ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 7bis

Mute Vampire italiane

L’ondata di Vampire avviata dal 1897 grazie alla poesia The Vampire di Rudyard Kipling e all’omonimo quadro di Philip Burne-Jones sfiorò anche l’Italia. Da noi, i vampiri leggendari avevano avuto relativa popolarità, nonostante all’estero si fantasticasse spesso di un’Italia “terra di vampiri”: nel pieno della moda vampiresca di inizi Novecento, ad esempio, Francis Marion Crawford ambientò in Calabria il suo racconto For the Blood Is the Life (Perché il sangue è la vita, 1905).

Una riproduzione del quadro di Philip Burne-Jones da “Harper’s Weekly” (31 gennaio 1903)

Per quanto il vampiro vero e proprio non avesse un’attenzione particolare in Italia, sappiamo però che il fantastico, il gotico e il macabro non erano affatto estranei alla cultura italiana di allora, come hanno dimostrato dettagliatamente, tra gli altri, gli studi di Fabrizio Foni. Così, anche la Vampira kiplinghiana ha avuto un suo passaggio fugace in Italia.

Come spesso avveniva nella cultura nostrana, sapevamo innovare e rielaborare le mode estere: nel caso della Vampira si riuscì a unire la donna fatale al western. Nel dicembre 1913, infatti, esce nelle sale La vampira indiana, prodotto dalla torinese Aquila Films. A dirigerlo e interpretarlo era Roberto Roberti, pseudonimo di Vincenzo Leone, molto attivo nel cinema muto. E nel cast c’era Bice Waleran (o Valeran), pseudonimo di Edvige Valcarenghi: Roberti e la Waleran diventeranno genitori, nel 1929, di Sergio Leone, destinato a una splendida carriera proprio nel cinema western.

Il western non era estraneo all’immaