uomo lo colpisce al cuore e alla schiena con un coltello da macellaio. A ucciderlo è un altro attore, Richard Archer Prince, convinto che Terriss ostacolasse la sua sfortunata attività sui palcoscenici. Prince aveva recitato in piccoli ruoli sulle scene britanniche, ma si trovava in miseria ed era noto nell’ambiente teatrale come “Mad Archer” per il suo comportamento folle, tra accessi di rabbia, dedizione all’alcol e dichiarazioni deliranti (sosteneva spesso di essere Gesù Cristo). È curioso che quel personaggio inquietante, ben conosciuto sicuramente da Stoker, si chiamasse Archer, cognome molto simile all’Harker protagonista del romanzo Dracula.

L’assassino fu catturato subito e sfuggì al linciaggio. Irving e Stoker si recarono a porgere personalmente le loro condoglianze sia alla vedova che all’amante del defunto, Jessie.

L’assassinio di William Terriss in un’illustrazione dell’epoca

Il delitto fece molto scalpore e il figlio della vittima, il nostro Tom Terriss (con il vero nome Thomas Lewin), sarà chiamato a testimoniare al processo. Per Archer si aprirono le porte del manicomio criminale, dove durante la detenzione allestiva spettacoli teatrali e musicali.

Della vicenda Stoker tornò a occuparsi un paio d’anni dopo, perché l’assassino inviò dal manicomio una lettera a Irving che secondo i giornali conteneva minacce di morte (giurava che, appena rilasciato, per prima cosa avrebbe ucciso Irving). Stoker precisò al quotidiano scozzese “The Dundee Courier” (6 aprile 1899), interessato alla vicenda perché l’assassino era nato proprio a Dundee, che la lettera era piena di accuse al mondo teatrale, senza però contenere minacce di morte nei confronti di Irving.

I nomi di William Terriss e Bram Stoker erano quindi strettamente legati, in quella fine del secolo. L’anno dopo la morte di Terriss, inoltre, una sua biografia fu pubblicata dallo stesso editore del Dracula di Stoker, Constable. I due erano considerati “amici”, ma le poche citazioni del nome di Terriss nei libri scritti da Stoker non sono tutte lusinghiere (sui rapporti tra i due, vedi tra l’altro David J. Skal, Something in the Blood, Liveright, New York 2016). Nella corrispondenza di Stoker conservata alla Brotherton Library dell’Università di Leeds ci sono lettere del 1893 dove Terriss lamenta di essere stato sottopagato per un tour in America, accusando poi Stoker di averne messo al corrente Irving. L’attrice Jessie Millward nelle sue memorie (Myself and Others, Hutchinson, London 1923) ricorda che proprio durante quel tour furono Terriss e Stoker a convincere la polizia di New York al rilascio di un membro della compagnia, arrestato per offese a pubblici ufficiali.

Il nesso tra Terriss e Stoker è stato anche preso a pretesto, nel 2004, per uno spettacolo dell’Equity Theatre di Tampa, in Florida: Sherlock and Shaw: The Adventure of the Missing Vampire Diaries di Aubrey Hampton. Nel testo teatrale si immagina che il corpo di Terriss fosse stato prosciugato dal sangue e che Bram Stoker avesse consegnato all’attore una copia del suo presunto manoscritto Vampire Diaries, sparito misteriosamente dopo il delitto.

La danza della vampira

Usufruendo dell’eredità ricevuta alla morte del padre, molto ricco grazie ai successi teatrali, Tom Terriss si dedica alla sua passione per i viaggi, scrivendo reportage, ma prosegue il lavoro di attore diventando noto per le messe in scena dei racconti e romanzi di Charles Dickens (era tra l’altro nipote del prestigioso storico George Grote che conosceva Dickens di persona), in particolare legandosi al personaggio di Ebenezer Scrooge dal racconto di fantasmi A Christmas Carol.

Nel 1909 Tom conosce una giovane ballerina e la sposa. Nata in America nel 1884, era stata una delle ragazze dei primi spettacoli di vaudeville Ziegfeld Follies. Per liberarsi del suo vero cognome, un troppo banale Smith, aveva scelto uno pseudonimo con almeno quattro varianti: Mildred De Vere, Devere, Deveres, Deverez.

Con quest’ultimo pseudonimo, Deverez, insieme al marito si appassiona a un tema molto in voga all’inizio del nuovo secolo: i vampiri, o meglio “la” vampira, intesa come donna fatale che porta alla distruzione il maschio, depredandolo di beni ed energia. Non tanto i vampiri soprannaturali del Dracula di Stoker, ma creature femminili portatrici di disastro che avevano ottenuto grande popolarità grazie a un quadro e a una poesia.

Il quadro era The Vampire di Philip Burne-Jones (figlio del più noto pittore preraffaellita Edward Burne-Jones) in mostra, proprio mentre usciva Dracula nelle librerie, durante la primavera 1897 alla New Gallery di Londra: una donna in sottoveste bianca, i lunghi capelli scuri sciolti, si erge predatrice su un uomo coricato, esanime (il dipinto è perduto, ma ne sopravvivono riproduzioni dell’epoca in bianco e nero). Nel catalogo della mostra era contenuta una poesia con lo stesso titolo del quadro, scritta dal cugino dell’artista, Rudyard Kipling: è il lamento misogino di un uomo che si sente devastato da una donna spietata. Quadro e poesia avevano poi dato origine nel 1906 a un testo teatrale di Porter Emerson Browne intitolato con le stesse parole con cui iniziava la poesia di Kipling, A Fool There Was, e dall’autore trasposto in forma di romanzo nel 1909. Browne immagina la storia che fa da premessa al quadro, narrando di un diplomatico portato alla rovina da una donna senza scrupoli (A Fool There Was, trasformato in film, nel 1915 lancerà la figura della “vamp” grazie all’interpretazione di Theda Bara).

Nel 1909 lo spettacolo teatrale di Browne ebbe il massimo successo e anche la “danza della vampira” era diventata popolare in quell’anno, grazie a un breve balletto ispirato al quadro di Burne-Jones, intitolato The Vampire e rappresentato nel luglio 1909 a New York da Alice Eis e Bert French (della “Vampire Dance” nell’immaginario durante il passaggio tra Ottocento e Novecento ci occuperemo specificamente in un successivo articolo).

Tom Terriss e Mildred Deverez decisero di replicare quel successo con un loro balletto per il vaudeville ispirato a sua volta alla figura della donna vampiro. Il 29 novembre 1909, così, si verifica a Londra una sfida tra due “danze di vampiri”. Quel giorno esordiscono contemporaneamente sulle scene londinesi la “Vampire Dance”di Eis e French, all’Hippodrome, e quella di Mildred Deverez e Tom Terriss al Tivoli.

Una pagina di “The Sketch” dedicato alla danza vampiresca di Terriss-Deverez

Il ballo di Deverez e Terriss può essere immaginato in base alle descrizioni della stampa di allora (ad esempio su “Auckland Star”, 5 febbraio 1910, e “Wairarapa Daily Times”, 4 maggio 1910). All’alzarsi del sipario si vede una donna (Deverez) appoggiata a una colonna, il corpo avvolto in un velo rosso semi-trasparente. Lentamente si toglie il velo, mentre una voce melodiosa declama la poesia di Rudyard Kipling. Tolto il velo si scopre una donna bellissima dai lunghi capelli rossi, in abito quattrocentesco. Inizia a danzare, sensuale, quando entra in scena un giovane pittore (Terriss) che si siede meditando su una sua opera. La vampira lo vede e corre silenziosa lungo il palcoscenico “come una pantera verso la sua vittima”. Il ballo tentatore affascina l’uomo che però tenta di distrarsi ricominciando a lavorare sui suoi schizzi. Lei lo attrae nuovamente a sé con i suoi poteri ipnotici e lui resiste, poi lentamente torna da lei. Con la sua danza che si fa più selvaggia lei lo soggioga, l’artista tenta di allontanarsi, ma poi bacia la donna sulle labbra e cade inerme ai pedi della vampira che lo morde alla gola. Il giovane rotola lungo una scala, morto. Lei ride e balla, in attesa di un’altra vittima. Il momento del morso fatale era illuminato da una luce verde, proprio come accadrà un ventennio dopo con le rappresentazioni teatrali di Dracula interpretate da Bela Lugosi.

Il duplice balletto sulle vampire di quel novembre 1909 fece scalpore e Mildred Deverez da allora continuò a proporre delle variazioni sulla sua “Vampire Dance” sia in America che in Europa, prima di ritirarsi dalle scene negli anni Venti. In The Poison Kiss, pantomima ambientata in una Venezia del Cinquecento e rappresentata nel 1911, la Deverez è Lucrezia, decisa a vendicare la morte della sorella, causata dallo spregiudicato Giovanni, mettendosi del veleno sulle labbra e scoccando un bacio micidiale. Un anno dopo la Deverez è ancora una femme fatale in The Love Dream, dove un ufficiale della marina è sedotto alle Hawaii dalle danze di una donna del luogo. Sta per rinunciare a tornare sulla sua nave, poi riesce a trovare la forza di liberarsi dall’incanto della donna. In questo caso, come in Madama Butterfly, è la donna a morire, piantandosi un coltello nel cuore.

Dopo aver lanciato la “danza della vampira” nelle sale britanniche, Tom Terriss decide di lasciare l’Inghilterra e porta in America e Canada i suoi spettacoli ispirati a Dickens. Con l’avvento del cinema si trasferisce a New York e diventa regista, dirigendo The Chimes (1914), ancora tratto da Dickens, e poi oltre 40 film d’avventura, romantici e drammatici (in alcune delle sue prime pellicole fece recitare anche la figlia di quattro anni Millie). Nel 1915 progetta una sua casa produttrice, due anni dopo ottiene la cittadinanza americana. Come attore appare tra l’altro accanto a Charles Chaplin in Sunnyside (Charlot in campagna, 1919). La “danza della vampira” rimarrà un dato caratterizzante dell’attività di Terriss, anche al cinema. Nel 1915, infatti, unisce l’esotismo al vampirismo femminile, dirigendo il film Flame of Passion, ambientato in Giamaica: una donna fatale del luogo porta al disastro un ricco americano. Una foto superstite del film evoca chiaramente il quadro di Burne-Jones all’origine della “Vampire Dance”. Nella parte della vampira, tra l’altro, Terriss fa recitare sua sorella Ellaline, come lui famosa attrice di teatro e moglie di Seymour Hicks, autore teatrale e produttore.

Ellaline Terriss in Flame of Passion (1915)

Tom Terriss e Tutankhamen

Nel novembre 1922, secondo le sue dichiarazioni, Terriss vive un’esperienza eccezionale: assiste all’apertura della tomba di Tutankhamen con la squadra di Lord Carnarvon. Terriss era in Egitto in quei giorni, impegnato a preparare il film di produzione britannica Fires of Fate (uscirà nel 1923 e un anno dopo negli USA con il titolo The Desert Sheik), tratto dal romanzo di Arthur Conan Doyle La tragedia del Korosko (The Tragedy of the Korosko, 1898) che racconta le vicissitudini di alcuni turisti in viaggio sul Nilo presi prigionieri dai dervisci. Terriss ha sostenuto in differenti circostanze di essere stato invitato a quell’evento straordinario oppure di essersi “infiltrato” spacciandosi per giornalista (espediente strano, dato che c’era una rigida esclusiva a “The Times”), unendosi alle 15 persone, o 24 secondo alcune fonti, che presenziarono all’apertura della tomba (molti dettagli su Terriss e Tutankhamen si trovano in Matthew Coniam, Egyptomania Goes to the Movies, McFarland & Company, Jefferson 2017).

In un’intervista rilasciata alla regina del gossip cinematografico Louella Parsons (“Morning Telegraph”, 23 settembre 1923), Terriss raccontava le sue sensazioni: “Lo scavo della tomba è stata l’esperienza più emozionante che io abbia mai avuto. Il battere dei martelli sulle mura era una sorta di rumore soprannaturale che risuonava con forza nella silenziosa stanza dove non si diceva una parola. Eravamo in una grande camera che portava proprio al luogo di sepoltura di Re Tutankhamen. Ci aspettavamo di trovare un’altra stanza enorme. Al contrario il sarcofago era appoggiato in verticale al muro. Il freddo getto d’aria che seguì l’apertura del muro è stata l’esperienza più strana che io abbia mai vissuto. Era esattamente come se qualcuno ci avesse colpito la spina dorsale con un getto di acqua gelata”.

Non c’è nessuna conferma che il racconto sia vero, ma Terriss ha continuato a ripeterlo (fornendo varie versioni dell’episodio) per tutta la vita. Mancano riscontri, nessuno dei testimoni di quel giorno ha mai fatto il suo nome né esiste documentazione a riguardo. In un’occasione Terriss lasciò intendere che girò delle immagini dell’apertura della tomba, ma non ne esiste traccia.

Ovviamente anche Terriss doveva fare i conti con la cosiddetta “maledizione di Tutankhamen”. Si disse che era uno dei pochi sopravvissuti alla maledizione e lui stesso alludeva a una grave malattia che avrebbe contratto subito dopo aver partecipato all’apertura della tomba del re egizio. Sui giornali si arrivò a scrivere che Terriss era uno dei soli quattro superstiti, sfuggiti alla vendetta del faraone. Per sfruttare queste voci, nel 1934 Terriss tentò, senza esito, di realizzare un film sulla maledizione di Tutankhamen.

L’albo a fumetti Famous Funnies (1953) ricostruisce la storia di Terriss e Tutankhamen

La fatale marocchina

Arriviamo infine al cortometraggio The Vampire of Marrakesh che discende direttamente dall’attrazione per l’orientalismo e l’esotico maturata da Tom Terriss con l’esperienza egiziana. La vera popolarità Terriss la ottiene all’inizio degli anni Trenta, quando si specializza in “travelogue”, diari di viaggio filmati e conditi di fiction, girati con la sua troupe dotata di cinepresa e microfoni per immortalare le voci del nativi e le loro musiche. Dal 1927 aveva raccontato i suoi viaggi in giro per il mondo alla stazione radio KFI di Los Angeles e due anni dopo porta sugli schermi la stessa idea di fondo. Terriss da attore e regista del cinema muto si trasforma in esploratore, realizzando un’infinita serie di corti della durata di circa 10 minuti (una bobina), caratterizzati da una miscela di avventura esotica, commedia e accenni di nudo.

Noti come Vagabond Adventures, i filmati erano inizialmente prodotti e distribuiti con il sostegno della Pathé, e poi RKO, da Alfred T. Mannon e Amedee Van Beuren, pionieristico produttore di film, cortometraggi e cartoni animati (vedi Hal Erickson, A Van Beuren Production, McFarland & Company, Jefferson 2020). La formula era semplice: riprese di luoghi insoliti, inserti drammatizzati, una voce fuori campo. A volte Terriss appariva di persona, più spesso era la voce narrante. I corti uscivano ogni due settimane e in seguito una volta al mese. Alcune scene di pura fiction erano girate in California con attori professionisti da Elmer Clifton, già assistente alla regia di D.W. Griffith e caduto in disgrazia nel 1923 quando un’attrice era morta bruciata sul set di un suo film.

Nei cortometraggi di Terriss sono ricorrenti i riferimenti a leggende macabre, come in Glacier’s Secret (1931), dove si racconta di una donna rimasta intatta nel ghiaccio per quarant’anni, e nell’analogo The Frozen Bride (1946) imperniato su una leggenda svizzera relativa a una donna conservata perfettamente dai ghiacci per mezzo secolo. Gli intrecci tra i documentari di Terriss e l’immaginario nero non finiscono qui. A lui si deve un corto con la sua voce narrante girato per la RKO-Pathé, The Song of the Voodoo (1931), dove si assiste a una cerimonia voodoo nell’isola di Haiti. Secondo gli studiosi di cinema fantastico sarebbe il primo film in assoluto a occuparsi di voodoo, dato che anticipa White Zombie, la pellicola con Bela Lugosi uscita nel 1932. E a proposito dell’attore ungherese, Terriss nel 1931 ha intervistato Lugosi per il cinegiornale “Voice of Hollywood”, chiedendogli quale effetto abbia avuto su di lui recitare il ruolo di Dracula (l’attore rispose che lo considerava una sfida e si diceva molto lieto che si fosse conclusa, evidentemente ancora ignaro del suo imminente destino di identificazione totale con il personaggio). Durante il periodo d’oro della sua notorietà come “regista vagabondo”, Terriss progetta una serie di 13 cortometraggi, lo stesso numero di tante odierne serie tv, con il titolo Quest of the Perfect Woman (Alla ricerca della donna perfetta). Agli inizi del 1934 annunciava il completamento di due episodi, The Vampire of Marrakesh e The Veiled Dancer of El Oued. Del terzo episodio, North of Sahara, non si hanno notizie a parte che era ambientato in Etiopia e di certo la serie non ha poi avuto seguito. I primi due episodi sono tuttora disponibili e The Vampire of Marrakesh è apparso nel 2002 come extra nel DVD del film Doctor Gore della Something Weird.

I titoli di testa di The Vampire of Marrakesh indicavano come produzione la Hammer Pictures Inc. Forse siamo di fronte al primo film di vampiri della famosa casa produttrice britannica che realizzerà molti anni dopo Dracula il vampiro (Dracula, 1958) e una serie di indimenticabili pellicole gotiche? Pare proprio di no: il produttore Arthur Hammer, che si occupava dei cortometraggi avventurosi di Quest of the Perfect Woman, non ha nulla a che fare con l’azienda cinematografica che nasceva in Inghilterra nello stesso periodo. Non si tratta nemmeno di una versione ridotta del già citato Flame of Passion, come sostengono alcuni, dato che contiene sì temi simili, ma si svolge in tutt’altra ambientazione.

Una scritta in apertura di The Vampire of Marrakesh spiega: “Esiste la donna perfetta? Forse una tale rarità la si può trovare non dove la civilizzazione ha creato valori artificiali, ma nei paesi più primitivi dove la semplicità e la natura dominano supreme?”.

Tom Terriss e il suo amico Jimmy nella loro ricerca della donna perfetta si recano a Marrakesch, definita “barbaric city”. Dopo qualche ripresa di panorami marocchini, il giorno successivo all’arrivo Tom si presenta dall’amico con il viso stanco e racconta l’esperienza appena vissuta con quella che descrive come “la creatura del male”, una “vampira”.

Rielaborazione video della scena cruciale di The Vampire of Marrakesh

Un flashback mostra la sua avventura. Per introdursi in un edificio principesco, convinto che nasconda un harem, Tom entra di nascosto nel giardino del palazzo, dove una donna dai lunghi capelli scuri prende il sole nuda accanto a una piscina (il nome dell’attrice è ignoto). Lei lo vede: “I suoi occhi mi tentavano, invitandomi a seguirla”. Tom nel palazzo trova altre donne in succinti abiti orientali che lo osservano senza parlare. In un cortile, la donna che lo aveva attratto è adagiata su un divano e assiste a uno spettacolo di musica e danze. Tom si inginocchia e bacia la mano della donna (“I suoi occhi erano come fuoco opalescente”), che ha i seni scoperti e gli porge un bicchiere. “Dopo che ho bevuto la sua voce è diventata come il distante tintinnio di una campana d’argento”. Tom si risveglia in un’altra stanza e mentre riprende conoscenza la donna si avvicina a lui danzando, le gambe avvolte in un velo trasparente e i seni nudi coperti solo dai capelli corvini: “Ho capito dagli occhi e dai denti aguzzi tra le rosse labbra che ero alla mercé di una vampira”. La donna si china su di lui, coricato, in una sorta di rielaborazione del dipinto di Burne-Jones. Il flashback finisce e Tom racconta di essersi risvegliato in mezzo a una strada.

Una donna araba che porta sventura ritorna nel successivo episodio, The Veiled Dancer of El Oued, dove Terriss accresce lo stile “realistico”, da documentario: Tom e Jimmy parlano agli operatori, seguiti dalle cineprese della troupe. Il corto ripropone una femmina pericolosa, capace di affascinare gli occidentali e portare loro disgrazia, per quanto senza accenni al vampirismo. Tom Terriss e il suo amico Jimmy sono in Algeria. Tom è attratto da una seducente algerina che danza in strada a seno nudo. La fanciulla, però, si rivela anche in questo caso insidiosa, perché indica agli abitanti del luogo la troupe cinematografica così che possano rapinarla. Dopo l’aggressione, Tom e Jimmy finiscono in ospedale, accuditi da una bella infermiera (per altro molto simile alla ballerina di strada) che potrebbe forse essere la vera “donna perfetta”, finalmente individuata.

Concluso l’esperimento precocemente interrotto di Quest of the Perfect Woman, Tom Terriss continuerà la saga delle Vagabond Adventures con altre produzioni, fino alla metà degli anni Quaranta, portando il suo format anche alla radio della NBC e facendo apparizioni sul piccolo schermo all’alba della televisione. I suoi cortometraggi documentaristici in terre esotiche gli avevano portato la celebrità, quasi un anticipatore di odierni programmi come l’italiano Freedom. E si rese talmente noto al pubblico angloamericano appassionato di viaggi e avventure da diventare protagonista dei fumetti, fino agli inizi degli anni Cinquanta, con gli albi Tom Terriss the Vagabond Adventurer, nella collana Famous Funnies: in un episodio (n. 206, 1953) si ricostruisce la sua ipotetica partecipazione all’apertura della tomba di Tutankhamen e la relativa maledizione.

Tom Terriss è morto ultranovantenne nel 1964. Un mese prima era morta sua moglie Mildred, la vampira della danza. 

MARXISTI E VAMPIRI

Nei giorni scorsi è stato disponibile su ARTE, il canale culturale in streaming, il film tedesco Blutsauger (Succhiasangue), che la stessa ARTE ha coprodotto.
Scritto, montato e diretto da Julian Radlmaier, il film è del 2020 ed è stato presentato l’anno dopo alla Berlinale. Le versioni in inglese e in francese portano il sottotitolo Una commedia marxista di vampiri che sintetizza il contenuto del film.

Ambientato in Germania nel 1928, Blutsauger si avvia con le immagini di un “gruppo di lettura” intento a discutere sui brani del Capitale di Marx dove il capitalismo che “succhia lavoro vivo” è paragonato ai vampiri. E se non fosse una metafora e i “padroni” fossero davvero dei vampiri? Su questa domanda si sviluppa la trama, volutamente surreale.
L’attore russo Ljowuschka (Alexandre Koberidze) cerca fortuna in occidente dopo aver interpretato Trotski in Ottobre! di Serghei Eisenstein, per poi constatare che tutte le sue scene erano state tagliate dal film su ordine di Stalin. Fingendosi un barone in fuga dai bolscevichi, Ljowuschka fa la conoscenza della bizzarra intellettuale, e ricca ereditiera, Octavia (Lilith Stangenberg). In realtà è una vampira come gli altri esponenti della sua classe sociale, ma Ljowuschka si innamora di lei e non vuole credere che sia una succhiasangue, anche quando lui stesso è morso al collo. Per aiutare il russo a fare carriera nel cinema, tra l’altro, Octavia realizza un film di vampiri, dove lei in persona recita la parte della vittima di un vampiro cinese. Nonostante tra la popolazione aumentino le morti attribuite ai vampiri, i proletari-rivoluzionari sono incapaci di capire la realtà: decidono che il vero vampiro è l’orientale del film e si accaniscono su capri espiatori, assolvendo così la ricca Octavia e gli altri borghesi-vampiri che restano liberi di continuare le loro attività predatorie.

Il film è costruito su interminabili scene con camera fissa, rese tollerabili dall’ottima fotografia, e su dialoghi da teatro dell’assurdo. La stessa ambientazione storica è paradossale, con abiti odierni accanto a vestiti d’epoca e con espliciti sfasamenti temporali: ad esempio, vediamo Jakob (Alexander Herbst), assistente-maggiordomo vampirizzato da Octavia, bere un’anacronistica lattina di cocacola negli anni Venti del secolo scorso.

Blutsauger è l’ennesima dimostrazione delle infinite suggestioni che il tema vampiresco continua a suscitare, prestandosi agli approcci più svariati. Al di là del giudizio sulla riuscita dell’esperimento, qui il vampirismo è occasione per una satira contemporaneamente dei marxisti “ortodossi” e della borghesia anticomunista.

QUATTRO VAMPIRI A VENEZIA

I soliti becchini-in-anticipo-sulle-esequie da tempo davano per morto il cinema di vampiri (almeno dagli anni Novanta del secolo scorso). Sembra che siano stati frettolosi, a giudicare dalla florida salute del genere vampiresco sugli schermi, nel 2023. Le infinite possibilità metaforiche offerte dalla figura del vampiro sono permanentemente utilizzate da registi di ogni latitudine, come testimonia la Mostra del Cinema di Venezia 2023. Quattro film proiettati a Venezia, infatti, sono indubitabilmente “film di vampiri”.

El Conde

In concorso, innanzitutto, a Venezia c’è El Conde di Pablo Larraìn, film cileno per Netflix. E la storia delconte Pinoche (Jaime Vadell), vampiro sfuggito alla Rivoluzione Francese che dopo la Seconda guerra mondiale si rifugia in Cile, assume il nome di Augusto Pinochet e con un golpe nel 1973 sgomina gli odiati comunisti. Resta dittatore per anni, poi finge la sua morte e si nasconde, stanco della sua lunga esistenza e annoiato. Vuole lasciarsi morire, ma i suoi familiari intendono spartirsi al più presto l’eredità e usano la suora Carmen (Paula Luchsinger) per circuire il vecchio vampiro. Girato in bianco e nero, El Conde non è solo satira politica, ma arricchisce di molti altri rimandi e suggestioni la vecchia metafora sociale del vampirismo che “succhia il sangue del popolo”.

Le vourdalak

Presentato alla Settimana della Critica è invece Le vourdalak del francese Adrien Beau, girato in 16mm e ispirato a un noto racconto di Aleksej K. Tolstoj. Un nobile francese (Kacey Mottet Klein) per sfuggire ai banditi nei Balcani chiede ospitalità a una famiglia. Il ritorno del capofamiglia Gorka si rivela catastrofico, dato che l’anziano è diventato un vampiro (interpretato non da un attore, ma da un burattino con la voce del regista). Il vecchio aveva chiesto di essere ucciso se fosse tornato dopo più di sei giorni, ma i figli si rifiutano di esaudire il suo desiderio. Intanto, il francese è affascinato da Zdenka (Ariane Labed), figlia di Gorka.
Il racconto di Tolstoj aveva già ispirato due film italiani: un episodio di I tre volti della paura (1963), diretto da Mario Bava, con Boris Karloff nella parte del vampiro, e La notte dei diavoli (1973) di Giorgio Ferroni. Da segnalare anche tre film prodotti in Urss e poi in Russia, Semia vourdalakov (La famiglia del vurdalak, 1990) di Gennadiy Klimov e Igor Shavlak, Papa, oumer Ded Moroz (Papà, Nonno Gelo è morto, 1991) di Evgueni Youfit, Vourdalaki (I vurdalak, 2017) di Sergei Ginzburg.

En attendant la nuit

Vampiri adolescenti sono al centro di altri due film proiettati a Venezia. Il primo, En attendant la nuit, diretto da Céline Rouzet che viene dal cinema d’inchiesta, è un film franco-belga in concorso nella sezione Orizzonti. Negli anni Ottanta, in un villaggio francese di montagna abita in completo isolamento sociale il giovane vampiro Philémon (Mathias Legoût-Hammond), che non può esporsi al sole e sopravvive grazie alle sacche di sangue rubate dalla madre in un centro per le trasfusioni. La famiglia deve spostarsi di città in città per proteggere il figlio dal pregiudizio e dall’ostilità. Philémon si innamora della coetanea Camila (Céleste Brunnquell), ma la sua diversità lo farà oggetto della violenza che cova nella piccola comunità apparentemente equilibrata e serena.

Vampire humaniste cherche suicidaire consentant

Il disagio adolescenziale torna in Vampire humaniste cherche suicidaire consentant, debutto della regista canadese Ariane Louis-Seize, proiettato a Venezia per le Giornate degli Autori. In una cittadina di provincia risiede Sasha (Sara Montpetit), giovane vampira che si rifiuta di uccidere e beve con la cannuccia dalle sacche per la trasfusione del sangue. Anche in questo caso c’è l’incontro con un coetaneo, Paul Fèlix (Antoine-Bènard), che ha difficoltà scolastiche e vari tentativi di suicidio al suo attivo. Il rapporto tra la ragazza che non vuole uccidere e il ragazzo che vuole morire finirà con il “dono” del vampirismo.

GLI ALTRI VIAGGI DEL “DEMETER”

E’ appena arrivato nelle sale il film Demeter – Il risveglio di Dracula di André Øvredal. Nel recente passato, però, non sono mancati gli omaggi alla traversata della nave Demeter verso l’Inghilterra, come descritta in Dracula di Bram Stoker. A parte le sequenze di vari film su Dracula in cui si assiste al viaggio navale del vampiro (per primi Nosferatu di F.W. Murnau e Dracula di Tod Browning), una specifica attenzione è stata dedicata a quella parte del romanzo. Un esempio interessante è Demeter (Edicions de Ponent, Alicante 2007), con testi e disegni di Ana Juan. Il volume illustrato riproduce parti del registro di bordo “da Varna a Whitby” accompagnato da grandi immagini a tutta pagina. Il volume, tra l’altro, contiene un breve saggio di Felipe Hernandez Cava sul rapporto tra Stoker e il mare. Curiosamente, il vampiro per quanto stilizzato ha le stesse caratteristiche animalesche simili a un pipistrello che si ritrovano nel film Demeter – Il risveglio di Dracula.

La copertina e un’illustrazione di Demeter.
Una doppia pagina da Demeter.

Un fumetto pubblicato nel 2010 dalla IDW in quattro albi aveva addirittura un sottotitolo identico al film di Øvredal, che in originale è The Last Voyage of the Demeter. Si tratta di Death Ship – The Last Voyage of the Demeter, scritto da Gary Gerani e illustrato da Stuart Sayger. Con suggestivi disegni a colori si ripercorrono le allucinazioni della ciurma, decimata dal vampiro, fino a che resta solo il capitano (non manca un bambino a bordo). Anche in questo caso il vampiro sulla nave ha l’aspetto mostruoso delle illustrazioni di Ana Juan e del film di Øvredal.

La copertina del n. 4 di Death Ship e una tavola del fumetto.
Un’altra immagine da Death Ship.

Nel 2012 è stato girato un cortometraggio ispirato alle stesse pagine del romanzo di Stoker, The Final Voyage of the Good Ship Demeter, diretto da Bryan Enk. E’ un monologo in cui si raccontano gli orribili eventi sulla nave, con il protagonista inquadrato continuamente in primo piano. Enk è un filmmaker dell’Ohio che ha la passione (o l’ossessione) per Dracula di Stoker. Ha dedicato una lunga serie di sue opere al celebre personaggio. Innanzitutto la trilogia Dracula (1993), Dracula Returns (1994) e Blood Daughter (2022). Poi il corto Mina Seward (2001) e il monologo The Curious Case of R.M. Renfield (2006). ​In lavorazione dal 2007, è annunciato per il 2023 The Heartless Cruelty of Lucy Westenra, altro monologo ispirato a Stoker. I film di Enk sono visibili su Vimeo.

The Final Voyage of the Good Ship Demeter, diretto da Bryan Enk.

Da segnalare, infine, lo spettacolo teatrale Nosferatu del Proper Job Theatre, in tour per la Gran Bretagna nel 2015. Riportiamo dal libro Nosferatu – Il capolavoro di F. W. Murnau un secolo dopo: “Su un testo scritto dal poeta inglese Ian McMillan e con musiche di Rod Beale, si svolge interamente a bordo della nave che trasporta il conte Orlok (da Varna a Whitby, come nel romanzo). La scena è quasi buia, con effetti speciali creati da un illusionista, tre soli attori e una cantante. Orlok di fatto non si vede, ma ‘possiede’ il corpo del capitano della nave. Dopo essere stato vampirizzato, il capitano si toglie il lungo soprabito e rivela la militaresca giacca con i bottoni di Orlok, protendendo le mani ad artiglio”.

Nosferatu del Proper Job Theatre.

VAMPIRI ADOLESCENTI SUPEREROI

Si è appena conclusa con il sesto albo la serie a fumetti “Night Club”, dove dei giovani vampiri diventano una sorta di supereroi giustizieri.
La genesi di “Night Club” ci indica che alcuni meccanismi dei media e dell’intrattenimento stanno cambiando. Un tempo capitava che film e serie tv fossero tratti da fumetti di successo, o viceversa che un fumetto si ispirasse a film e serie di successo. Ora il fumetto diventa invece un laboratorio per esperimenti, da usare prima di produrre una serie.

Nel 2020 lo scozzese Mark Millar, in passato autore di punta per la DC e la Marvel, è stato incaricato da Netflix di preparare un progetto per una serie tv su teenager vampiri. Prima di passare alla concretizzazione della serie, Millar ha deciso di sperimentare il soggetto della serie in forma di comic. Inizialmente commissiona delle copertine di prova a Greg Capullo, Ben Oliver e Ben Templesmith, poi passa a realizzare il fumetto con i disegni di Juanan Ramirez, 6 albi per la Image Comics.
C’è anche un po’ di Italia, tra l’altro, nel fumetto della Image: Giovanna Niro e Fabiana Mascolo si occupano dei colori, mentre Matteo Scalera firma un paio di copertine.

La trama di “Night Club” può essere spoilerata in poche righe.
Danny, uno youtuber diciassettenne, precipita da un palazzo durante una ripresa e, in ospedale, è vampirizzato da uno strano personaggio con tesserino della polizia: il detective Laskaras. Sotto la sorveglianza del poliziotto, Danny acquisisce così i (super) poteri di un vampiro: domina i topi e i pipistrelli, è incredibilmente forte e con sensi acuiti, si può trasformare in nebbia e nugoli di pipistrelli, ha abilità ipnotiche. Ma il sole, nella miglior tradizione vampiresca, lo può distruggere.
Indossando una maschera che evoca quelle dei lottatori messicani, Danny morde e trasforma i suoi amici Amy e Sam. Orgogliosi dei poteri acquisiti come vampiri, i tre si dedicano a vincere partite di pallacanestro e ad agire come vigilantes contro i criminali, postando poi sui social le loro imprese. Peccato che una banda di motociclisti vampiri capeggiati da Gunner Joe, gigantesco ex soldato della guerra civile di 160 anni, non gradisca tanta pubblicità che può smascherare l’esistenza dei nonmorti. Con la banda c’è sorprendentemente anche Laskaras: era un poliziotto sotto copertura nei bassifondi, prima di essere morso e rapito dai motociclisti di Gunner Joe. Ora medita nascostamente vendetta e vuole distruggerli, per questo recluta nuovi vampiri “dalla parte del bene”.
Catturati dalla banda, i tre ragazzi sono nei guai. Laskaras, scoperto, viene decapitato con una spada e a loro per restare vivi è ordinato di uccidere i genitori. I tre si rifiutano di accettare quel ricatto terribile e fanno saltare in aria il covo dei vampiri, mentre Danny lotta con Gunner Joe fino a farlo disintegrare al sole. I tre ragazzi vampiri tornano a scuola, con il volto coperto per evitare il sole: spiegano agli insegnanti che dopo il covid soffrono di fotofobia. Ma anche se riprendono una vita apparentemente normale, i tre vogliono ancora sfruttare i loro poteri vampirici. Creano una loro sede ribattezzata “Night Club” e diventano ricchi come youtubers riprendendo le loro imprese. L’ultima tavola di quello che viene annunciato come “volume one” fa presagire un seguito dove i tre ragazzi vampiri non andranno più d’accordo. Sam, infatti, è geloso della storia d’amore tra Danny e Amy e recluta i bulli del quartiere per creare una sua gang personale.

La storia non brilla per originalità, anche sul piano vampiresco, dato che non sono mancati esempi di vampiri “supereroi” o giustizieri (ma almeno il fumetto non tenta le ennesime innovazioni sulle caratteristiche dei vampiri: questi sono classici succhiasangue, “come quelli del cinema” si specifica). Curiosa l’idea di una vecchia vampira incartapecorita, Bloody Mary, dalle origini misteriose e che parla una lingua sconosciuta, conservata dalla banda di motociclisti immersa nel liquido di una vasca.

Ci sarà un “volume two” del fumetto e soprattutto ci sarà la serie tv Netflix?
Nel fumetto tutti i personaggi più interessanti (in particolare i vampiri Laskaras, Gunner Joe e Bloody Mary) sono stati eliminati, quindi per un seguito restano solo i ben poco originali ragazzini supervampiri.
Della serie, attendiamo notizie. Certo il fumetto ci risparmia eccessi politically correct (solo Sam è di colore e non ci sono personaggi fluidi, omo, trans, ecc.). Se ci sarà la serie tv siamo sicuri che le cose rimarranno così, visti gli algoritmi preferiti da Netflix? Si accettano scommesse.

“DRACULA IL VAMPIRO” (1958) A FUMETTI

“Nel 1965, sul numero 32 della celebre rivista ‘Famous Monsters of Filmland’ (nata sette anni prima proprio sull’onda del successo del film Dracula il vampiro‘) è pubblicato il fumetto Horror of Dracula, scritto da Russ Jones e disegnato da Joe Orlando, che riassumeva il film in 7 pagine, basandosi sulle foto più note di Tom Edwards e sui fotogrammi originali. Così si apre il fumetto: ‘Un uomo che da otto secoli brama vendetta. Un uomo dominato da una cieca follia per il sangue! Temuto per anni dai viventi… padrone dei morti… Questo era… l’orrore di Dracula’” (dal libro Dracula il vampiro – Il capolavoro della Hammer 65 anni dopo).

Per chi segue “Vampyrismus” ecco in PDF il fumetto completo.

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DRACULA SENZA CONFINI: IL MANGA #DRCL

Dracula, il romanzo di Bram Stoker, a distanza di quasi 130 anni resta una fonte inesuribile di suggestioni e idee per l’immaginario contemporaneo. I personaggi di quel testo sono stati e sono rimaneggiati, riscritti, modificati in infinite varianti. Sorprende per fedeltà al romanzo e nello stesso tempo per innovazione radicale un manga recente, #DRCL. Uscito a puntate dal 2020 su una rivista giapponese di manga e poi riunito in volumi, è appena giunto in Giappone al terzo volume. Il primo volume è atteso in italiano per le Edizioni BD a settembre 2023.

Le copertine dei primi tre volumi.

I raffinati disegni ci accompagnano in una riscrittura apparentemente figlia del politically correct, con l’inserimento nella classica storia stokeriana di tematiche omosessuali, transessuali ed etniche. In realtà non è la solita presenza obbligata di temi e figure che gli “algoritmi” odierni impongono a sceneggiatori e scrittori (abbiamo già parlato su “Vampyrismus” di esempi a loro modo grotteschi in questo senso). In #DRCL, al contrario, tutto è estremizzato e stravolto, pur rimanendo incredibilmente aderente al testo e allo spirito del romanzo di Stoker. La scelta di proporre personaggi adolescenti come protagonisti, uniti dalla frequentazione di una scuola, è già stata utilizzata da manga e anime diverse volte, ma mai con l’estremismo dissacratore di #DRCL (con tanto di atti blasfemi in una chiesa, per esempio). Le diversità di genere non sono proposte con il mieloso perbenismo di tante serie tv americane, ma con fantasiosa crudezza, al punto da renderle mostruose.

Una tavola dal primo volume.

La vicenda è fatta di continui omaggi al libro di Stoker, anche alla lettera. L’inizio vede il tradizionale arrivo sulle coste inglesi della nave russa Demeter, con il suo carico di casse dal contenuto inquietante. Questo permette a #DRCL di incentrare l’ambientazione ottocentesca in una scuola esclusiva di Whitby, la città costiera che Stoker aveva scelto per l’approdo del vampiro. I personaggi hanno gli stessi nomi del romanzo, ma sono tutti adolescenti o giovani.

I personaggi principali

Mina Murray, con due lunghe trecce di capelli rossi, è un’esperta lottatrice di catch wrestling, goffa e sgraziata, con la passione per la scrittura. La sua amica Lucy Westenra è in realtà il maschio Luke che per uno sdoppiamento di personalità diventa donna di notte: è la prima vittima di Dracula che con i suoi morsi la fa avvizzire. Non mancano Arthur Holmwood, studente aristocratico e vigliacco, e Quincey Morris che qui è un ricco ragazzo afroamericano del Texas dedito a bullizzare Mina. Joe Suwa è il John Seward del romanzo di Stoker, qui trasformato in un giovane fotografo giapponese che vuole fare il medico. Renfield è una suora diventata devota adoratrice di Dracula e tenuta sotto contrallo da Suwa nella sua abitazione. Van Helsing, giovanotto tatuato e sfregiato, fa l’insegnante alla scuola di Whitby. E poi c’è Dracula che ha una caratteristica straordinaria e inedita: ha il controllo del mondo vegetale, oltre a quello animale ben noto. Non solo, in virtù della sua appartenenza all’Ordine del Drago ha la capacità di apparire sotto forma di drago volante (ma alle sue vittime si presenta anche come giovane ballerino dai lunghi capelli corvini).

Il morso di Dracula.

A scrivere e disegnare #DRCL è Shinichi Sakamoto, artista cinquantenne già autore tra l’altro del breve manga Dorachuu (2020), storia del vampiresco amore omosessuale tra due bambini di 10 anni. In Transilvania il giovanissimo Bloody, figlio di Dracula, fa amicizia con l’orfanello Quincey, cieco da un occhio. Bloody è perseguitato dal padre che lo considera un figlio degenere perché si ciba di frutta e beve solo il proprio sangue. Per dare energia all’amico vampiro così che possa sfuggire all’ira di Dracula, Quincey chiede di farsi vampirizzare. L’uno a disagio nel mondo dei vampiri, l’altro a disagio nel mondo degli umani, Bloody e Quincey da allora passeranno 400 anni insieme. Dorachuu, quindi, si presenta come un’anticipazione delle vicende deliranti che Sakamoto propone in #DRCL.

Il figlio di Dracula in Dorachuu.

IL VAMPIRO CON LA SCIMITARRA / 2

Le avventure di Andrej Delãny, il “vampyr” creato nel 1999 dallo scrittore tedesco Wolfgang Hohlbein, continuano dopo i primi sei volumi e si arricchiscono di numerosi episodi fino al 2017. Proseguiamo quindi il censimento della saga Die Chronik der Unsterblichen (Le cronache degli immortali), dopo la prima parte.

Andrej, Abu Dun e Frederic

I TITOLI DELLA SAGA / seconda parte

Der Gejagte (La preda, 2004)
Nel 1565 Andrej e Abu Dun da tre anni vivono a Malta, il primo è Cavaliere dell’Ordine di Malta, il secondo convive con una giovane vedova. Quando giunge notizia di un prossimo attacco turco all’isola, Jean de la Valette, Gran Maestro dei Cavalieri Ospitalieri dell’Ordine di Malta, invia Andrej e Abu Dun a Costantinopoli come spie. I due devono affrontare un potentissimo vampiro e scoprono che i turchi hanno grandi forze militari a disposizione. Tornati a Malta, dopo la morte della compagna di Abu Dun i due guerrieri lasciano l’isola alla ricerca di un rifugio più sicuro.

Die Verfluchten (La maledetta, 2005)
Andrej e Abu Dun si trovano nel deserto della Libia quando vengono rapiti da mercanti di schiavi. Tra i prigionieri fanno la conoscenza della nubiana Meruhe che in realtà da millenni è una immortale come loro ed è una dea dell’antico Egitto. Andrej si innamora di Meruhe, sconfigge i mercanti di schiavi e, nella conclusione che si svolge nella Valle dei Re, ottiene anche un ricco patrimonio.

Blutkrieg (Guerra di sangue, 2007)
Si tratta di un volume “speciale” diviso in cinque episodi. Andrej e Abu Dun sono a caccia di un lupo mannaro quando incontrano una ragazza e la accompagnano nel suo villaggio sulla costa. La popolazione è in pericolo per gli attacchi dei licantropici guerrieri Dauga che viaggiano sulla nave “Schiuma nera”. Sconfitti i Dauga, Andrej vuole riportare nella loro patria i cadaveri dei guerrieri uccisi, ma sulla nave due misteriosi corvi fanno risorgere i morti. Andrej e Abu Dun riescono a raggiungere un’isola che appare come un deserto di ghiaccio. In una caverna fanno la conoscenza del giovanissimo Lief e di sua sorella Liftrasil. Andrej è sedotto dalla ragazza, che però si rivela un ragno gigantesco. Nel combattimento, Abu Dun rimane gravemente ferito e rischia di morire. Per salvarlo Andrej chiede l’aiuto della potente strega mutaforma Gryla. Dopo aver passato una notte con Andrej e aver risanato Abu Dun, la strega spiega loro come lasciare l’isola. I due guerrieri si imbarcano su una nave vichinga e scoprono che l’equipaggio è formato da lupi mannari.

Das Dämonenschiff (La nave dei demoni, 2007)
Andrej e Abu Dun sono catturati da un gruppo di norvegesi e portati nel loro villaggio, dove assistono all’assalto da parte di feroci creature. Thure, il capo del villaggio, chiede ad Andrej di aiutare il suo popolo contro gli attacchi di Odino, il dio corvo. Andrej, che nel frattempo si è innamorato di Urd, la sorella di Thure, accetta la richiesta e con i vichinghi combatte una nave di esseri mostruosi e Sleipnir, il cavallo di Odino che è una sorta di ragno a otto zampe. Infine con una spada fatata deve affrontare Loki, il dio norreno degli inganni.

Göttersterben (La morte degli dei, 2008)
Siamo nel 1588. Nel porto di Cadice, mentre l’Armada spagnola sta per dare battaglia agli inglesi, Andrej e Abu Dun proseguono la lotta contro il dio mutaforma Loki. Indebolito da un proiettile avvelenato nella testa, Andrej deve fronteggiare i tranelli di Loki, fino a uno scontro apparentemente decisivo a bordo di una nave diretta in America.

Glut und Asche (Braci e ceneri, 2009)
Nel 1666 Andrej e Abu Dun sono a Londra a caccia di Loki che è sopravvissuto. Incontrano la dea Meruhe e un gruppo di bambini vagabondi, il cui leader dodicenne si chiama Frederic, ma non assomiglia all’omonimo partner di Andrej. Il ragazzino uccide una ragazza e fa incolpare Andrej che viene imprigionato e torturato: il suo aguzzino, Marcus, sostiene di essere un discendente di padre Domenicus. Mentre Londra è in fiamme per il celebre incendio della città, Andrej viene liberato da Abu Dun e Meruhe. Frederic è proprio l’omonimo ragazzo in un nuovo corpo, ma ormai crudele dopo l’incontro con Dracula. Andrej con l’aiuto di Abu Dun e Meruhe affronta i vampiri di Frederic che riesce a scappare. Per accrescere la sua potenza, Andrej mescola il proprio sangue con quello di Meruhe e può così affrontare Loki. In uno scontro sul London Bridge, Meruhe salva Andrej ferendo il cuore di Loki. Andrej scopre che Frederic è in realtà il suo defunto figlio Marius e nel corso della storia si apprende anche che Maria è morta e che il responsabile è Dracula.
Le avventure di questo libro sono state arricchite qualche anno dopo dal racconto lungo Seelenraub (Furto di anime, 2013) ambientato ancora a Londra nel 1666, dove Andrej e Abu Dun devono combattere i Djin e si fa riferimento anche alla spada Excalibur. Il racconto è stato pubblicato per lanciare un successivo volume, Pestmond.

Der schwarze Tod (La morte nera, 2010)
Andrej e Abu Dun sono alla ricerca di Marius/Frederic. Il ragazzo è richiuso in un manicomio su un’isola, con un fedele topo gigante. Marius non solo può possedere le persone, ma comanda i topi che usa per compiere la sua vendetta contro Andrej. Nel frattempo il cavaliere ha una storia d’amore con la bella Corinne e incontra nuovamente Meruhe. Abu Dun, dopo il morso di un topo di Marius, cerca di uccidere Andrej. Nel finale, Meruhe elimina Marius e cade in una fornace.

Der Machdi (Il Machdi, 2011)
Andrej e Abu Dun sono a Costantinopoli dove gli uomini del sultano combattono contro i seguaci del misterioso Machdi, capo di una setta che assume una potente droga per ottenere forza straordinaria. Abu Dun prova quella droga e ne diventa dipendente. Andrej e Abu Dun partono per l’Egitto con Sharif, capo dell’esercito, per eliminare il Machdi e liberare Murida, la figlia del sultano. Nel classico colpo di scena che non manca mai nei volumi della saga, Sharif si rivela il padre di Murida. Lo scopo del sultano era di utilizzare i due immortali per le sue mire di conquista. Nel corso delle avventure, Abu Dun perde una mano e Murida è ferita a morte: per salvarla, Andrej la rende una immortale. Mentre Murida diventata vampira semina vittime, Andrej e Abu Dun riescono a fuggire.

Pestmond (Pestilenza, 2013)

E’ il 1669. Abu Dun è morto per la droga del Machdi e Andrej accetta la proposta di un misterioso personaggio, Hasan as Sabah: l’uomo riporterà in vita Abu Dun se Andrej in cambio uccide Papa Clemente IX. Abu Dun risorge e con Andrej, Hasan e la figlia Ayla partono per Roma. A Jaffa, però, sono attaccati da morti viventi che mordono Andrej, contaminandone il sangue. Dopo innumerevoli vicissitudini in mare e su un’isoletta, scoprono che Hasan as Sabah è in realtà il Papa.

Nekropole (Necropoli, 2013)
Tornati a Roma, Andrej e Abu Dun (che ha sostituito la mano perduta con una protesi di ferro) trovano la città assediata dai morti viventi. Il Papa, alias Hasan, è stato rapito con Ayla e i due immortali si mettono alla sua ricerca. Raggiunta la necropoli sotto il Vaticano, combattono gli zombi che si rivelano creati da Ayla: Andrej e Abu Dun devono eliminare la ragazza.

Dunkle Tage (Giorni bui, 2017)
A Roma, Andrej e Abu Dun sono aggrediti in un’imboscata, ma gli uomini del cardinale Altieri li salvano. Come ricompensa, il cardinale vuole che i due immortali vadano in missione segreta nella città di Hamblen, dove infuria la peste. In città, Andrej e Abu Dun devono affrontare cavalieri misteriosi e creature mostruose che rapiscono i bambini. Hamblen (che ovviamente allude a Hamelin, la città del pifferaio magico secondo la fiaba) è infestata da topi aggressivi contro i quali devono battersi i due guerrieri immortali. Attualmente è l’ultimo libro della saga, senza però che contenga una conclusione. Non è escluso un seguito.

GLI IMMORTALI MULTIMEDIALI

Quasi tutti i romanzi della saga Cronache degli immortali sono stati trasformati in audiolibri (in lingua tedesca) da Egmont, Bastei Lübbe e Audible Studios.

Copertine di due edizioni degli audiolibri per Der Vampyr

I primi tre romanzi della saga hanno avuto una trasposizione a fumetti, elegante e di successo. I testi erano di Benjamin von Eckartsberg, fedele alle storie originali quasi alla lettera. Il primo episodio aveva disegni di Thomas von Kummant, mentre i due seguenti di Chaiko, con un accurato uso del colore. Le tre avventure a fumetti sono state pubblicate anche in Italia, nel 2015, da Editoriale Cosmo in tre albi: L’abisso, Il vampiro, Il colpo di grazia.

Tavole dai fumetti ispirati alle Cronache degli immortali

I personaggi delle Cronache degli immortali sono stati rielaborati per un’opera rock, Blutnacht, che ha debuttato nel gennaio 2012 al Pfalztheater di Kaiserslautern. Il gruppo progressive metal Vanden Plas, del quale Wolfgang Hohlbein è un fan, ha scritto per la messa in scena 19 canzoni. La Frontiers Records ha poi pubblicato due album con i brani dei Vanden Plas, Chronicles of the Immortals – Netherworld (Path 1) nel 2014 e Chronicles of the Immortals – Netherworld (Path 2) nel 2015.
Il libretto dell’opera rock era scritto dal cantante dei Vanden Plas, Andy Kuntz, insieme a Hohlbein e a Dieter Winkler. Lo spettacolo riproponeva vicende e personaggi delle Cronache degli immortali, mettendo in scena anche molti combattimenti con la scimitarra.

L’opera rock Blutnacht


In occasione dell’omonima opera rock, Hohlbein ha scritto con Dieter Winkler un romanzo, Blutnacht (Notte di sangue, 2012), che permette di capire i rimaneggiamenti della storia per la messa in scena a teatro. Le avventure comparse in diversi volumi della saga sono sintetizzati e modificati. Andrej Delany e Abu Dun si separano: il primo va in Transilvania sulla tomba del figlio Marius, mentre il secondo è in viaggio per Londra alla ricerca di Frederic che è diventato il capo dei bambini di strada agli ordini del dio Loki. Andrej è attaccato da un misterioso cavaliere nero ed è ferito gravemente. Compaiono la sua amata Maria e suo fratello Domenicus, l’inquisitore. Domenicus salva Andrej con un elisir, che però perde l’immortalità. La dea Meruhe propone ad Andrej di diventare un dio, ma in cambio deve rinunciare alla sua umanità e a Maria. Quando Andrei sta per accettare il patto, Abu Dun lo ferma.

Andrej e Maria in Blutnacht

IL VAMPIRO CON LA SCIMITARRA

Wolfgang Hohlbein, nato a Weimar nel 1953, è uno degli autori tedeschi di fantasy e fantastico più noti in patria, ma che vanta anche innumerevoli traduzioni in tutto il mondo (dichiara di aver venduto più di 40 milioni di copie). A lui si deve una lunga saga incentrata sul guerriero transilvano Andrej Delãny, immortale vampiro. Una ventina di titoli, per migliaia di pagine (molti volumi si aggirano tra le 500 e le 700 pagine), che si sono estesi ad altri media: l’audiolibro, il fumetto, il teatro.

Illustrazione di Peter Popken ispirata al vampiro Andrej

I vampiri sono ricorrenti nella infinita produzione di Hohlbein. Probabilmente il primo riferimento al vampirismo compare all’interno di una lunga saga, nota in Italia come “Il ciclo dello stregone”, arrivata a una sessantina di episodi, ambientata nell’universo di H.P. Lovecraft e firmata inizialmente con lo pseudonimo collettivo Robert Craven. Tra gli innumerevoli volumi della serie, infatti, c’è Die Chrono-Vampire (I cronovampiri, 1985; trad.it. All’ombra della bestia in W. Hohlbein, L’orma dello stregone, Armenia, 2008), mentre un altro romanzo in tema, singolo, è Dunkel (Buio, 1999), dove Vlad Tepes Dracula, vampiro, miete vittime nella Germania di oggi: il personaggio, però, non ha riferimento con il Draculea che comparirà nelle Cronache degli immortali. L’argomento vampiresco è anche al centro di Unheil (Malvagità, 2007; trad. it. I seguaci del vampiro, Newton Compton, 2009), con uno psicopatico serial killer definito “Il Vampiro del Reno” e un misterioso Vlad che contatta la polizia vestito da Dracula.
Nel 1999 si avvia la saga Die Chronik der Unsterblichen (Le cronache degli immortali), dove si raccontano le avventure di Andrej Delãny. Nel primo romanzo della saga non compare mai la parola “vampiro” per descrivere la condizione di Andrej e i suoi strani poteri. Solo con il secondo episodio si afferma che Andrej è un “vampyr” e il termine sarà utilizzato correntemente in tutti i libri successivi.
I vampiri delle Cronache hanno caratteristiche precise: bere sangue di altri vampiri dà loro una forza straordinaria; con i loro sensi acuti possono percepire la presenza di altri vampiri; possono assorbire energia dalle loro vittime anche senza morso.
La saga presenta “luoghi comuni” ripetuti sostanzialmente in ogni libro: un continuo susseguirsi di descrizioni dei combattimenti tra i due eroi della serie e i loro avversari; un momento quasi immancabile in cui Andrej è catturato e torturato; la lotta dello stesso Andrej contro i suoi istinti vampireschi e la sua ostinazione nel negare sempre l’esistenza dei vampiri; infine un cliffhanger in chiusura dei volumi per preannunciare il libro successivo.

Solo i primi tre volumi della saga sono stati tradotti in italiano.

Dal fumetto Il vampiro

I TITOLI DELLA SAGA / prima parte

Am Abgrund (Nell’abisso, 1999; trad. it. Nell’abisso, Editrice Nord, 2005, poi ristampato per Tea con il titolo Il sangue del cavaliere)
XV secolo. Andrej Delãny dopo un lungo esilio torna a Borsã, il suo villaggio della Transilvania. Gli abitanti sono stati sterminati o deportati dall’esercito dell’inquisitore Domenicus e tra le vittime c’è anche Marius, il giovanissimo figlio di Andrej. L’unico scampato è Frederic, un ragazzino amico di Marius. Con lui Andrej parte nella speranza di salvare i prigionieri, e giunge nella città portuale di Costanza. Nel corso del viaggio i due sono aggrediti, ma Andrej guarisce quasi istantaneamente da ogni ferita o ustione. A poco a poco sarà evidente che si tratta di un immortale, con capacità straordinarie sin dall’infanzia: proprio quelle sue inquietanti stranezze avevano provocato il suo allontanamento da Borsã. In città Andrej si innamora di una ragazza misteriosa, Maria, ma scopre che è la sorella dell’inquisitore Domenicus. Durante uno scontro con gli uomini dell’inquisitore, Frederic ferisce gravemente Domenicus, provocando la disperazione di Maria. Dopo un tentativo di fuga, Andrej è catturato dal duca di Costanza. Mentre Andrej è prigioniero, il cavaliere Malthus gli dice di essere un immortale come lui. Dopo che gli ha spiegato come si può uccidere uno di loro, Malthus affronta Andrej in un duello violento, vinto da quest’ultimo. Bevendo il sangue della sua vittima Andrej si rinvigorisce e fugge. Il duca è ucciso da Frederic, che si rivela a sua volta un immortale. Andrej ha appreso che i superstiti di Borsã sono prigionieri sulla nave del mercante di schiavi africano, il gigantesco Abu Dun: con il ragazzino, Andrej decide di inseguire lo schiavista.

Der Vampyr (Il vampiro, 2000; trad. it. Il principe Vlad, Editrice Nord 2006)
Andrej e Frederic giungono a bordo della nave di Abu Dun che sta risalendo il Danubio. Un vascello nero, comandato da un cavaliere che indossa un’armatura rosso sangue irta di punte, dà alle fiamme la nave: soltanto Andrej, Frederic e Abu Dun riescono a salvarsi. A terra, si trovano coinvolti nella guerra tra i soldati turchi e gli uomini del cavaliere rosso, il principe Vlad Tepes, detto Dracula. Catturati dal principe, apprendono che Domenicus e Maria sono suoi ospiti e chiedono che Andrej sia consegnato a loro. Per lasciarli scappare, il principe chiede ad Andrej e Abu Dun di uccidere il sultano. I due accettano, aiutati da Vlad, una guardia del principe. Ma Vlad propone ai due guerrieri di eliminare il principe, a suo parere diventato un mostro. E’ una trappola: Vlad in realtà è proprio il principe Dracula che ha come scopo di ottenere l’immortalità dai vampiri. Dracula fa decapitare Domenicus, sevizia Maria, ma è ucciso dai turchi. Il suo spirito si impadronisce di Frederic che ora è spietato e assetato di sangue: “Cos’avevano creato?” è la domanda che chiude il libro.

Copertine dell’edizione francese e di quella italiana per Der Vampyr

Der Todesstoß (Il colpo di grazia, 2001; trad. it. Il rogo dell’inquisitore, Editrice Nord 2006)
Dieci anni dopo la precedente avventura, Andrej sta attraversando l’Europa con Abu Dun per ritrovare Maria. In un villaggio della Baviera salvano una ragazza dal rogo degli inquisitori e Andrej capisce che è come lui, una vampira. La ragazza, però, soffre di una grave febbre e muore, dopo aver rivelato che la Puuri Dan, un’anziana donna cieca, conosce il segreto degli Immortali. Andrej scopre così che i vampiri possono essere uccisi da una malattia. Andrej e Abu Dun giungono al villaggio di Trentklamm, dove sgominano i lupi mannari che infestano il paese.

Der Untergang (La caduta, 2002)
Un anno dopo, Andrej e Abu Dun stanno ancora cercando la Puuri Dan. La trovano nella Germania centrale, ma non ha nulla da rivelare. Sua figlia, Elena, è a capo di una covata diabolica e viene uccisa da Andrej. Abu Dun è trasformato in vampiro e continua il viaggio con Andrej.

Die Wiederkehr (Il ritorno, 2003)
Vienna, 1529. Sono passati molti anni dall’ultima avventura. Andrej e Abu Dun arrivano nella città per trovare una spiegazione alla loro condizione di vampiri, ma si trovano coinvolti nell’assedio da parte dei turchi. Difendono Vienna e apprendono che altri vampiri stanno mietendo vittime. I due si scontrano con i turchi e i vampiri, tra i quali trovano Frederic, sempre posseduto dallo spirito di Dracula, ma Andrej non ha la forza di ucciderlo.

Die Blutgräfin (La Contessa Sanguinaria, 2004)
Ancora nel 1529. Alla ricerca della scomparsa Maria e di notizie sull’origine dei vampiri, Andrej e Abu Dun giungono in un piccolo villaggio ungherese, dove avvengono orribili omicidi. Si dice che la responsabile sia una donna misteriosa, chiamata “La Contessa Sanguinaria”. Un incantesimo fa credere ad Andrej che la contessa sia la sua amata Maria, ma è solo un’illusione.

(continua)

VAMPIRI SERIALI E MULTIMEDIALI

C’è una parentela forte tra il vampirismo e una particolare forma di comunicazione e narrazione: la serialità.
“Ripetizione seriale e fascino reiterato sul pubblico-spettatore affratellano il vampiro e il serial”. Così scrivevo nell’ormai lontano 1985 in Il libro dei vampiri (Dedalo). E aggiungevo questi elementi: “La reiterazione degli eventi, tuttavia sempre differenti nella loro evoluzione, è tipica della serialità, dai romanzi d’appendice ai serial del cinema degli anni Dieci (come Les Vampires di Louis Feuillade, del 1915), ai telefilm. Tutte le puntate sono in fondo uguali a se stesse, ma le somiglianze tra le puntate sono rese irriconoscibili da mille espedienti e mascherature. ll colpo di scena è sulle prime inaspettato, poi, alla decima puntata è facilmente prevedibile. Eppure ciò non diminuisce il rapimento dello spettatore. Il serial, infatti, può essere ricondotto a un’altra delle fonti narrative del vampiro, la fiaba. Il bambino ascolta la stessa fiaba innumerevoli volte, e innumerevoli volte la richiede, anche se sa a memoria come va a finire. Ogni volta la fiaba riacquista il sapore del nuovo, e il bambino non si stanca di ascoltarla. (…) Questo fascino della ripetizione è stato ben capito dagli astuti manager della casa produttrice Hammer, negli anni Sessanta. La loro interminabile serie di film dell`orrore aveva delle costanti nelle trame e negli stessi protagonisti che anticipavano, su un piano artigianale ed eminentemente cinematografico, il perfezionarsi del serial televisivo”.

Les Vampires

E ancora: “ll seriale, tra l’altro, sembra adatto al vampiro anche nella letteratura. Le «puntate››, che ritornano periodicamente ad affascinare il lettore o lo spettatore (e il lettore o lo spettatore non può fare a meno di seguire la reiterazione delle vicende) sono molto analoghe ai vampiri che ogni notte si abbeverano al collo della vittima. ll romanzo d’appendice, antenato cartaceo del telefilm, inaugura un meccanismo narrativo e produttivo dalla lunga vita. Già nel 1847 la giovane editoria «commerciale» utilizza il vampiro come personaggio base di un lungo feuilletton, Varney the Vampyre“.

Varney the Vampyre; or, the Feast of Blood.

Questa lunga autocitazione mi serve per indicare le ragioni dei prossimi post di “Vampyrismus”, dedicati ad alcune saghe sui vampiri. Saghe multimediali, quasi sempre diffuse su più mass media. Saghe che partono spesso dalla narrativa o dal fumetto e approdano al cinema, alla tv, al palcoscenico, ecc. Il primo appuntamento sarà con Le cronache degli immortali, saga creata da Wolfgang Hohlbein.

VAMPIRI ARRUOLATI PER LA GUERRA

In Ucraina sono arrivati i Vampiri. Si tratta di un nuovo sistema antiaereo, inviato dagli Usa, per abbattere i droni.
Denominato V.A.M.P.I.R.E., acronimo di Vehicle-Agnostic Modular Palletized Isr Rocket Equipment, è un lanciarazzi portatile a quattro canne, installabile sul retro di un pick-up. L’azienda americana di armamenti L3Harris lo pubblicizza nella sua brochure come una normale merce da supermercato: “Il sistema VAMPIRE offre una soluzione efficace e a basso prezzo per il dispiegamento di armi”.

L’articolo di “Wired” che annunciava la fornitura di lanciarazzi VAMPIRE all’Ucraina

Non è la prima volta che i “vampiri” sono arruolati in una guerra, o meglio che il termine “vampiri” è utilizzato in chiave bellica. Nel 1944 era stato prodotto il de Havilland DH.100 Vampire, un jet da combattimento britannico. Negli anni successivi è stato acquistato da diversi stati.

I jet da combattimento Vampire in dotazione a varie nazioni

I missili usati dal V.A.M.P.I.R.E. costano “solo” 27mila dollari l’uno. Una cifra estremamente bassa, secondo “Wired”, se paragonata ad altri missili simili in dotazione del Regno Unito che costano 1,5 milioni di dollari l’uno: la differenza è che il V.A.M.P.I.R.E. non è ad alta tecnologia, spara missili di vecchia generazione a guida tradizionale.
Per tentare di abbattere droni da pochi dollari si useranno missili da 27mila dollari ciascuno che potrebbero facilmente mancare il bersaglio. Di certo, quindi, ogni lancio di razzi V.A.M.P.I.R.E. “vampirizza” le casse statali, a scapito di altre spese “pacifiche”. I vampiri sono sempre insidiosi!

CARMILLA A FUMETTI politicamente correttissima…

Continua la nostra indagine sui vampiri recenti piegati alle esigenze del politically correct. E’ da poco uscito il volume Carmilla – The First Vampire di Amy Chu e Soo Lee, graphic novel politicamente corretta, anzi correttissima. Il testo di partenza, il racconto di Sheridan Le Fanu, si prestava a una divagazione centrata sull’omosessualità. Qui si aggiungono temi dell’agenda “progressista” americana, con tanto di “We Care” appeso ai muri, personaggi multietnici e cultura cinoamericana. Alla fine, però, si torna dalle parti di Buffy l’ammazzavampiri, con la protagonista che si scopre erede di una famiglia di cacciatori di vampiri.

In un altro momento storico, che non fosse quello attuale dove si tenta di imporre un pensiero unico e indottrinare con teorie gender di vario tipo, l’operazione Carmilla – The First Vampire poteva anche sembrare curiosa e interessante. Oggi, pare un semplice tassello del nuovo immaginario che Disney e company vogliono imporre. Lo rivela, maldestramente, la quarta di copertina, dove si legge: “Nel 1996, una assistente sociale idealista cinese-americana si trasforma in detective quando scopre che giovani donne LGBTQ+ senzatetto sono assassinate e nessuno – soprattutto la polizia – sembra preoccuparsene”. Ecco, inserire la sigla LGBTQ+ per descrivere una storia ambientata nel 1996, quando quella sigla non esisteva (e le donne vampirizzate nel fumetto sono esclusivamente omosessuali), svela l’operazione di marketing politicamente corretta ed eticamente sleale: forzare la mano per stare “al passo coi tempi” e piegare l’immaginario gotico alle esigenze del nuovo pensiero unico. Per la cronaca, proprio nel 1996 in ristrette cerchie si cominciò a usare l’acronimo LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender), solo successivamente con l’aggiunta di Q (Queer), I (Intersex), A (Asessuali) e + (per tutte le altre identità). Sottigliezze?

UN ALTRO PALETTO “POLITICAMENTE CORRETTO” CONTRO I VAMPIRI

Come preannunciato dalla serie First Kill e dal film The Invitation, un’altra strage di vampiri in nome del politically correct si è realizzata con la serie tv Interview with the Vampire, appena uscita nelle prime due puntate. Solo che questa volta a farne le spese sono i gloriosi vampiri creati da Anne Rice, e celebrati dal film di Neil Jordan del 1994.
In virtù del nuovo corso “inclusivo” della serialità televisiva statunitense (e del cinema di Hollywood) cosa c’era di meglio di una trasformazione in afroamericano di Louis, il personaggio interpretato sul grande schermo da Brad Pitt? E cosa di meglio che inscenare sodomie virtuali, oltre che baci e morsi, tra i due protagonisti principali?

I due attori che incarnano Louis e Lestat sembrano usciti dalla serie tv a tema “vampiri gay” The Lair (2007–2009) o dal film Vampire Boys, che almeno avevano l’alibi dell’ingenuità e del basso budget. Non è per altro nuova la colorazione gay del vampirismo, del resto presente nel mito dei succhiasangue fin dall’Ottocento. Ora però si assiste a una banalizzazione senza precedenti, che rende palese quello che era insinuato o ambiguo. Si cerca il consenso di un settore specifico di pubblico, utilizzando spregiudicatamente vari luoghi comuni.
La bellezza formale di alcune scene (comunque ormai consueta nelle serie tv d’oltreoceano che possono disporre di finanziamenti adeguati) si scontra con l’inefficacia della sceneggiatura. Il primo episodio, della interminabile durata di un’ora e 11 minuti, è infarcito di sequenze inutili, per tratteggiare la vita privata di una famiglia di ricchi afroamericani nei primi anni del Novecento. Con un sol colpo si presume di attrarre il pubblico, appunto, afroamericano e Lgbtq.
Il pezzo forte della prima puntata dovrebbe essere l’iniziazione di Louis, con tanto di nudo integrale e simulazione di una sodomia in assenza di gravità: probabilmente si cercava un espediente “poetico” per unire omosessualità maschile e morsi vampirici, condito da musiche orchestrali da soap opera. Anche la scena iconoclasta in chiesa (chissà cosa ne avrebbe pensato la Rice, fanatica religiosa negli anni precedenti alla scomparsa) non decolla, a parte un divertente momento splatter.

Il mascellone biondo che interpreta Lestat (l’attore australiano Sam Reid) non si avvicina minimamente per perfidia e fattezze a Tom Cruise nel film di Jordan. Jacob Anderson nella parte di Louis, viceversa, si esibisce in una serie di smorfie ridicole durante la vampirizzazione come mai visto prima nemmeno nei film vampireschi in forma di commedia.
Aggiungiamo, infine, che il furore del politicamente corretto impone anche una Claudia, la bambina vampiro che resta tra le ideazioni immortali della Rice, a sua volta afroamericana (e non bambina, ma adolescente), come preannunciano i preview delle puntate successive. Se qualcuno avesse ancora dei dubbi, confermo: sì, questa è una stroncatura senza appello della prima puntata e delle anticipazioni del prosieguo di Interview with the Vampire versione tv. La follia del politicamente corretto ormai non ha più limiti e tenta di fagocitare ogni espressione della cultura e dell’immaginario, con risultati grotteschi.

Le smorfie di Louis vampirizzato
Lestat e Claudia nella serie tv Interview with the Vampire

50 SFUMATURE DI DRACULA

Il politically correct continua a far strage di vampiri. Dopo First Kill, ecco The Invitation diretto da Jessica M. Thompson, con Nathalie Emmanuel e Thomas Doherty nei due ruoli principali, appena uscito in Blu-ray e Dvd dopo una rapida ma lucrosa uscita sui grandi schermi (non in Italia).

Il best seller 50 sfumature di grigio ha imposto un cliché: la bella ragazza di modeste condizioni economiche che si innamora di un seducente e ricchissimo giovanotto, per poi scoprirne il lato oscuro. Ecco che il cliché viene utilizzato per una moderna vicenda in cui Dracula (ribattezzato stokerianamente De Ville, uno pseudonimo del vampiro nel romanzo) si trova al posto di Mister Grey.

The Invitation poteva essere un gioiello del gotico vampiresco, grazie alle sontuose atmosfere stile Hammer nel maniero dove si ambienta la vicenda, grazie alla violenza di alcune immagini e alle famiglie di umani al servizio dei vampiri che cenano celati da maschere evocando The Kiss of the Vampire (Il mistero del castello, 1963). Non mancano le citazioni da Bram Stoker (due anziani Jonathan Harker e Mina Murray, le tre spose di Dracula, Carfax, ecc.) e si assiste anche a una singolare vampirizzazione alla caviglia…


Spicca poi il Dracula dell’occasione, l’attore scozzese Thomas Doherty. Già interprete del vampiro Sebastian in 10 episodi della serie The Legacies (oltre a una piccola apparizione nella serie tv Dracula del 2013), ha qualcosa che a tratti ricorda l’indimenticabile Udo Kier in Dracula cerca sangue di vergine… (1974). La sua fisionomia particolare batte quella di Claes Bang nella miniserie Dracula del 2020.

Thomas Doherty vampiro in “The Legacies” e “The Invitation”

Questo potenziale gioiello è rovinato irreparabilmente dall’imposizione delle nuove regole ispirate al politicamente corretto. 50 sfumature di grigio era persino più audace, inscenando una complicità tra la donna vittima e l’uomo perverso. Qui invece la protagonista (che ovviamente non è “bianca”) non ha mai un cedimento alle “perversioni” di Dracula e la regista (australiana e bianchissima) aggiunge un frettoloso finale pseudofemminista con due donne, nere, amicissime ed entrambe disgustate dai maschi, che agiscono insieme come novelle ammazzavampiri. Il piatto politically correct è servito.

Il matrimonio di Dracula in “The Invitation”


VAMPIRI RECLUTATI PER IL POLITICALLY CORRECT

Anche i vampiri, loro malgrado, sono stati reclutati nella campagna ideologica delle major dell’intrattenimento per diventare testimonial del politically correct, in particolare della “inclusività”. Ecco, infatti, arrivare sugli schermi la serie televisiva Netflix dal titolo First Kill, in 8 puntate.

Tratta da un racconto della scrittrice per bambini e adolescenti Victoria Schwab (nell’antologia Vampires Never Get Old: Tales With Fresh Bite, 2020), la serie è stata lanciata puntando sul legame lesbico delle due protagoniste principali, la giovane vampira Juliette (Sarah Catherine Hook) e la cacciatrice di mostri Calliope (Imani Lewis). Nell’immaginaria cittadina degli Stati Uniti dove si ambienta la storia (popolata in passato da mostri) le due ragazzine non fanno scandalo per la propria omosessualità, ma perché appartengono a due famiglie rivali, i vampiri “originari” Fairmont e i cacciatori di mostri Burns.

Tra baci omosessuali a ripetizione, ogni dettaglio è studiato per veicolare una presunta “inclusività”: Juliette è bianca, Calliope nera, il miglior amico di Juliette è un nero gay, i “buoni” nemici dei mostri sono tutti neri e afroamericani, mentre i “cattivi” vampiri sono tutti bianchi e ricchissimi.
I vampiri dell’immaginario non avevano bisogno di First Kill per essere trasgressivi, basti pensare al lesbismo presente già nel lontano 1936 in Dracula’s Daughter. Ma in questa serie del Terzo Millennio non c’è più trasgressione, bensì conformismo nel proporre l’omosessualità come nuova normalità per indottrinare le giovani generazioni ai valori aggiornati della correttezza politica.

Il titolo, First Kill, allude alla prima uccisione (di un umano o di un vampiro) che le due protagoniste non hanno ancora compiuto. Così il tema della “prima volta” che dovrebbe turbare i teenager è spostato dalla sessualità all’omicidio.
A una sceneggiatura che ricorda gli autori cialtroni inventati dalla serie nostrana Boris (o che pare a volte una parodia di Beautiful) si aggiungono effetti speciali in CGI quanto meno rozzi (tra ghoul, zombi e mostri giganti vari), una sigla iniziale tra le più brutte nella storia delle serie tv, allusioni a Shakespeare paradossali e il tema dell’amore impossibile tra vampiri e cacciatori di vampiri stravisto.
Inevitabile il riferimento a Buffy l’ammazzavampiri, una serie che First Kill tenta di saccheggiare con l’ambientazione in una cittadina infestata da mostri e nella messa in scena di problematiche adolescenziali. Ma il confronto è impietoso e fa rilucere Buffy oltre ogni lode già espressa. Così come capolavori a confronto di First Kill appaiono le serie gemelle The Vampire Diaries e The Originals.

Tuttavia, come sempre avviene quando si tratta di vampiri, qualche elemento interessante non manca, dall’algida vampira borghese madre di Juliette interpretata da Elizabeth Mitchell (specialista di presenze in serie tv, compresa Lost) alla reiterata bevuta di sangue a tre (due vampiri che succhiano contemporaneamente dalle braccia di una sola vittima). E ci sono situazioni talmente grottesche da risultare spassose, come la scena in cui il padre di Juliette divora letteralmente in un boccone la suocera arcivampira.

NOSFERATU: il libro del centenario

Da non perdere il libro Nosferatu. Il capolavoro di F. W. Murnau un secolo dopo di Fabio Giovannini per sapere tutto sul film del 1922 e sulla sua disseminazione nell’immaginario. Un grande libro illustrato di 400 pagine, in edizione fuori commercio a tiratura limitata solo per fan e collezionisti.

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PANDEMIA DI VAMPIRI A FUMETTI /6: Tutti a caccia di Rakosi

Nel 2016 “Zagor” ospita ancora un’avventura vampiresca in tre parti, con disegni di Raffele Della Monica, sceneggiatura di Jacopo Rauch e copertine di Alessandro Piccinelli. I due padri di Zagor, Sergio Bonelli e Gallieno Ferri, sono morti entrambi, il primo nel 2011, il secondo nel 2016. Ma la nuova leva di autori e disegnatori ne prosegue le orme, riproponendo il loro personaggio vampiresco per eccellenza, Bela Rakosi.
Spiega Jacopo Rauch: “La voglia era quella di riportare in scena Rakosi. Adesso siamo alla vigilia dello scontro finale nei Carpazi, patria di Rakosi e di tanti illustri vampiri, suoi predecessori in letteratura e non. Si tratta di un’idea che ho sempre desiderato realizzare e che ho sempre avuto in mente in forma vaga. Mi sono messo a pensare a come lavorarci in concreto e l’ho sviluppata” (intervista a Rauch, cit.).

L’avventura si apre nei Carpazi ungheresi, dove Ferguson, fedele commilitone del capitano Wallace, si sta recando in carrozza a Borgo Nero, dove si trovano le rovine del castello di Ylenia Varga. (n. 667, Vampiri! ) Il luogo è infestato dai vampiri e uno di loro rivela a Ferguson che la contessa sta tornando in America. Ferguson, deciso a vendicare Wallace, si prepara a darle la caccia. Qualche tempo dopo, Zagor riceve una lettera del dottor Metrevelic che gli chiede di raggiungerlo in un villaggio sui Monti Superstizione, vicino alla zona dove era sparito il barone Rakosi (vedi albo n. 450). Il vampiro apparentemente era stato distrutto dalle fiamme, ma apprendiamo che qualcuno vide un’ombra scura levarsi in volo dal tetto avvolto dal fumo e del barone si trovarono solo i vestiti carbonizzati. Insieme a Metrevelic, Zagor deve di nuovo combattere contro i non-morti che assediano un villaggio.
Nel frattempo, in una bara a bordo di una carrozza guidata da uno zingaro arriva Ylenia, tornata in America per distruggere Rakosi.

L’albo successivo (n. 668, In cerca di Rakosi) si apre con un flashback, ambientato molti mesi prima in Francia. Un ufficiale ussaro e suo fratello Jacques si imbattono, nelle Ardenne, in un gruppo di vampiri, sgominati dal provvidenziale intervento di Ferguson. Sarà Jacques a seguire Ferguson in America, sulle tracce di Ylenia Varga. Finito il flashback, si torna sui Monti Superstizione, dove Chico, Metrevelic e un dottore locale, Spencer, sono rapiti da un vecchio paralitico, intenzionato a ottenere la guarigione e la vita eterna dai vampiri. Intanto Zagor è aggredito da succhiasangue, ma è salvato dall’arrivo di Ylenia. I due si alleano per eliminare Rakosi e liberano i rapiti. Grazie al legame telepatico con il barone, Ylenia ha scoperto che è nascosto in una grotta nei dintorni. Inoltre, Ylenia sa che in America è giunto anche Kurt Svatek, capitano dei crudeli ussari “testa di morto”, un nobile dell’esercito prussiano vampirizzato in passato da Rakosi. (n. 669, Gli ussari della morte) Ora Svatek vuole ritrovare Rakosi per assorbirne i poteri e diventare un arcivampiro: al suo servizio ci sono degli zingari che diffondono il contagio con boccette di sangue vampiresco. Gli ussari sono sconfitti da Zagor con la collaborazione di Ferguson, che rinuncia a uccidere Ylenia. Prima di morire, Svatek trafigge Ylenia con un paletto, ma Zagor la mette in salvo, evitando che sia incenerita dall’alba imminente. Nell’ultima pagina dell’avventura, sotto l’intestazione “Epilogo”, il barone Rakosi è in fuga nella sua bara, a bordo di un carro. Era rimasto imprigionato nella grotta da una frana, ma ora è libero e proclama: “Sono ancora il principe della notte… e sono tornato!”

Per assistere al ritorno di Rakosi (e dei vampiri sulle pagine di “Zagor”) bisognerà attendere cinque anni, fino al 2021. In realtà, in questa storia di “Zagor”, il barone vampiro di fatto è assente, è una presenza citata ripetutamente, ma quasi mai visibile. Il racconto si perde in diverse sottotrame che spesso confondono il lettore. I vampiri di “Zagor” tendono ad assomigliare sempre più a quelli di “Dampyr”, orribili e feroci, mentre solo il personaggio di Ylenia Varga mantiene una sua originalità e una sua forza.

VAMPIRI D’EUROPA: tre film del 2021

Il cinema di vampiri è stato dato spesso per morto. Inflazionato, demitizzato, ridicolizzato, il vampiro cinematografico rivela viceversa infinite sorprese. Anche in questo 2021 pandemico, la figura del vampiro si dimostra capace di suscitare ispirazioni artistiche originali e innovative, senza confini geografici. Da diverse parti d’Europa, infatti, provengono tre film recentissimi che sono la dimostrazione più piena delle potenzialità del mito vampirico, anche nel Terzo Millennio.

Un piccolo gioiello arriva innanzitutto dai Paesi Baschi con Ilargi Guztiak (letteralmente Tutte le lune, noto anche come Todas la lunas e All the Moons) di Igor Legarreta.
Alla fine dell’Ottocento un’orfana (la bravissima Haizea Carneros) resta sepolta tra le macerie di una chiesa. A salvarla sarà una misteriosa sconosciuta. “Come mi hai guarita?”, chiede la bimba. “Con un bacio”, è l’allusiva risposta.
Da quel momento seguiamo i tormenti di una bambina che scopre la sua condizione di vampira e trova serenità solo grazie a un uomo che la accoglie come una figlia. La incontreremo poi nel 1936, immutata, tra i bombardamenti della Guerra di Spagna, dove ritrova la sua madre/vampira e la incenerisce alla luce del sole.
Poetico e magistralmente lento, il film si avvale di panorami incantati e di oniriche riprese subacquee. Il titolo allude a tutte le lune che la bambina vedrà nella sua immortalità di vampira.
La relazione tra la bambina vampiro e un ragazzino (che ritroverà morente tanti anni dopo) evoca
Lasciami entrare, mentre il tema della bambina vampirizzata e imprigionata per sempre in un corpo infantile ricorda la piccola Claudia, inventata da Anne Rice per Intervista col vampiro.

In Irlanda, Chris Baugh ha diretto Boys From County Hell, un film al confine tra commedia e horror, una sorta di Un lupo mannaro americano a Londra girato non dagli americani, ma dagli “indigeni”.
In atmosfera folk horror, tutto ruota attorno a un tumulo nella campagna irlandese che ospita una creatura scheletrica assetata di sangue. Amici e parenti di ambiente contadino si trovano così a fronteggiare il contagio sparso dal mostro, tra sangue a fiumi e ironia. Per rendersi conto degli aspetti volutamente demenziali del film, basti dire che il vampiro finirà impalato dall’osso di una gamba appena mozzata.
L’ambientazione rurale si rivela interessante e non mancano le strizzate d’occhio per appassionati: il pub del villaggio si chiama “The Stoker” e l’insegna mostra un Dracula con canini e un Jonathan Harker impegnato a scrivere a lume di candela.

Dalla Germania giunge invece una grossa produzione veicolata da Netflix, Blood Red Sky di Peter Thorwarth. L’azione si svolge quasi interamente a bordo di un aereo di linea, dove tra i passeggeri si trovano una giovane madre con il figlioletto. La donna (Peri Baumeister) nasconde un segreto: è una vampira, resa tale in una violenta situazione mostrata in un flashback. Quando una banda di criminali prende possesso dell’aereo in volo, la vampira combatte contro i delinquenti, uccidendoli uno a uno.
I suoi morsi, però, trasformano immediatamente le vittime in vampiri e presto l’aereo è infestato di succhiasangue. Un finale pirotecnico vedrà eliminata tutta la genia vampiresca.
I vampiri, orrendi e mostruosi, sono in stile 30 giorni di buio e la protagonista è una sorta di Nosferatu che si trasforma quando ha sete di sangue.
Variazione splatter sul tema dell’aereo dirottato, il film ha un buon ritmo nonostante la lunga durata (oltre due ore).

PANDEMIA DI VAMPIRI A FUMETTI /5: Il ritorno di Ylenia

La contessa vampira Ylenia Varga si dimostra un personaggio su cui la casa editrice Bonelli punta molto. Eccola di nuovo, infatti, nella primavera del 2009 in una ulteriore avventura di Zagor in tre parti, sempre con i disegni di Raffele Della Monica, ma con un cambio della guardia ai testi. Ora la sceneggiatura passa a Jacopo Rauch che di sua iniziativa propose il ritorno della vampira al curatore di “Zagor”, Moreno Burattini: “I vampiri sono uno di quegli argomenti di cui volevo scrivere, essendone appassionato, così inizialmente mi sono messo a pensare a come poter coinvolgere Ylenia in una possibile storia. Ne è venuta fuori Le nere ali della notte. Naturalmente, prima di utilizzare un personaggio di Boselli bisognava chiedere a lui il permesso: mi è stato accordato” (intervista a Rauch di Marco Gremignai, magazine.ubcfumetti.com, 9 Luglio 2019).
Le copertine, come sempre, sono di Gallieno Ferri, il pioniere del vampirismo zagoriano.

In continuità con la precedente avventura vampiresca di Zagor ritroviamo il capitano Alec Wallace (“Zagor” n. 576, Le nere ali della notte). Dopo essere stato in balìa della vampira Ylenia Varga, Wallace ha passato un periodo in Scozia per riprendersi, ma è rimasto innamorato della fascinosa donna dai capelli rossi. Ylenia ha bevuto il suo sangue da una ferita, senza vampirizzarlo, ma ora lo tiene legato a sé anche telepaticamente. Il capitano, a bordo della fregata britannica Glory, sta dando la caccia al pirata e mercante di schiavi Le Loup. Zagor e Chico si uniscono a lui.

Ylenia, intanto, guida una banda di briganti da lei vampirizzati nelle paludi della Louisiana e si allea con Le Loup (n. 577, Ylenia, la vampira).
Wallace è tormentato da sogni in cui Ylenia gli ricorda il loro legame e durante un assalto dei non-morti viene rapito dalla vampira. Quest’ultima gli confida di essere sopravvissuta dopo l’abbandono sulla nave alla deriva (nel n. 481 di “Zagor”) cadendo in catalessi, come fanno i vampiri “quando non possono nutrirsi”, per poi essere salvata da un mercantile messicano. Mentre i suoi schiavi attaccano gli inglesi, Ylenia è tradita da Le Loup e si ritrova imprigionata con Wallace e incatenata sulla nave del filibustiere (n. 578, I contrabbandieri della laguna). In cambio della libertà, Ylenia deve recuperare per Le Loup un tesoro dei conquistadores, ma Zagor riesce a sconfiggere il pirata. Prima di essere sconfitto, però, Le Loup spara a Wallace: Ylenia vorrebbe salvarlo vampirizzandolo, ma il capitano rifiuta e muore.

Rauch perfeziona in questa storia l’universo vampiresco di “Zagor”.
In particolare, con una serie di flashback, fornisce ulteriori dettagli sul rapporto tra il capitano Wallace, il suo antenato Alex e Ylenia Varga. Wallace prova tenerezza e compassione per Ylenia, riconoscente per non averlo reso un vampiro grazie a “quella scintilla di umanità che ancora ti porti dentro”. Inoltre Rauch inserisce un paio di personaggi particolari, Chien Noir e Mary-Cat, due non morti al servizio di Ylenia, presto eliminati da Zagor.

PANDEMIA DI VAMPIRI A FUMETTI /4: Ylenia diventa dea

Ylenia Varga, la vampira creata da Mauro Boselli, agli inizi del nuovo millennio si afferma come personaggio ricorrente nella serie “Zagor” e sostituisce momentaneamente l’arcivampiro Bela Rakosi. Nella primavera del 2001, infatti, Ylenia torna in una breve avventura in due albi (che si prolungherà però qualche mese dopo), ancora con testi di Mauro Boselli, disegni di Raffaele Della Monica e copertine di Gallieno Ferri.

Nel Mar dei Caraibi agisce Van Zant, il capitano della Black Ivory, una nave che trasporta schiavi (“Zagor” n. 480, La nave nera). Una misteriosa donna velata, dopo aver liberato gli schiavi, fa visita con la sua “dama di compagnia”, la bionda Elspeth, al capitano Van Zant, chiedendogli un passaggio sulla nave. In realtà si tratta della contessa Ylenia Varga e la vampira morde subito il capitano, trasformando in non-morti tutta la sua ciurma.
Una nave della marina inglese comandata dal capitano Alec Wallace dà la caccia alla Black Ivory e trova un vascello pieno di vittime dei vampiri: i marinai di origine greca li chiamano “vrykolak”, quelli di origine russa “upyr”.

Zagor e Cico, dopo un ammutinamento sulla nave su cui viaggiavano, sono naufragati nell’isola caraibica di Ninguén (n. 481, La dea della luna) e fanno una scoperta incredibile: sull’isola Ylenia è diventata regina di una tribù di cannibali che la considera Dea della Luna.
Insieme agli inglesi, Zagor vuole distruggere Ylenia e Elspeth, ma la vampira ipnotizza Wallace e Cico. Le sue attenzioni si concentrano proprio sul capitano, discendente del suo fidanzato ucciso secoli prima da Bela Rakosi (vedi albo n. 189). Alec Wallace è identico al suo antenato e Ylenia vuole farne il suo sposo. Mentre Zagor e i marinai inglesi eliminano gli altri vampiri, i cannibali si ribellano a Ylenia, convinti ora che sia un demone, e la incatenano insieme a Elspeth, esponendole alla luce dell’alba. Elspeth resta incenerita dal sole, ma Ylenia è salvata all’ultimo momento dall’arrivo di Zagor con gli inglesi. La vampira tenta la fuga con Wallace, a bordo della Nave Nera. Zagor però riesce a mettere in salvo il capitano, lasciando Ylenia alla deriva sulla nave.

PANDEMIA DI VAMPIRI A FUMETTI /3: Arriva la vampira Ylenia

Dopo la seconda avventura di Zagor contro il barone Bela Rakosi, passano molti anni prima che i vampiri tornino nelle storie dello “spirito con la scure”. Nel frattempo i vampiri sono però apparsi a intermittenza in altre testate della Sergio Bonelli Editore e ce ne occuperemo in seguito. Soprattutto è nato Dylan Dog che con il suo successo aumenta il tasso di horror in tutti i fumetti della Bonelli. Nell’agosto 1998 ecco quindi che i vampiri tornano anche su “Zagor”, con tre albi su testi di Mauro Boselli (in procinto di diventare uno degli artefici di “Dampyr”) e disegni di Raffele Della Monica. Il disegnatore delle due precedenti avventure vampiresche di Zagor, Gallieno Ferri, torna qui in veste di autore delle copertine.
Accanto a Bela Rakosi, che riappare per la terza volta, c’è un nuovo personaggio destinato a diventare ricorrente sulle pagine di “Zagor”: la vampira Ylenia Varga, dai “capelli rosso tiziano”.

Il conte Manfred Moor, capitano dei dragoni, è il promesso sposo di Frida Lang, un tempo grande amore di Zagor (“Zagor” n. 448, Vampyr). In Stiria, durante una tempesta, Manfred si ripara in una locanda con il suo attendente Janos. Lo stalliere Imre nota che i cavalli hanno due ferite vicino alla criniera ed esclama: “Vrkolak!”. Alla locanda, a bordo di una carrozza con l’emblema della Transilvania, arriva anche una misteriosa contessa, Ylenia Varga, accompagnata dal suo servitore Boris. Attratto dalla sconosciuta, Manfred le cede la sua camera e dorme nell’atrio della locanda. Nella notte, tra l’ululare dei lupi, Ylenia invita seduttiva il conte nella sua stanza. Mentre Boris fa entra nella locanda dei licantropi che fanno strage, Ylenia rivela la sua natura vampiresca e morde Manfred alla gola. Nello stesso momento, a Graz, Frida si sveglia di soprassalto dopo aver sognato Zagor e Manfred trasformato in vampiro. A Darkwood, intanto, Zagor riceve la lettera di un colonnello, Ferenc Korasi, che gli chiede di incontrarlo urgentemente. Insieme a Cico, lo “spirito con la scure” raggiunge il colonnello nella sua casa isolata tra le paludi, dove vive con l’amico e assistente Samish Pasha, ex ufficiale ottomano. Il colonnello colleziona libri sui vampiri e un tempo ha salvato Samish da un attacco di non-morti. In realtà il colonnello è un discendente di Bela Rakosi: il vampiro nemico di Zagor, infatti, ha cambiato nome anagrammandolo. Korasi spiega che il suo antenato è un arcivampiro (“la razza eletta dei figli della notte”) e racconta di averlo incontrato due volte, in un caso sul campo di battaglia, dove i vampiri bevevano il sangue dei feriti. Ora teme che Bela Rakosi stia tornando, alleato dei farkaskoldoi, lupi mannari non-morti dell’Ungheria. In effetti, Ylenia Varga e Manfred, contagiato dal vampirismo, è a bordo del Lady Godiva con una corte di lupi mannari. Frida è intanto arrivata in America, insieme a Janos e Imre, per rivedere Zagor e chiedergli aiuto nella ricerca di Manfred.

I lupi mannari assediano la casa di Korasi e sono respinti (n. 449, Il segreto di Frida Lang). Ma Ylenia, fingendosi vittima dei lupi, riesce a farsi ospitare da Korasi che però la smaschera quando nota la sua allergia all’aglio. Dopo aver tentato di uccidere Zagor, la vampira fugge e fa rapire Korasi dai lupi. Al colonnello spiega che lo ha sequestrato per ordine di Rakosi, il quale la iniziò alla vita delle tenebre tanti secoli prima. Frida è salvata da un attacco di lupi grazie all’intervento di Zagor, suo indimenticato amore. A lui la giovane racconta che al suo ritorno Manfred non si rifletteva negli specchi, svelando così di essere stato vampirizzato.
Bela Rakosi, ancora una volta resuscitato, si nasconde nella città fantasma di Blacktown: il paletto che lo trafisse mentre era sotto forma di pipistrello (nell’albo n. 189) non gli spaccò del tutto il cuore e una vecchia demente lo salvò dalle acque del fiume in cui era precipitato. A Blacktown ci sono anche Ylenia e Manfred, ma la vampira spiega a quest’ultimo che la sua fedeltà nei confronti di Rakosi è una finzione: in realtà Ylenia cerca vendetta, perché Rakosi uccise il suo fidanzato mentre tentava di impedire che fosse vampirizzata.

Mentre Zagor è sulle sue tracce, Rakosi lo fa attaccare da pipistrelli e rapisce Frida (n. 450, Il principe della notte). Zagor e Samish raggiungono Blacktown e, nel cuore di una miniera abbandonato, trovano la cella dove sono rinchiusi Korasi e Frida, accanto a Bela Rakosi che giace in una bara. Benché ferito, Zagor riesce a entrare nella celle e a battersi con Rakosi che però fugge. Lo scontro continua nella casa diventata covo dei vampiri, alla presenza di Ylenia e Manfred. Ma quando sopraggiunge Rakosi, la lotta si scatena tra lui e Ylenia, fino a che Zagor getta il barone nel fuoco della casa in fiamme. Prima che l’edificio crolli, Zagor e Ylenia si aiutano a vicenda per mettersi in salvo. Qualche tempo dopo, Zagor riceve una lettera da Frida: lo informa che Manfred migliora grazie a trasfusioni e alle cure del colonnello Korasi, aggiungendo che spera di tornare un giorno a Darkwood.

L’avventura è certamente caratterizzata dalla new entry nell’universo bonelliano: Ylenia Varga. Lo stesso Sergio Bonelli, nel suo articolo di apertura dell’albo n. 450, rende omaggio a due vampire che evidentemente ritiene imparentate con Ylenia: Carmilla di Joseph S. Le Fanu e Anne Parillaud, interprete di Amore all’ultimo morso.
Boselli, da parte sua, riprende nella sceneggiatura alcuni elementi dell’immaginario vampiresco (i vampiri possono entrare in una casa solo se sono invitati) ed evoca il lamento depressivo del Klaus Kinski/Nosferatu nel film di Werner Herzog: Ylenia, infatti, esprime la sua tristezza per non poter più vedere il sole ed è stanca dell’eternità imposta dalla sua condizione di vampira.
Per quanto riguarda i disegni, Dalla Monica si allontana dal tratto di Gallieno Ferri e preferisce uno stile classicheggiante alla Alex Raymond, con ripetuti omaggi a Gene Colan e al suo Dracula per la Marvel (i pipistrelli e l’aspetto di Rakosi, soprattutto nelle scene d’azione).

PANDEMIA DI VAMPIRI A FUMETTI /2: Bela Rakosi colpisce ancora

A quasi un decennio dalla prima avventura di Zagor contro il vampiro Bela Rakosi (un lancio pubblicitario definisce Rakosi “il più agghiacciante nemico di Zagor”), nel 1981 la Sergio Bonelli Editore pubblica una nuova storia con gli stessi personaggi, diluita in quattro albi. I disegni sono ancora di Gallieno Ferri, ma questa volta a firmare i testi non è Bonelli/Nolitta, ma Alfredo Castelli, in procinto di diventare uno degli uomini di punta della casa editrice grazie al suo personaggio Martin Mystère.

Nel villaggio di Starbuck (“Zagor” n. 186, Il popolo della notte), Cico è contattato segretamente da Molnar e Bator, gli zingari ungheresi della precedente avventura vampiresca: gli chiedono una provetta con il sangue di Zagor, in cambio di un amuleto dotato di presunti poteri miracolosi. Ingenuamente, il messicano accetta la proposta. (n. 187, Il ritorno del vampiro) Mentre si aggirano nella foresta, Zagor e Cico sono attaccati da pipistrelli, poi trovano in una grotta Bator, ucciso con un paletto nel cuore. Insospettito, Zagor decide di recarsi al villaggio di Fairmont per consultarsi con il dottor Metrevelic, ma questi è impazzito e vive recluso in un rudere, con un pentacolo di ostie intorno al letto e spara a chiunque si avvicina. Riacquistata lucidità dopo essere stato preso a pugni da Zagor, il dottore racconta che Albert Parkman, sopravvissuto al contagio nell’avventura precedente (dove era stato morso dal barone Bela Rakosi), ha sposato sua figlia Aline. La coppia è andata a vivere nel villaggio di Bergville, abitato da coloni slavi legati alla tradizione che si vestono come un secolo prima e hanno costruito case tipiche dei loro paesi d’origine. La ragazza però, racconta Metrevelic, è tormentata da strani sogni nei quali Rakosi la vuole come sposa. Inoltre il dottore è stato aggredito da Bator e ha scoperto che il mantello e le ceneri di Rakosi sono scomparsi.
Metrevelic teme che gli zingari vogliano eseguire un rito all’eclissi di luna per rianimare Rakosi, utilizzando il sangue dell’uomo che ha sconfitto il vampiro. A quel punto Cico confessa di aver dato a Molnar una provetta con il sangue di Zagor. Purtroppo è ormai tardi per fermare gli eventi: Molnar in una grotta compie il rito e resuscita Rakosi. Il barone medita vendetta e vuole creare il suo regno in America, facendo di Aline una regina non-morta.

Una bimba scompare da Bergville e quando ritorna a casa il fratellino Josif è istintivamente terrorizzato (n. 188, Il regno delle tenebre), sostiene che non sia lei e la allontana con un crocifisso. In effetti la bambina è diventata una vampira e non esita a mordere la propria madre. Presto si diffonde l’epidemia del vampirismo nel villaggio. Albert mette in guardia i suoi concittadini sul pericolo dei vampiri, ma nessuno gli crede e rapidamente ogni abitante di Bergville è trasformato in vampiro. Grazie all’uso di un pendolino, Zagor, Cico e Metrevelic hanno individuato la presenza del vampiro a Bergville e si recano al villaggio. Quando arrivano a Bergville, Molnar ha già preso il controllo dei vampiri del villaggio e gli ha ordinato di consegnargli tutti i loro beni. Molnar aizza i vampiri contro Zagor e i suoi, costringendo i nostri eroi a rifugiarsi nella chiesa di Bergville.

Molnar non è affatto fedele a Rakosi e progetta di eliminarlo (n. 189, L’orrendo contagio), ma il vampiro percepisce il pericolo e lo fa aggredire dagli abitanti di Bergville. Lo zingaro, però, si salva e tenta di impalare Rakosi: finirà con la schiena spezzata dal barone. Poi i vampiri danno fuoco alla chiesa, ma Zagor e i suoi due amici riescono a scappare grazie all’aiuto di Albert. Il piccolo Josif, sfuggito al contagio, porta Zagor nella grotta dove si nasconde Rakosi. Il vampiro ha già morso Aline e vuole ucciderla per farla risorgere come vampira, ma è bloccato da Zagor. Rakosi si trasforma in pipistrello, è colpito da un paletto lanciato da Albert e precipita in un torrente. Scomparso il vampiro, tutti gli abitanti di Bergville guariscono.

Lo sceneggiatore Alfredo Castelli ha sempre avuto una grande passione per il cinema fantastico e non poteva che seguire le orme di Bonelli, inserendo in questa avventura di Zagor diverse allusioni cinematografiche.
Se per l’avventura apparsa nei numeri 85-87 il riferimento principale era al film Dracula il vampiro, questo seguito cita più volte il secondo episodio della saga cinematografica di Dracula prodotta dalla Hammer: Dracula principe delle tenebre (1965), sempre diretto da Terence Fisher e con Christopher Lee nel ruolo del titolo. La resurrezione del vampiro dalle sue ceneri ripete infatti l’analoga situazione del film, che vedeva Dracula rianimarsi grazie al colare del sangue sui suoi resti.
Nel fumetto sono poi riprodotte con poche modifiche le tavole del n. 87 dove si assisteva alla morte del vampiro sotto i raggi del sole. Lo stesso espediente si trova in Dracula principe delle tenebre, dove un flashback iniziale ripropone la scena conclusiva del film precedente.

PANDEMIA DI VAMPIRI A FUMETTI: l’universo bonelliano

La Sergio Bonelli Editore, colosso del fumetto italico, in questa estate 2021 sta puntando molte carte sui vampiri. Oltre alla sua testata eminentemente vampiresca, “Dampyr”, ha avviato una saga di “Zagor” che durerà per cinque albi fino a novembre 2021, e un’avventura di “Martin Mystère” in due parti. Come sappiamo, un’epidemia provocata da un contagioso virus non può che riattivare l’interesse per il vampiro, emblema per eccellenza del contagio e delle paure ad esso connesse.
Cogliamo l’occasione per analizzare, in più puntate, i vampiri dell’universo bonelliano, significativo esempio di innesto del gotico e del fantastico nell’immaginario italiano, iniziando proprio dai primi albi a tema vampirico, quelli di “Zagor” a partire dal 1972.

Il primo vampiro che appare nei fumetti di Sergio Bonelli è il barone Bela Rakosi, destinato a diventare un avversario ricorrente di Zagor, “lo spirito con la scure” che agisce in un contesto western spesso contaminato da elementi fantastici.
I tre albi che presentano per la prima volta Bela Rakosi escono nell’estate del 1972, su testi di Guido Nolitta (pseudonimo di Sergio Bonelli, figlio del Bonelli creatore di “Tex”) e disegni dell’artista genovese Gallieno Ferri. Bonelli e Ferri sono i padri di Zagor, che hanno firmato insieme le sue avventure per anni.
I vampiri godono di una certa popolarità, in quel 1972. La Hammer ha appena sfornato i suoi tre film sulla vampira Carmilla e ha addirittura dedicato il titolo di una sua pellicola all’anno in corso: 1972: Dracula colpisce ancora!. I fumetti, in Italia, hanno conosciuto il successo della sexyvampira Jacula, la cui saga è iniziata nel 1969, e a settembre 1972 uscirà il primo numero di “Zora”. Non è strano, quindi, che Bonelli decida di far lottare il suo Zagor con un vampiro proprio nel 1972.

A Ocean City nel Maryland, Zagor e il suo partner Cico incontrano il loro vecchio amico Buddy Parkman e si prestano ad accompagnarne il figlio Albert in un viaggio come capo-carovaniere (“Zagor” n. 85, Angoscia). Tra i carri della carovana, uno è guidato da tre zingari ungheresi, Molnar, Bator e Toth, che si tengono sempre in disparte. Nel corso del viaggio un cane è trovato dissanguato e con due ferite alla gola, poi la carovana è attaccata da una tribù di indiani che accusano i viaggiatori di aver ucciso una ragazza del loro accampamento: anche la ragazza ha due segni sul collo. Non riconoscendo l’aggressore tra i membri della carovana, gli indiani si ritirano. Ma le sorprese del viaggio non sono finite: due malviventi rubano il carro degli ungheresi e Zagor si mette sulle loro tracce. Recuperato il carro, Zagor trova uno dei due ladri morto, con i consueti segni sul collo, e l’altro impazzito. Zagor, Cico e Albert giunti alla loro destinazione, Fairmont, devono recarsi dal barone Bela Rakosi per consegnare il carro degli ungheresi e farsi pagare il viaggio. Il barone vive in una vecchia chiesa abbandonata, nel cuore della foresta, accudito dal servitore Zoltan. Prima di incontrare il barone Rakosi, viene scaricata dal carro degli ungheresi una grossa cassa e i cavalli si imbizzarriscono (n. 86, Zagor contro il vampiro). Il maltempo costringe Zagor, Cico e Albert a passare la notte nella chiesa, dopo una cena alla presenza del barone. Rakosi, apparentemente cordiale e gentile, spiega che si occupa di scienza e botanica e che ha lasciato l’Ungheria per le troppe complicazioni politiche. Nella notte, Cico spuntandosi i baffi si ferisce al volto e suscita la sete di sangue del barone. Tra umoristiche gag, il vampiro tenta inutilmente di mordere Cico. Intanto Albert sta male: è pallido e privo di forze, tormentato da incubi popolati di pipistrelli. I tre amici devono quindi rinviare la partenza e alla sera Zagor e Cico conversano nuovamente con il barone. La mattina dopo Albert è peggiorato e Zagor decide di recarsi a Fairmont per parlare con il medico locale, il dottor Metrevelic, di origine jugoslava. Nel frattempo, Cico trova nella cripta della chiesa una bara dove riposa Rakosi: seguono altre gag con Rakosi che cerca di mordere Cico, ma il messicano allontana involontariamente il vampiro cucinando dell’aglio. Zagor torna alla chiesa con il dottor Metrevelic che visita Albert e spiega la sua teoria: si è occupato a lungo di vampiri, in patria, e ritiene che Albert sia vittima di un non-morto succhiatore di sangue. Convinto dal dottore, Zagor si apposta nella camera di Albert e ferma Rakosi prima che possa nuovamente mordere il giovane. Zagor lotta con Rakosi e riesce a trattenerlo fino al sorgere dell’alba (n. 87, Alba tragica): il vampiro sotto i raggi del sole si dissolve e restano solo il suo mantello e le ceneri, mentre Zoltan dà fuoco alla chiesa. Eliminato il vampiro, Albert sta subito meglio e viene affidato alle cure della figlia di Metrevelic, la bella Alina.

Nella sua presentazione alla ristampa di questa avventura di Zagor (Oscar Best Sellers, n. 627, 1995), Sergio Bonelli dichiarava che si tratta “di una storia a me particolarmente cara”, dove aveva voluto riproporre situazioni che lo attiravano e terrorizzavano nelle sale cinematografiche, apportando le variazioni che gli sarebbe piaciuto vedere sullo schermo.

I suoi riferimenti sono senz’altro legati al cinema, come spiegherà nella ristampa dell’avventura in “TuttoZagor” nel 1991: “La mia storia del barone Rakosi (tutti i vampiri, si sa, hanno preferibilmente nomi romeni o ungheresi, ossia transilvani) è stata un voluto omaggio al cinema di vampiri. Io vado pazzo per i vampiri: li sogno, li amo e persino li invidio; i vampiri sono immortali, affascinanti, eleganti, nottambuli e sanno volare (sia pure trasformati in pipistrelli, che sono comunque bestiole graziose, ancorché calunniate). Forse, chissà, non mi spiacerebbe essere un vampiro, da grande. Il mio unico rimpianto è che, per quanto mi sforzi, non riesco davvero a credere alla loro esistenza. Solo di tanto in tanto, quando dormo tutto solo nella mia casa cli campagna, preferibilmente con una bella luna che fa capolino tra i cipressi e con sinistri ululati di cani in lontananza, l’immaginazione mi permette di intravedere Dracula avvolto nel suo nero mantello tra i cespugli del mio giardino. Per un secondo avverto un fugace brivido… e ne sono felice! Ecco perché ho dato il mio meglio nella storia di Rakosi, mettendoci dentro un collage vampirico di tutto ciò che libri, film e fumetti mi avevano raccontato sui misteriosi signori della notte, dall’aglio, alle croci, alle bare, ai paletti di legno… La storia è venuta ricca di movimento e lunga quasi trecento pagine. Se non l’ho fatta durare cinquecento è soltanto perché contavo di realizzare un ‘ritorno del vampiro’. Il ‘ritorno’ poi c’è stato, ma, dati gli impegni del sottoscritto, è stato realizzato da Alfredo Castelli. In quanto alla fusione di umorismo e suspense, come sapete questa alchimia è una costante della saga di Zagor, inoltre volevo rendere così omaggio ai miei film di vampiri preferiti, che non sono i pur grandi Nosferatu o Dracula, ma quelli dove si rabbrividisce e si ride allo stesso tempo: come i lungometraggi della coppia Gianni e Pinotto (che incontrano, oltre a Dracula, tutti i mostri possibili), l’irresistibile Per favore non mordermi sul collo di Roman Polanski e il simpatico Amore al primo morso di Stan Dragoty (altro regista dal nome vampiresco!) in cui Dracula, aristocratico demodé, s’innamora di una scatenata giovane fotomodella. Come recita l’antico detto: ‘Il riso fa buon sangue’. E’ vero. Di queste cose i vampiri se ne intendono”.

La copertina del n. 86 di “Zagor” presenta un’ombra che ha la silhouette di Nosferatu, ma il principale riferimento di Bonelli sembra essere il film di Terence Fisher Dracula il vampiro (1958), rimasto impresso nella memoria italiana a oltre un decennio dall’uscita nei cinema. Nell’avventura di Zagor gli omaggi allo schema e alle situazioni di quel film della Hammer sono numerosi. E’ vero che Bela Rakosi prende il suo nome sicuramente da Bela Lugosi, precursore di Christopher Lee come Dracula cinematografico per eccellenza. Ma le fattezze di Rakosi sono direttamente ispirate a quelle di Lee, così come l’abbigliamento. Tra l’altro, Rakosi appare per la prima volta dall’alto di una scala, proprio come Christopher Lee in Dracula il vampiro. Da parte sua Cico per scacciare il vampiro crea una croce unendo un bastone e un grosso cucchiaio, una versione umoristica dell’espediente usato da Peter Cushing/Van Helsing in Dracula il vampiro, dove usava due candelabri con lo stesso scopo. La morte di Rakosi, disintegrato dal sole, è un ennesimo tributo al film del 1958. Viceversa, nel contesto comico delle schermaglie tra Cico e Rakosi emerge un’allusione al vecchio Dracula del 1931: quando il grasso messicano si accorge che Rakosi non si riflette in uno specchio, il vampiro scaglia a terra lo specchio distruggendolo, allo stesso modo di Bela Lugosi nel film di Tod Browning. Inoltre, i duetti comici tra Cico e Rakosi rimandano a Tempi duri per i vampiri (1959), con Renato Rascel e Christopher Lee.

Bonelli/Nolitta si rivela un lettore attento di testi vampirologici, citando Brucolachi, Vrolok e Vukodlak. I suoi vampiri seguono pedissequamente le “regole” del vampirismo sedimentate nell’immaginario tramite la letteratura e il cinema, come evidenziano le spiegazioni del dottor Metrevelic, versione un po’ buffa di Van Helsing e delle sue lezioni di vampirismo nel Dracula di Bram Stoker: “Si tratta di anime dannate il cui corpo, anche dopo la morte non riesce a trovare pace! Durante il giorno devono riposare nella stessa bara in cui sono stati sepolti la prima volta, ma, dopo il tramonto, riprendono vita fino all’alba, e, per ottenere il necessario vigore fisico, succhiano il sangue dalle vene dei malcapitati che trovano sulla loro strada! Pare che durante la loro vita notturna, acquistino una forza muscolare sovrumana, oltre alla facoltà di soggiogare le loro vittime con una sorta di ipnotismo che sprigiona dal loro sguardo! Dicono anche che possano trasformarsi in pipistrelli, per meglio insinuarsi nelle stanze della povera gente!”
Dalla tradizione filmica il vampiro zagoriano si discosta però per un particolare: Rakosi mangia e brinda con i suoi ospiti, al contrario del Dracula di Lugosi che notoriamente si sottraeva sia alla cena che ai brindisi (“Io non bevo mai… vino”).
Questa prima avventura che narra lo scontro tra Zagor e il barone Rakosi è stata più volte ristampata, anche a colori. Con il titolo “L’ombra del vampiro”, infatti, riappare nella Collezione storica a colori – I fumetti di Repubblica e L’Espresso nel 2012. Purtroppo la colorizzazione delle tavole non si presta ai chiaroscuri di Ferri, che perdono molto del loro fascino (più adatta al colore si rivelerà una successiva storia zagoriana, Vampyr, illustrata da Raffaele Della Monica e colorizzata per la stessa collana nel 2014).

VAMPIRI ALL’ITALIANA

E’ appena uscito il secondo fascicolo di “Journal of Vampire Studies”, la nuova rivista curata da Anthony Hogg e pubblicata dalla Vampire Studies Association. All’interno del numero c’è la mia recensione di un recente libro sul cinema di vampiri in Italia: Vampires in Italian Cinema, 1956–1975 di Michael Guarneri (Edinburgh University Press, 2020). Ne riproduco qui di seguito una versione leggermente diversa, per il lettore italiano.

Va subito detto che il libro di Michael Guarneri, molto documentato, riempie un vuoto. Tra le molte indagini sui film di vampiri, anche in anni recenti, nessuna si è focalizzata sui film a tema vampirico prodotti dall’industria cinematografica italiana. Guarneri mette in luce gli elementi tematici di un sottogenere affascinante del nostro cinema popolare, che ha prodotto alcuni horror capaci di grande influenza. Il suo obiettivo è di “identificare la specificità nazionale del cinema italiano di vampiri” (p. 23).

Dopo un breve sommario degli studi sui vampiri, Guarneri analizza 33 film italiani di vampiri tra il 1956 e il 1975, da I vampiri (1957) di Riccardo Freda, considerato il primo film horror italiano, fino alla commedia di Lucio Fulci Il cav. Costante Nicosia demoniaco, ovvero: Dracula in Brianza (1975). L’autore esclude i vampiri come semplici cammei, i vampiri psichici e le vamp (Guarneri considera come film di vampiri “solo quelle opere che hanno come personaggi principali degli esseri umani o soprannaturali che vivono di sangue umano”), ma presta attenzione alle parodie horror e alle avventure storico-mitologiche di peplum come Ercole al centro della Terra (1961) di Mario Bava e Maciste contro il vampiro (1961) di Giacomo Gentilomo, aggiungendo anche alcune co-produzioni italo-francesi e italo-spagnole che tuttavia non hanno vere radici nella cultura cinematografica italiana (in quanto prodotte esclusivamente per ottenere fondi dai finanziamenti governativi). Guarneri sottolinea anche l’influenza dei romanzi pulp a tema vampiresco (come le serie da edicola “KKK” e “I racconti di Dracula”) e dei fotoromanzi, negli anni Sessanta, poi dei fumetti per adulti come Jacula e Zora nel corso degli anni Settanta.

Christopher Lee in
Ercole al centro della Terra

Nei capitoli di apertura Guarneri mette in evidenza la natura inizialmente “derivativa” del cinema italiano di vampiri, dopo il successo del Dracula di Terence Fisher (1958). Altra caratteristica importante è che, in quanto film destinati all’esportazione, i film italiani di vampiri degli anni Sessanta avevano spesso come interpreti dei noti attori stranieri. E’ il caso di Tempi duri per i vampiri (1959), regia di Steno, e La cripta e l’incubo (1964) di Camillo Mastrocinque, entrambi con Christopher Lee, così come dei due film di Mario Bava La maschera del demonio (1960), con Barbara Steele, e I tre volti della paura (1963), con Boris Karloff. La prima fase del cinema italiano di vampiri si ferma alla fine degli anni Sessanta. Era il periodo di film gotici come L’ultima preda del vampiro (1960) di Piero Regnoli, L’amante del vampiro (1960) di Renato Polselli, La strage dei vampiri (1962) di Giuseppe Tagliavia (alias Roberto Mauri) e Il mostro dell’Opera (1964) ancora di Renato Polselli.

Locandina per l’edizione americana di
I tre volti della paura

Dopo il 1969, il cinema italiano di vampiri tende a essere più sessualmente esplicito, a volte con tematiche lesbiche e offrendo spesso nudi femminili integrali, come in La notte dei dannati (1971) di Filippo Walter Ratti (alias Peter Rush), La notte dei diavoli (1972) di Giorgio Ferroni, Il plenilunio delle vergini (1973) di Luigi Batzella (alias Paolo Solvay), Riti, magie nere e segrete orge nel Trecento… (1973) di Renato Polselli (alias Ralph Brown) e soprattutto in Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete!!! (1974) di Paul Morrissey e Antonio Margheriti. Inoltre, Guarnieri rivela l’esistenza di tre film di vampiri che non vennero mai realizzati, resi noti grazie alle sceneggiature conservate in biblioteche e istituzioni (Il teschio del vampiro, 1962; Dracula terrore d’oltre tomba ovvero Una vergine per Dracula, 1973; Sangue per il vampiro, 1974).

Udo Kier in Dracula cerca sangue di vergine…

Il libro di Guarneri si articola per temi, senza analizzare i singoli film cronologicamente. A questo scopo dedica molta attenzione alla nostra industria cinematografica, utilizzando ampiamente i documenti originali di istituzioni statali come la Direzione Generale dello Spettacolo e la Commissione per la Revisione Cinematografica, mettendo in luce anche l’influenza del Vaticano e del suo “ufficio censura”, il Centro Cattolico Cinematografico.

Nella seconda e terza parte del volume è discusso il contesto sociale e storico nel quale erano prodotti il film italiani di vampiri. Secondo Guarneri i vampiri italiani riflettevano il “national zeitgeist” del miracolo economico alla fine degli anni Cinquanta e l’austerità alla metà dei Settanta, “vent’anni di grandi cambiamenti politici e socio-economici”.

Indagando il vampiro come metafora, l’autore sottolinea le implicazioni politiche e sociali presenti soprattutto in …Hanno cambiato faccia (1971) di Corrado Farina, dove un capitalista si chiama “Nosferatu”. Guarnieri nota i riferimenti al Dracula di Stoker e alla situazione politica italiana del tempo, sintetizzandoli in questo modo: “Alberto Valle, un impiegato di basso livello nel colosso dell’industria pesante Auto Avio Motors, è inviato dal suo capo in un viaggio d’affari verso una remota villa nella campagna piemontese, per incontrare il padrone della Auto Avio Motors, l’ingegner Giovanni Nosferatu. Il viaggio verso la villa dell’ingegner Nosferatu rispecchia chiaramente il viaggio di Jonathan Harker verso il castello di Dracula nel romanzo del 1897 (non a caso il diretto superiore di Valle in fabbrica si chiama Harker), ma il vampiro di …Hanno cambiato faccia ha più somiglianze con il padrone della FIAT, l’avvocato Giovanni Agnelli, che con il Conte di Stoker: sia Giovanni Nosferatu che Giovanni Agnelli sono capitani d’industria con i capelli bianchi, formalmente esterni al mondo della politica parlamentare eppure capaci di controllarla attraverso pressioni economiche e l’uso dei mass media di loro proprietà” (pp. 156–7).

Nel suo approccio politico, Guarneri mette in evidenza come alcuni film peplum che uniscono horror e avventura evocassero l’occupazione nazista dell’Italia nella Seconda guerra mondiale e alludessero al risorgere del neofascismo nel dopoguerra. Inoltre, esplicita un aspetto distintivo del cinema italiano di vampiri: se le vampire anglo-americane sono eminentemente delle predatrici sessuali, le vampiresse italiane riflettono invece l’emancipazione femminile nell’Italia del dopoguerra. Al contrario, il vampiro maschio italiano è un “latin lover ipersessuato, ipervirile, e aggressivamente predatorio, sulla falsariga di Casanova o Don Giovanni, che in un modo o nell’altro si prende tutte le donne che vuole” (p. 113).

La strage dei vampiri

Se c’è un punto debole nel libro di Guarneri, soprattutto per il lettore italiano, è che troppe pagine si concentrano in una panoramica, tra l’altro piuttosto discutibile, della storia d’Italia nel dopoguerra. Tuttavia, mi pare interessante il suo tentativo di collocare il cinema italiano di vampiri nel contesto industriale e politico nazionale.

Il volume rielabora in gran parte una tesi di dottorato dell’autore. Purtroppo non ha conservato per il libro tre interessanti interviste incluse nella tesi, con Corrado Farina, Ernesto Gastaldi e Fabio Frizzi (Sanguisughe Sexy: Vampires in Italian Genre Cinema between 1956 and 1975, PhD thesis, University of Northumbria at Newcastle, 2018; https://core.ac.uk/display/218199166).

E’ curioso, poi, che il primo libro interamente dedicato al cinema italiano di vampiri sia scritto per un pubblico di lingua inglese e pubblicato in Gran Bretagna. Tra l’altro l’autore è italiano (nato a Cremona nel 1988), anche se scrive e pubblica prevalentemente in inglese. La nostra editoria evidentemente soffre ancora del vecchio pregiudizio contro la letteratura e il cinema fantastico: troppo spesso chi vuole affrontare seriamente i nostri generi trova più ascolto all’estero che da noi. Nonostante la nostra abbondanza di folklore soprannaturale, ancora oggi c’è una carenza di considerazione per le declinazioni nazionali dell’horror nella letteratura e nel cinema.

In conclusione, il lettore italiano troverà molto utile la ricostruzione storica di un nostro sottogenere decisivo nel cinema gotico e dell’orrore. Se siete interessati al vampiresco tricolore e potete affrontare il prezzo proibitivo di questo libro (circa 64 euro), Vampires in Italian Cinema, 1956–1975 merita di essere letto.

DRACULA: non solo libro

Il romanzo Dracula di Bram Stoker vanta ormai innumerevoli ristampe, complice l’assenza di diritti d’autore e il richiamo sempre vivo (paradossalmente) del celebre non-morto. Ora non bastano più nuove edizioni, magari ampiamente annotate, per i cultori di quel testo: serve qualcosa di più. E un segmento di editoria ha deciso di puntare recentemente su esperienze multiformi da accompagnare al libro cartaceo. Sono così fiorite le edizioni in carta pregiata (vedi un nostro precedente post), elegantemente illustrate e con custodie immaginifiche. Ma ora si sta andando ancora oltre.

Beehive Books: varie edizioni “immersive” di Dracula

Se avete 1600 dollari da spendere (circa 1362 euro), ecco un’iniziativa nata su Kickstarter, con una raccolta di fondi. Si chiedevano almeno 85.000 dollari per concretizzare il progetto, attualmente si sono superati di gran lunga i 170.000, con un versamento medio di circa 270 dollari a sottoscrittore. Cosa offre il progetto “Dracula: The Evidence” per quella cifra? Non solo il romanzo, in un contenitore di pelle con targa in metallo, ma anche una mappa della Londra vittoriana, immaginarie repliche delle lettere tra i personaggi di Dracula, telegrammi, articoli di giornale e foto, due dischi con le registrazioni al fonografo del dottor Seward, stampe con illustrazioni in tema. Chi sottoscrive almeno 1600 dollari ha diritto a tutto questo, in un’edizione di soli 26 esemplari, firmata dai curatori. Con meno spesa (minimo 100 dollari) si ottiene la semplice versione cartacea con sontuosa copertina rigida e solo alcuni dei gadget creati per l’occasione.

La Beehive Books aveva già sperimentato edizioni “prestigiose” di Dracula a tiratura limitata, una custodita in una valigetta ottocentesca (300 euro) e una seconda racchiusa in un cofanetto di legno simile a una bara. Tra gli artefici del progetto c’è l’immancabile Dacre Stoker, discendente dello scrittore irlandese, che sta capitalizzando i suoi dati anagrafici con una miriade di iniziative commerciali su Dracula.

Abeditore: il “Drac-Pack”

Anche in Italia sono arrivati libri vampireschi “immersivi”, grazie alla casa editrice Abeditore: il loro DraculeaRacconti e documenti di veri o presunti atti di Vampirismo accompagna un libro cartaceo, che offre estratti da noti testi sui vampiri, a una lettera su pergamena vergata “Dracula” con sigillo di ceralacca, la foto di un vampiro, il poster con l’illustrazione della copertina del libro creata da Marco Calvi, un segnalibro a forma di bara e un finto articolo di giornale. Il costo è minimo, rispetto all’esperimento della Beehive: solo 20 euro (allo stato attuale il “Drac-Pack” con i gadget risulta esaurito).

L’edizione italiana del testo teatrale di Dracula, scritto da Bram Stoker

Siamo quindi di fronte a un fenomeno crescente, che si ispira ai giochi di ruolo dove già si erano proposti cofanetti con oggettistica varia. E di “giochi” o “giocattoli” si tratta, in fondo, per intenditori e appassionati. Noi di “Vampyrismus” preferiamo comunque i contenuti letterari e critici, pur ammirando le pregevoli edizioni vampiriche odierne. Si può fare un libro a tema draculesco esteticamente soddisfacente, ma nello stesso tempo che offre un testo inedito e un apparato critico, come il nostro Dracula: ovvero il Non-Morto.

MADAME VAMPIRE: RICORDO DI ORNELLA VOLTA

Ci ha lasciati il 16 agosto Ornella Volta, singolare figura di intellettuale che al vampirismo ha dedicato testi fondamentali, a partire da I vampiri tra noi (Feltrinelli, Milano 1960), un’antologia di opere letterarie sul vampiro curata con Valerio Riva e con prefazione di Roger Vadim. Seguì quindi il decisivo Le vampire – Il vampiro, pubblicato prima in Francia (Pauvert, Paris 1962) e poi in Italia (Sugar, Milano 1964). Il suo approccio freudiano alla figura del vampiro, lo scavo etnologico, la nobilitazione di uno sguardo critico su un fenomeno all’epoca scarsamente considerato hanno avuto un ruolo importante negli studi sull’immaginario non solo vampiresco.

Edizione francese e italiana del fondamentale testo di Ornella Volta

In particolare l’edizione francese, ma in parte anche quella di Sugar, si avvaleva di una ricerca iconografica che ha fatto scuola. Tra l’altro, il marito di Ornella, Pablo Volta, grande fotografo argentino morto in Sardegna nel 2011, realizzò alcune prove per le illustrazioni dell’edizione Pauvert, una delle quali è stata recentemente esposta alla mostra parigina Vampires.

Una fotografia preparatoria di Pablo Volta per Le vampire

I vampiri furono solo una parentesi nell’attività di Ornella Volta. Dopo aver pubblicato un eccellente Frankenstein & Company (Sugar, Milano 1965) sui grandi personaggi dell’immaginario orrorifico e dopo una interessante collaborazione con la rivista “Horror”, preferì dedicarsi soprattutto a studi sul compositore Eric Satie.

Due edizioni tascabili in inglese del libro di Ornella Volta

Nel 1985 collaboravo con Mario Accolti Gil agli inserti illustrati della rivista “Mondoperaio” e in occasione di un inserto sui vampiri chiedemmo a Ornella Volta un testo sul tema. Erano decenni che non scriveva più sull’argomento, ma accettò volentieri e ci inviò un articolo, Tre secoli di vampirismo, dove spiegava anche le ragioni del suo distacco dalla “vampirologia”, e che poi ristampai nell’ormai introvabile Vampirismus – Gotico e fantastico nel mito del vampiro (Alfamedia, Roma 1986). Ho quindi deciso di scansionare l’articolo originale uscito su “Mondoperaio” (luglio 1985) e di riprodurlo qui in omaggio alla nostra vampirologa prediletta.

RON BORST, IL COLLEZIONISTA CHE AMA “DRACULA” (1958)

Ron Borst (noto anche come Ronald V. Borst) è uno straordinario collezionista americano che da molti anni gestisce un negozio di memorabilia cinematografiche a Hollywood. È stato un pioniere della pubblicistica sul cinema fantastico, attraverso la mitica rivista “Photon”, e ha messo a disposizione i migliori pezzi della sua immensa collezione per il libro Graven Images, pubblicato nel 1992 con prefazione di Stephen King. Lui stesso si autodefinisce “an obsessive collector” non solo di poster, locandine e foto, ma anche di libri e riviste da un sessantennio.

Ron Borst nel suo negozio “Hollywood Movie Posters”, a Hollywood

Si può quindi immaginare quanto mi abbia lusingato leggere una email di Borst dove esprime la sua ammirazione per il mio libro Dracula il vampiro. Il capolavoro gotico della Hammer 60 anni dopo, che aveva appena ricevuto da un corriere: “Sono completamente senza parole. Non sapevo cosa aspettarmi e quando ho aperto il pacco vi ho trovato uno dei migliori libri di cinema di tutti i tempi dedicato al mio film preferito della Hammer (e uno dei miei preferiti in assoluto)!”
Nel nostro scambio di email Borst si è prodigato in racconti e commenti che meritano di essere conosciuti dagli appassionati. Con il suo consenso, ne riporto alcuni.

Copertina del libro Graven Images

Innanzitutto Borst è un grandissimo fan proprio di Dracula (1958) e tra l’altro possiede 4 versioni dei poster italiani (uno dei quali lo ha fornito alla Warner Bros. per la copertina del loro DVD di qualche anno fa). In suo possesso è anche la copia originale della sceneggiatura di Dracula appartenuta a Christopher Lee (oltre a quelle di Taste the Blood of Dracula e Scars of Dracula).
Il mese di agosto, poi, è legato strettamente ai ricordi di Borst su quel film: “Agosto è per me sempre un mese speciale, perché il 16 agosto 1958 (due anni dopo la morte di Bela Lugosi nella stessa data) vidi Dracula durante una matinée al Capitol Theater di Whitehall, NY (e da allora lo rivedo ogni anno in quella data!). Poi, due settimane dopo, vidi nello stesso cinema quello che resta il mio film horror preferito di tutti i tempi, Night of the Demon”.
Anche quest’anno Borst non ha rinunciato al rito e proprio ieri, 16 agosto 2020, ha guardato Dracula (nella versione completa su Blu-Ray tedesco) in occasione del 62esimo anniversario della sua prima visione del film: “Dracula è l’unico film che ho veramente visto più di 100 volte nel corso della mia vita: avevo una copia in 16mm negli anni Settanta e la guardavo continuamente!”.

“One of the finest all-time cinema books!”: parola di Ron Borst!

“Ci sono tantissime cose in questo grande film sulle quali mi piace riflettere dopo aver passato una vita intera a guardarlo”. Così Borst a proposito di Dracula. E nel corso degli anni ha notato alcuni dettagli e contraddizioni molto curiosi.
Ad esempio, Borst si è accorto che la posizione del cannone al castello di Dracula cambia: punta a sinistra e poi a destra in un paio di differenti inquadrature quando Harker entra nel castello. La visione ripetuta del film gli ha fatto sorgere una lunga serie di domande. Come arriva un ananas sul tavolo del Conte, nell’Europa del 1885? Chi ha messo una statuetta della Madonna in una nicchia proprio accanto al castello di Dracula e chi cambia i fiori? E chi è che si avventura lì per ritirare il diario di Harker? E la statua della Vergine Maria non dovrebbe impedire l’accesso di Dracula? Come fa il carro funebre a entrare e uscire dal piccolo spazio oltre l’ingresso del castello, dovendosi girare? E come fa il cocchiere a caricare da solo la bara del Conte sulla carrozza?
Su un particolare del film, Borst ha una teoria precisa. Dracula si apre con la data del 3 maggio 1885, riportata nel diario di Jonathan Harker, poi durante una scena al posto di frontiera si nota un calendario che porta la data del 18 dicembre. Secondo Borst quella data corrisponde al giorno in cui venne filmata la scena.

Il cannone in Dracula (1958)

Ovviamente tra gli attori prediletti da Borst ci sono Peter Cushing e Christopher Lee. “Nel corso degli anni ho avuto il privilegio di incontrarli entrambi in molte occasioni”, dice Borst, “la più memorabile quando hanno lavorato insieme per l’ultima volta per il documentario sulla Hammer Flesh & Blood, del mio compianto amico Ted Newsom, girato a Canterbury nel maggio 1994. Quando avevano terminato i loro racconti e se ne stavano andando, chiesi se volessero gentilmente posare insieme a me per una foto nel parcheggio dello studio. Dopo che un amico scattò la foto, si salutarono l’un l’altro e salirono su due diverse auto. Non si rividero mai più dato che Cushing morì due mesi dopo, in agosto. Mi sono reso conto solo anni più tardi che la fotografia con me tra di loro era l’ultima fotografia in cui posavano insieme. Quello è stato il momento più memorabile per un fan come me in 60 anni da appassionato”.

L’ultimo incontro tra Lee e Cushing in occasione del documentario Flesh & Blood, alla presenza di Ron Borst

Nel 1969 Borst spedì prima a Lee e poi a Cushing un esemplare della rivista “Photon”, che aveva in copertina un’immagine dei due attori, ed entrambi restituirono la copia della rivista autografata. L’ammirazione per Lee e Cushing porta però Borst a rammaricarsi che non esistano foto promozionali dei due attori insieme per Dracula: “Ho sempre trovato curioso che apparentemente non ci siano foto a fini promozionali di Lee e Cushing insieme nei rispettivi ruoli dei loro personaggi, ma ho il dubbio che sia perché avevano così poche sequenze insieme che il fotografo di scena o non era sul set quel giorno o si trattava solo di risparmiare denaro”. Effettivamente le sole foto di Lee e Cushing insieme, in occasione di Dracula, sono state scattate negli USA (alle conferenze stampa e alla festa di compleanno di Lee), ma la Hammer non ha mai utilizzato foto promozionali con i due attori nei costumi dei loro personaggi in quel film. I fan, ricorda Borst, dovettero aspettare fino alle riprese di Dracula A.D. 1972 per vedere qualche ritratto dei due attori insieme nei rispettivi ruoli di Dracula e Van Helsing. La Hammer pare anche abbia fatto scattare meno foto pubblicitarie per Dracula che per The Curse of Frankenstein, il loro primo film con la regia di Terence Fisher. Un nuovo gruppo di foto con Jonathan Harker in posa sembra sia stato scoperto e stampato in anni recenti, ma di fatto nessuna di Lee con Cushing.

La copertina di “Photon” autografata da Christopher Lee e Peter Cushing

Insomma, un grande appassionato del fantastico che in passato si dedicava anche a pionieristici articoli sul suo cinema preferito (per “Photon” scrisse un testo sui film di vampiri). E, come l’altro leggendario collezionista Forrest J. Ackerman che con la sua rivista “Famous Monsters of Filmland” lo iniziò alla passione per il fantastico, anche Borst è un vulcano di ricordi e notizie. Se avremo altre curiosità e informazioni inedite da Borst, “Vampyrismus” ne darà subito conto.

Da “Photon” n. 18 (1969)

DRACULA ovvero: il Non-Morto

Il testo teatrale di Bram Stoker, tradotto e curato da Fabio Giovannini

Il 18 maggio 1897 faceva la sua prima apparizione pubblica un personaggio dell’immaginario destinato a diventare immortale: Dracula. Quel giorno, infatti, per la prima volta in assoluto viene tenuto a battesimo il conte vampiro della Transilvania, grazie a uno spettacolo teatrale intitolato Dracula: or The Un-Dead (Dracula, ovvero: il Non-Morto) e presentato al Lyceum Theatre di Londra. L’autore era Bram Stoker, che pochi giorni dopo pubblicherà il romanzo Dracula. Il manoscritto di quel testo teatrale, a lungo sconosciuto, è oggi custodito alla British Library.

DRACULA ovvero: il Non-Morto consente per la prima volta al lettore italiano di scoprire un testo raro, pubblicato solo una volta in lingua originale nel 1997. Questo testo teatrale permette un’esperienza nuova anche all’appassionato o allo studioso che già conosce Stoker e il suo Dracula.

Con una prefazione di oltre 50 pagine firmata da Fabio Giovannini, curatore e traduttore di questa introvabile opera sconosciuta di Bram Stoker. Un volume fuori commercio, arricchito da numerose illustrazioni d’epoca: 336 pagine, in un’edizione a tiratura limitata di sole 100 copie numerate.

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Per scaricare l’indice e le prime pagine della Prefazione clicca qui sotto:

Kiss-Shot, la vampira bionda

C’è una vampira dell’immaginario contemporaneo che pochi conoscono. Eppure in Giappone ha migliaia di seguaci. Il film a cartoni animati (anime) in cui è apparsa, Kizumonogatari, ha incassato nel primo weekend di proiezioni giapponesi, a gennaio 2016, quasi tre milioni di dollari.
Il suo nome è piuttosto complesso: Kiss-Shot Acerola-Orion Heart-Under-Blade (Kisushotto Aseroraorion Hātoandāburēdo), definita la vampira “dal sangue bollente, dal sangue di ferro e tuttavia dal sangue freddo”.

Biondissima, dagli occhi d’oro e dal seno prominente, Kiss-Shot è nata in una serie di “light novels”, come vengono definiti in Giappone i romanzi con illustrazioni, avviata con Bakemonogatari e tutti con il suffisso “monogatari” (storia). Arrivati a oltre 20 uscite (alcuni sono stati tradotti in inglese), i romanzi della saga sono firmati da Nisio Isin, pseudonimo palindromo (spesso il nome è scritto senza spazi: Nisioisin) di un giovane autore di fumetti che all’epoca della prima storia del ciclo, apparsa su una rivista nel 2005, aveva 24 anni. Le illustrazioni dei volumi sono del taiwanese Vofan. I romanzi hanno dato origine a diversi anime, dal 2009 a oggi, compreso il film in tre parti Kizumonogatari (“kizu” significa “ferita”) che è un prequel della storia e narra il primo incontro del protagonista con la vampira Kiss-Shot. Nel 2018 è iniziato anche un manga di Oh! great (pseudonimo di Ito Ogure) tuttora in corso e giunto al nono volume.
La storia di Kiss-Shot è narrata inizialmente nel racconto Koyomi Vamp, uscito nel febbraio 2008 sulla rivista “Pandora” e poi in libro tre mesi dopo.

Copertina della traduzione in inglese di Kizumonogatari

Al centro della saga, nei diversi media, c’è lo studente liceale Koyomi Araragi, sessuofobo e tormentato, che vive in una città giapponese di provincia. Un giorno la studentessa Tsubasa Hanekawa, che lo attrae per il grosso seno e le mutandine spesso esposte, gli dice che vorrebbe incontrare la bella vampira che secondo alcune voci si aggira per la città. Koyomi non le crede, ma si imbatte proprio nella vampira: la trova agonizzante in una pozza di sangue, con braccia e gambe strappate. Mosso da altruismo accetta di farsi mordere per non lasciarla morire.

Kiss-Shot mutilata nel film Kizumonogatari

Il ragazzo e la vampira sono salvati da un bizzarro personaggio, Meme Oshino, sempre vestito con camicie hawaiane, e nascosti in una scuola abbandonata. Grazie al sangue di Koyomi, la vampira rigenera gli arti perduti e si trasforma in una bambina, ma a causa dell’attacco subito ha perso molti dei suoi poteri, anche perché Meme Oshino le ha tolto il cuore di nascosto.
Di Kiss-shot sono date ampie descrizioni. Parla con un linguaggio antiquato ed è vissuta 500 anni. Arrogante e aristocratica, tratta come un suddito Koyomi, diventato a sua volta vampiro dopo essere stato morso. Kiss-shot gli spiega di aver già avuto un suddito in passato, che però si tolse la vita: i vampiri, infatti, sono vittima della noia e spesso si suicidano. Apprendiamo anche che Kiss-Shot ha una straordinaria abilità con la sua katana: con un taglio netto, può ferire gravemente l’avversario senza che questi senta alcun dolore.
Koyomi deve fare i conti con la sua nuova condizione di vampiro, abituandosi a vivere in una situazione in cui il giorno e la notte per lui sono ribaltati: non ha ombra, vede nel buio, ha una grande forza e il potere di rigenerarsi (anche a lui verranno strappate le braccia e gli ricresceranno rapidamente). Koyomi dovrà poi combattere i tre cacciatori di vampiri sulle tracce di Kiss-Shot. Sono Dramaturgy (un vampiro mosso dal desiderio di vendetta), il giovane Episode (un mezzo-vampiro, privo però dei punti deboli dei vampiri, che odia i vampiri perché non lo accettano tra loro), e Guillotine Cutter (un umano). I primi due sono sgominati da Koyomi, mentre il terzo è morso e poi letteralmente divorato da Kiss-Shot per evitare che diventi un vampiro. Curioso in particolare Episode, armato di una croce gigantesca che scaglia come un boomerang sui vampiri. Durante il combattimento tra Episode e Koyomi, tra loro si frappone Tsubasa che resta gravemente ferita: Koyomi la guarisce con il potere del proprio sangue vampiresco.

La vampira Kiss-Shot con il giovane studente Koyomi

Nel film Kizumonogatari, la vampira Kiss-Shot dopo essere diventata bambina si trasforma in un’adolescente e poi torna donna, scontrandosi duramente con Koyomi, che non vuole farle uccidere esseri umani, nel corso di un surreale combattimento su un campo sportivo, dove i due si squartano e decapitano più volte reciprocamente. Alla fine, Koyomi succhia quasi tutto il sangue di Kiss-Shot, ma non la lascia morire: Meme Oshino, infatti, propone un patto che conduca entrambi a diventare pseudo-vampiri. Kiss-Shot rimarrà bambina per sempre, senza poteri, bevendo solo il sangue di Koyomi. Il ragazzo riacquisterà in parte la sua umanità: potrà uscire alla luce del sole e continuerà a rigenerarsi e ad avere alcuni poteri vampirici, senza cibarsi però di sangue umano.
Anche nel romanzo e nei fumetti Kiss-Shot resta con l’aspetto di una bambina di otto anni, priva della sua precedente personalità e quasi catatonica, indossando un buffo copricapo da aviatore. Meme Oshino le darà anche un nuovo nome: Shinobu (che unisce le parole “lama” e “cuore”) Oshino.

Kiss-Shot, ridotta alla bambina di 8 anni Shinobu, sulla copertina del manga Bakemonogatari

Per quanto sia protagonista principale solo di Kizumonogatari, la vampira Kiss-Shot è ripetutamente citata o presente negli altri romanzi, anime e manga della serie ed è al centro anche di molti doujinshi, tipiche pubblicazioni giapponesi autoprodotte dai fan. Le altre storie della saga sono incentrate su Koyomi che incontra ragazze posedute da demoni o con poteri soprannaturali.
Il passato di Kiss-Shot è raccontato in Onimonogatari (Storia del demone). Principessa diventata vampira, tentò il suicidio, poi si rifugiò in Giappone fino a quando il suo suddito di allora si uccise esponendosi al sole: al momento dell’incontro con Koyomi la vampira era appena tornata per la prima volta in Giappone.
Altri dettagli sono contenuti nel volume illustrato Anime Monogatari Series Heroine Book 3: Oshino Shinobu (2013). Sappiamo tra l’altro che a rendere Kiss-Shot una vampira, molti secoli fa, è stata la potente Deathtopia Virtuoso Suicide-Master (in Wazamonogatari).

Kiss-Shot nel manga Bakemonogatari n.1

Tra tutte le apparizioni di Kiss-Shot, la più importante è nel film Kizumonogatari, una trilogia diretta da Akiyuki Shinbo e Tatsuya Oishi, distribuita nei cinema in tre episodi: Tekketsu (Sangue di ferro), Nekketsu (Sangue bollente), Reiketsu (Sangue freddo).
Il film Kizumonogatari riprende immagini e situazioni dei precedenti anime, arricchendoli però di sontuosi effetti digitali. I personaggi sono ritratti come nel resto della serie, in base alle illustrazioni di Vofan (Koyomi con una caratteristica ciocca di capelli spettinata, Kiss-shot con orecchie da elfo e grossi seni, Tsubasa con gli occhiali e seni ancora più grossi, Meme Oshino come un hippy alla “grande Lebowski”). Il film, e in parte gli altri anime, sono caratterizzati dal ricorrente uso di cartelli che interrompono le scene (in particolare con le scritte “Noir” e “Rouge”), spesso velocissimi e illeggibili, oltre a un tradizionale mutarsi periodico delle fattezze dei personaggi in buffi pupazzi.

Statuetta di Kiss-Shot

A Kiss-Shot è dedicato un ricco merchandising, in particolare statuette, ma anche cd musicali e videogiochi per PlayStation. Vendutissimi in Giappone i Blu-ray e DVD con gli anime della saga Monogatari.
La vampira Kiss-Shot, dunque, è un curioso esempio di contaminazione tra l’immaginario occidentale e quello giapponese, da scoprire.

Dracula per collezionisti estremi

Di recente si sono moltiplicate le edizioni ultralimitate e speciali del Dracula di Bram Stoker. I più accaniti collezionisti sono stati attratti da volumi in “limited edition”, con una maniacale attenzione a dettagli e innovazioni tipografiche. Qui di seguito gli esempi più eclatanti.

Un video sul Dracula della Folio Society

The Folio Society, casa editrice londinese specializzata in pubblicazioni “lussuose”, nel 2019 ha realizzato un Dracula con introduzione di John Banville, edizione limitata a 750 copie numerate a mano e firmate dall’illustratrice Angela Barrett. Rilegato in pelle color rosso sangue, stampato su carta Abbey Pure Rough, il volume contiene 15 tavole a colori su carta Natural Evolution Ivory e numerosi disegni in bianco e nero che rappresentano luoghi e situazioni del romanzo (lupi, pipistrelli, ragni con ragnatele, alberi, navi, le rovine dell’abbazia di Whitby, edifici di Londra), più 9 disegni ricorrenti (un pipistrello, un crocifisso, lupi che circondano i cavalli, ecc.). Inoltre il libro è dotato di un nastro nero come segnalibro e di custodia ricoperta di tessuto. Prezzo: 260 euro. Il libro è esaurito.

Il contenitore del Dracula in sole 5 copie della Lone Oak Press

Una precedente edizione di Dracula, uscita sempre per The Folio Society nel 2008, aveva invece illustrazioni di Abigail Rorer. Quell’edizione (più economica e non a tiratura limitata) nel 2019 è stata riproposta in una versione speciale di sole 5 copie da The Lone Oak Press (Petersham, Massachusetts), la tipografia dell’illlustratrice. Un contenitore foderato di seta ospita oltre al libro, con frontespizio colorato a mano, un portfolio con nove incisioni firmate da Rorer. Prezzo: 550 euro. Anche questa edizione è esaurita.

Il Dracula della Lone Oak Press

Incredibilmente, è esaurita anche un’altra edizione di Dracula, venduta al prezzo di ben 749 euro. Realizzata nel 2019 dall’editore croato Amaranthine Books, con sede a Zagabria, questa Limited Edition ha una caratteristica unica e inquietante: il titolo del libro è scritto a mano con vero sangue, donato dall’illustratore Vedran Klemens e dal direttore creativo della casa editrice Marko Matijašević (il sangue è stato sigillato con isolante e quindi non mette a rischio il lettore).

Un video sul Dracula scritto con il sangue della Amaranthine Books

Questa edizione di Dracula della Amaranthine, definita “Scholomance Edition”, è limitata a sole 50 copie numerate. La scelta di produrre solo 50 esemplari è un omaggio alle 50 casse piene di terra che, nel romanzo, Dracula porta dalla Transilvania a Londra. Il libro è accompagnato da una scatola in legno che contiene vero terriccio della Transilvania, prelevato nei dintorni del castello di Bran in Romania. Il terriccio, con certificato di autenticità, è stato sterilizzato ed è collocato nella scatola protetto da una lastra di plexiglass. Come se non bastasse, per il libro è stato utilizzato un inchiostro fosforescente sensibile alla luce: la copertina, la costa e 16 illustrazioni a colori all’interno, infatti, sono fosforescenti al buio. Stampato in carta Pergraphica® Natural Rough, con il bordo delle pagine dipinte di nero, rilegato in tessuto rosso similvelluto, il volume è arricchito da diverse piccole illustrazioni di Klemens diffuse tra le pagine e ha un segnalibro a forma di paletto. Per chi si è perso l’ormai esaurita “Scholomance Edition”, però, è ancora disponibile la “Transylvania Edition”, a “soli” 299 euro, in edizione limitata di 666 copie numerate. Stesse caratteristiche del libro deluxe, stessa carta, stesse illustrazioni fosforescenti, ma senza la scritta eseguita con il sangue e senza terriccio della Transilvania (in questo caso il contenitore del libro non è in legno, ma in poliuretano che imita il legno).

La prima traduzione russa di Dracula

Ma chi vuole investire in costosissime edizioni di Dracula ha a disposizione un’altra opportunità, questa volta nell’antiquariato. Al momento attuale risulta ancora invenduta dalla Bernett Penka Books, al prezzo di 2500 dollari, una copia di Vampir, supplemento della rivista mensile di San Pietroburgo “Sinii zhurnal”: si tratta della prima traduzione russa del Dracula di Stoker, apparsa nel 1912. In realtà il fascicolo contiene solo la prima parte del romanzo e la parte seguente apparve l’anno dopo sempre come supplemento del “Sinii zhurnal”. Certamente suggestiva la copertina dell’illustratore satirico Aleksandr Iunger. Chi non è riuscito ad appropriarsi delle moderne “edizioni limitate” di Dracula, e ha 2500 dollari da investire, è avvisato.

Una copertina misteriosa

C’era un mistero intorno a una delle edizioni italiane del romanzo Dracula di Bram Stoker. Quando in Italia uscì il film Dracula il vampiro, la Longanesi pubblicò subito una nuova traduzione del romanzo, ma invece di mettere in copertina un’immagine del film di Terence Fisher che stava sbancando i botteghini, scelse un fotogramma da un film ignoto, colorizzandolo. Un uomo dai capelli radi e dal volto verdastro si accanisce su una figura femminile. A quale film apparteneva quell’immagine?

“Dracula il vampiro”, edizione del 1959

Non era certo una foto da precedenti film di vampiri e gli attori non erano facilmente identificabili. Il mistero, però, può essere svelato. Per qualche strana ragione, dagli archivi della Longanesi evidentemente venne fuori una foto da un film muto del 1922, La casa sotto la neve di Gennaro Righelli e interpretato da Alberto Capozzi e Maria Jacobini. Il maschio predatore che ghermisce una donna doveva essere sembrato efficace per promuovere il libro di Stoker, senza incappare in problemi di diritti.

“La casa sotto la neve”

Nel film di Righelli, un dottore si infatua di una ragazza e, quando questa decide di sposare un altro, la rapisce e la porta in una baita tra la neve, dove cerca di violentarla. Qui di seguito un frammento di La casa sotto la neve che contiene la sequenza da cui venne tratta la foto per la copertina di Dracula.

Una sequenza da “La casa sotto la neve” (1922)

VAMPIRE NEWS

Jared Leto sarà Morbius The Living Vampire nel film ispirato all’omonimo personaggio dei fumetti Marvel, storico avversario dell’Uomo Ragno. Le riprese del film prodotto dalla Sony sono iniziate a Londra, per la regia di Daniel Espinosa, già dietro la macchina da presa per Child 44.

Jared Leto e un’immagine dal fumetto “Morbius”

Torna sul grande schermo Salem’s Lot, il romanzo di Stephen King del 1975, per la New Line. A produrlo è James Wan, a scriverlo Gary Dauberman, già insieme per la saga horror Conjuring/Annabelle e per il recentissimo The Curse of La Llorona. Al cinema si era già vista una versione della miniserie tv Salem’s Lot del 1979, mentre nel 2004 era stata prodotta un’altra serie dalla TNT, entrambe tratte dal romanzo di King. Su Wan è appena uscito un libro italiano per le edizioni NPE: James Wan – da Saw e Insidious al Conjuring Universe e Aquaman di Nico Parente e Edoardo Trevisani.

Un’edizione tascabile del romanzo “Salem’s Lot”

Tra gli sceneggiatori della prossima serie BBC/Netflix Dracula c’è un nome interessante che fa ben sperare per i risultati: Mark Gatiss. A lui si devono diversi documentari sull’horror cinematografico, come Magic, Murder and Monsters: The Story of British Horror and Fantasy (2007) e A History of Horror (2010). Ma Gatiss sarà in Dracula anche come attore, dopo aver già interpretato un’altra serie tv che aveva tra i personaggi principali un vampiro, Being Human (2012).


Mark Gatiss in un episodio della quarta stagione di “Being Human”

A testimoniare la competenza vampirologica di Mark Gatiss, nel 2012 ha collaborato al documentario Back to Black: The Making of Dracula Prince of Darkness, dedicato al film Hammer Dracula Principe delle tenebre (1966) e allegato all’edizione Millennium del film in Blu-ray.

Il documentario su “Dracula Principe delle tenebre”

Musica vampira / 2

Il rock vampiresco ha trovato più volte ispirazione in Nosferatu, il film di F. W. Murnau del 1922. Qui di seguito tre esempi. Il primo è il video ufficiale del brano “Nosferatu” (2011) di Wise Blood, alias Christopher Laufman, vocalist di Pittsburgh. Segue un video, con immagini dal film di Murnau, del gruppo metal turco Saints ‘N’ Sinners. Il titolo è “Max Schreck” (2013), in omaggio all’interprete del vampiro in Nosferatu. A chiudere un recentissimo video ufficiale per “Cardinal”, dall’album Deconstruction (2019) di Sef Lemelin, già chitarrista per la band canadese “alternative rock” Your Favorite Enemies.

Dracula è tornato a casa

La nuova serie tv su Dracula per BBC One e Netflix, in uscita a fine 2019 o nel 2020, ha scelto come location due luoghi storici dei Dracula cinematografici.
Alcune riprese sono state già effettuate al castello di Orava, in Slovacchia, dove Friedrich Wilhelm Murnau ambientò il suo Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, 1922), rendendo indimenticabile l’immagine di una delle torri che si erge su una roccia allungata, con uno straordinario effetto fallico.

Il castello di Orava in un fotogramma di Nosferatu (1922)

Altre riprese del nuovo Dracula televisivo sono in corso agli studi inglesi di Bray, dove un sessantennio fa si girò Dracula il vampiro (Horror of Dracula, 1958) di Terence Fisher.

Gli studi di Bray fotografati dall’alto

Mark Gatiss (cosceneggiatore della serie) ha dichiarato: “E’ veramente splendido che il nostro nuovo Dracula sia girato ai Bray Studios, già sede della Hammer Films! Questi studi leggendari dall’atmosfera meravigliosa hanno dato vita a tantissimi mostri e star famose: memorabili più di tutti, Peter Cushing e Christopher Lee. Mentre vediamo la Transilvania risorgere nei teatri di posa di Bray, è fantastico poter dire che il conte Dracula è finalmente tornato a casa”.

Una pagina su Bray dal libro
Dracula il vampiro. Il capolavoro gotico della Hammer 60 anni dopo

Dracula dal dentista

Negli spot pubblicitari italiani a partire dagli anni Ottanta il vampiro è utilizzato più volte alludendo alla sua dentatura, quindi scegliendolo come testimonial di dentifrici o ripreso mentre confida i suoi problemi dentari. Qui di seguito alcuni spot in tema. Il primo è della famosa serie del “Crodino”, dove ebbero successo creature mostruose al bancone del bar (non solo Dracula, ma anche uno scimmione che evocava King Kong). Qui nello spot appare anche il Mostro di Frankenstein, con truccatura alla Boris Karloff (a seguire uno spot, sempre del Crodino, più breve e senza riferimenti al dentista). Quindi ecco uno spot direttamente dentistico, della Forhans (l’azienda ha usato lo stesso tipo di pubblicità anche sulla carta stampata, come abbiamo visto in questo post di Vampyrismus). Infine, ecco Dracula direttamente sulla poltrona del dentista, in uno spot per la rete tv Studio Universal.

Crodino
Crodino (spot breve)
Forhans
Studio Universal

Skarsgård, i fratelli vampiri

Alexander e Bill Skarsgård, attori svedesi, sono fratelli ed entrambi sono stati vampiri sul piccolo schermo. Se i più noti fratelli vampiri (per fiction) sono Stefan e Damon Salvatore della serie tv The Vampire Diaries, i veri e reali fratelli vampiri sono senz’altro Alexander e Bill Skarsgård. Il primo ha interpretato il vampiro Eric Northman in True Blood, mentre il secondo, più giovane, è l’Upiro Roman Godfrey della serie Hemlock Grove.

Bill e Alexander Skarsgård

Alexander Skarsgård ha recitato nel ruolo di Eric Northman in sette stagioni di True Blood, produzione HBO, dal 2008 al 2014.
In un mondo dove vampiri e umani coesistono pubblicamente e dove una bevanda speciale sostituisce il sangue per il nutrimento dei nonmorti, Eric dirige la comunità vampirica della sua zona (la Louisiana settentrionale) e gestisce il locale Fangtasia, un bar per vampiri. Figlio di un re vichingo nella sua vita mortale, Eric è fedele al suo antico creatore Godric e dimostra un carattere cinico e sprezzante, mitigato però da grandi sentimenti.


Alexander Skarsgård in “True Blood”

Bill Skarsgård ha interpretato il ruolo di Roman Godfrey in tre stagioni di Hemlock Grove, produzione Netflix, dal 2013 al 2015.
Insediato in una grande casa della sua facoltosa famiglia, Roman è un Upir, specie di vampiri ucraini. Dominato dalla madre Olivia (Famke Janssen), anche lei una potente Upir, stringe un’amicizia impossibile con un coetaneo lupo mannaro. Incapace di accettare pienamente la sua condizione di upiro, si sottopone ad atti di autolesionismo e vive tra incertezze, angosce e gelosie estreme.

Bill Skarsgård in “Hemlock Grove”

Nonostante il successo ottenuto dai loro personaggi vampirici, i fratelli Skarsgård non sono rimasti prigionieri dei loro ruoli gemelli. Alexander ha diversificato la sua immagine interpretando tra l’altro The Legend of Tarzan (2016), mentre Bill sta diventando una star dell’horror dopo le sue apparizioni nel film It (2017) e nella serie ispirata dalle opere di Stephen King Castle Rock (2018).

Va ricordato infine che Alexander e Bill sono figli dell’attore Stellan Skarsgård, visto in tanti film di Lars Von Trier e con qualche incursione nel cinema del terrore, come la sua presenza nelle due versioni del prequel di L’esorcista (Exorcist: The Beginning e Dominion: Prequel to the Exorcist, 2004) dove riprende il ruolo del sacerdote interpretato da Max von Sydow nel film originale. Gli Skarsgård, dunque, sono due fratelli che hanno nel sangue l’attitudine a parti inquietanti e maledette. uniti inevitabilmente dall’interpretazione di moderni vampiri, crudeli e nello stesso tempo tormentati come richiede l’immaginario vampiresco recente.

Flani vampirici d’epoca / 3

Tre pubblicità sui quotidiani a base di morsi: Amore al primo morso, Se ti mordo… sei mio e Amore all’ultimo morso. Tutti titoli italiani che discendono chiaramente da Per favorenon mordermi sul collo! (Dance of the Vampires, negli USA The Fearless Vampire Killers), il film di Roman Polański del 1967.


Amore al primo morso (Love at First Bite, 1979)

Se ti mordo… sei mio (Once Bitten, 1985) 

Amore all’ultimo morso (Innocent Blood, 1992) 

Per favore, non mordermi sul collo! (Dance of the Vampires, 1967)
[flano da filmscoop.org]

Il vampiro di Londra

Una rarità assoluta: un videoframmento da “Il vampiro di Londra”, messo in scena il 2 febbraio 1995 con un’unica rappresentazione al Teatro Elettra di Roma. Promosso dal movimento Neo-Noir, lo spettacolo era tratto dalla confessione di John Haigh, il cosiddetto “vampiro di Londra” giustiziato nel 1948. In scena, il primo John Haigh (Massimiliano Caprara) legge le sue memorie, mentre il secondo John Haigh (Ivo Scanner) compie le azioni descritte nella confessione. Di quell’unica rappresentazione sopravvive solo un filmato a bassa definizione, da cui è tratto il frammento proposto qui. Il testo dell’atto unico, scaricabile in pdf, è stato pubblicato da Stampa Alternativa nel 1995 all’interno del cofanetto Neo-Noir. Deliziosi raccontini col morto.

Ivo Scanner e Antonella Tarquini in “Il vampiro di Londra”

Musica vampira / 1

Una prima selezione di videoclip vampireschi. La saga di Anne Rice ha inventato un legame tra rock e vampiri, con il suo Lestat de Lioncourt, e il panorama musicale della realtà offre diversi esempi di band votate all’iconografia vampirica.
Oggi godiamoci le clip di tre gruppi tedeschi: In Extremo, Powerwolf e Blutengel.

Lestat nel fumetto Innovation “Queen of the Damned”

Vampiri in VHS / 2

Altre copertine di videocassette, questa volta della Redemption britannica che fu tra le prime etichette a divulgare i film vampireschi di Jean Rollin. Caratteristica della Redemption era di utilizzare foto “artistiche” in bianco e nero per le copertine, e non poster o immagini del film.

Le viol du vampire (1968)
Requiem pour un vampire (1971)
Le frisson des vampires (1971)
Fascination (1979)
La morte vivante (1982)

Flani vampirici d’epoca / 2

Un’altra serie di pubblicità cinematografiche sui quotidiani italiani, questa volta per la trilogia della Hammer ispirata al romanzo Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu. Da notare gli slogan fantasiosi ideati per lanciare i tre film.


Vampiri amanti (Vampire Lovers, 1970)
“Un’orgia di morte era il suo modo di amare”

Mircalla l’amante immortale (Lust for a Vampire, 1971)
“Mircalla… figlia del demonio”
“Strepitoso successo della figlia di Satana”

Le figlie di Dracula (Twins of Evil, 1971)

I canini del vampiro

I canini aguzzi dei vampiri hanno solo un sessantennio. Sono entrati nel nostro immaginario solo quando sono stati indossati da Christopher Lee in Dracula (Dracula il vampiro, 1958) e nello stesso periodo in un film messicano con German Robles, El vampiro (La stirpe dei vampiri, 1957).

Su questo tema, e sul rapporto tra la figura del vampiro e i media, ecco un pdf scaricabile, tratto dal Cd-Rom che contiene gli atti del convegno internazionale tenuto a Procida nel 1999, “Orizzonti del fantastico alle soglie del terzo millennio”. Il convegno, promosso dall’Università degli Studi di Roma Tre – Dipartimento di Letterature Comparate, era stato voluto a Procida dal professor Romolo Runcini, grande esperto del fantastico che proprio nell’isola si era da poco trasferito. Al convegno presero parte, tra gli altri, Eric S. Rabkin, Darko Suvin, Luigi Lombardi Satriani e Valerio Caprara.

Vampiri in VHS / 1

Dalla non lontana, ma già arcaica, epoca del VHS ecco una selezione di copertine vampiresche per non perdere la memoria di quel periodo appassionante, quando si guardavano con qualità inguardabile i film prediletti. Il VHS è morto, le sue copertine sono non-morte. Qui alcune copertine per Bram Stoker’s Dracula di Francis Ford Coppola.

VHS inglese
VHS italiana
VHS La Repubblica
VHS SpeakUp
VHS inglese del making of

Pubblicità vampiresche / 1

Il vampiro è stato spesso utilizzato per le pubblicità, nonostante alcuni esperti del settore ritengano che non vadano associate merci a immagini o personaggi negativi. Ma negli ultimi decenni questo tabù è stato più volte violato e anzi il vampiro è servito per promuovere ogni tipo di merce. Qui di seguito una prima scelta.

Il vampiro per vendere capi di moda
Il vampiro per vendere dentrifici
“Tv via cavo – Più scelta quando si guarda la televisione”
Una vamp/vampira promuove un’auto

Flani vampirici d’epoca / 1

Una prima rassegna delle pubblicità sui quotidiani per film vampireschi, i cosiddetti flani. Il flano più “antico”, del 1972, contiene una bizzarra curiosità, che la dice lunga sugli espedienti dei distributori italiani di allora per promuovere i film. Secondo il flano qui sotto, 1972: Dracula colpisce ancora! sarebbe il primo film che vede insieme Christopher Lee e Peter Cushing. Come tutti gli appassionati ben sanno, si tratta semmai di uno degli ultimi film con la presenza della grande coppia horror, che a quella data era già apparsa insieme in almeno 17 pellicole.

1972: Dracula colpisce ancora! (Dracula A.D. 1972, 1972)
Le notti di Salem (Salem’s Lot, 1979)
Il buio si avvicina (Near Dark, 1987)
Stress da vampiro (Vampire’s Kiss, 1988)

Heyerdahl il vampiro

Tra tanti vampiri ripetitivi o imitativi, è arrivato un nuovo vampiro diverso da tutti gli altri: è Sam, protagonista della serie tv Van Helsing e interpretato da Christopher Heyerdahl. L’attore canadese, di origini norvegesi, si è rivelato una nuova star del firmamento vampiresco, annoverando al suo attivo varie presenze sul grande e piccolo schermo in veste di succhiasangue.

Christopher Heyerdahl è Sam in Van Helsing

Il volto dal profilo a mezzaluna e ossuto ne fa fisicamente un incrocio tra il più celebre Dracula cinematografico, Christopher Lee, e il minaccioso Tall Man della saga “Phantasm”, Angus Scrimm. Con Scrimm condivide anche la statura considerevole, un metro e 93 centimetri, cioè 3 centimetri meno di Lee.

La sua prima apparizione come vampiro risale al 1993 con la serie tv per adolescenti Are You Afraid of the Dark? (Hai paura del buio?), nell’episodio della seconda stagione The Tale of the Midnight Madness. Un cinema in crisi ritrova pubblico grazie a una pellicola muta sui vampiri, un Nosferatu apocrifo. Truccato come Max Schreck nel film di Murnau, con l’aggiunta di orrende vene in rilievo sulle tempie, il Nosferatu di Heyerdahl esce dallo schermo su cui è proiettata la sua immagine e insegue i due ragazzi al centro dell’episodio. Lo pseudo-Nosferatu sarà dissolto dal sole come di consueto.

Heyerdahl è Nosferatu in Are You Afraid of the Dark?

E’ poi la volta della fortunata saga cinematografica “Twilight” che vede Heyerdahl nel ruolo del vampiro Marcus, uno dei tre capi dei Volturi, in New Moon (2009) e Breaking Dawn parte 1 (2011) e 2 (2012). Con lunghi capelli sulle spalle, il volto pallido, Marcus è un millenario vampiro italiano triste e taciturno, a causa della morte della sua amata Didyme. Ha il potere di scoprire i legami emotivi tra le persone.
L’invenzione più interessante di Heyerdahl è la voce sussurrante del vampiro, con accenni di falsetto, che diventerà caratteristica anche del suo successivo personaggio vampiresco, Sam in Van Helsing.
Nonostante appaia introverso e depresso, Marcus non manca di gelida ferocia: lo si vede in un flashback staccare con le mani la testa a una donna e gettarla in un falò.
In Breaking Dawn part 2 assistiamo alla sua morte, che in realtà non avviene realmente, ma è solo una visione del possibile futuro se i Volturi non rinunciassero allo scontro con la famiglia vampiresca Cullen e i loro alleati. Durante lo scontro corpo a corpo tra i clan rivali, in un campo innevato, Marcus capisce che sta per essere ucciso e sollevando le braccia mormora un liberatorio “Finally…” (“Finalmente…”).
Alla sua partecipazione alla saga di Bella e Edward l’attore ha alluso in una battuta del telefilm Sanctuary, dove interpreta un uomo di Neanderthal che combatte ibridi-vampiri: coperto da un makeup scimmiesco, in una sequenza Heyerdahl dichiara di adorare il personaggio di Marcus dell’universo “Twilight”, una strizzata d’occhio al pubblico più attento.


Heyerdahl è Marcus nella saga Twilight

Dopo aver incarnato con successo il triste Marcus, Heyerdahl torna autorevole vampiro nella quinta stagione della serie tv True Blood, dove interpreta uno dei membri dell’Autorità che controlla i vampiri di tutto il mondo, reprimendo eccessi e “blasfemie”, Dieter Braun. Già filosofo nel Settecento, Braun ora agisce come un inquisitore moderno, torturando i vampiri sospetti con abili tecniche, dalla luce ultravioletta all’argento liquido iniettato nelle vene: proprio quest’ultima tortura subisce Bill Compton, il principale vampiro di True Blood. Vestito elegantemente, una sottile barba a incorniciargli il viso, Braun appare tranquillo e affabile mentre interroga le sue vittime, un po’ come i cattivi di James Bond. Nasconde però un carattere forte e inflessibile che non accetta le deviazioni dalla radicate credenze delle comunità vampirica, prima fra tutte la convinzione che Dio creò la vampira Lilith (prima di Adamo ed Eva) a sua immagine e somiglianza. Il suo rigore gli costerà la vita, finendo decapitato dal sordido Russell Edgington, antico vampiro ribelle all’Autorità.


Dieter Braun (Heyerdahl) riceve il sangue di Lilith in True Blood

La carriera vampirica di Heyerdahl culmina nella sua presenza nella serie tv Van Helsing, iniziata nel 2016. Sam, il personaggio che interpreta, è un uomo dalla psicologia tormentata. Un flashback lo mostra bambino, sordo e introverso, che acceca il padre prete con una matita e poi gli stacca un dito con un morso mentre viene trascinato in riformatorio. Bullizzato e maltrattato, si trasforma in spietato assassino e tale rimane dopo che il mondo è stato rovesciato dai vampiri insorti. Trasformato in vampiro continua la sua carriera di seriali killer, ostentando una collana fatta di dita mozzate. Inevitabile lo scontro con Vanessa Van Helsing, discendente del celebre vampirologo, che con i suoi poteri eccezionali combatte ovunque i vampiri. La voce di Sam è storpiata dalla sordità ed è una caratteristica fondante del personaggio: indimenticabile è il ricorrente richiamo “Mohamad!” che urla mentre cerca il ragazzo afroamericano di cui si è innamorato o le nenie che canta tra un crimine e l’altro.

Le cantilene di Sam, il vampiro serial killer

Le smorfie di Sam, con la bocca perennemente sporca di sangue, ne fanno una sorta di Joker vampiresco che ride in modo demenziale mentre commette i più atroci delitti. Il personaggio ha anche una sua dolente tragicità, la sofferenza del diverso e del malato, ben resa dalla mimica di Heyerdahl e dalla postura curva e claudicante con cui si muove.

Oltre a quelli qui citati, ci sono altri due titoli vampireschi nella filmografia di Heyerdahl. E’ vittima di una coppia di vampiri in A Matter of Style, episodio umoristico della serie tv The Hunger (1997), ed è viceversa un cacciatore di vampiri nel film Blade: Trinity (2004). Insomma, l’attore (nonostante una ricca carriera che lo ha visto, tra l’altro, impersonare H. P. Lovecraft, Charles Dickens, Jack lo Squartatore e Rasputin) si sta rivelando una delle grandi icone dell’immaginario vampirico. Il suo Sam, che tornerà prossimamente nella quarta stagione di Van Helsing, rimarrà senza dubbio nella memoria come uno dei vampiri più psicopatici e squilibrati, capaci però di suscitare una complice simpatia.

Il vampiro Sam (Heyerdahl) in Van Helsing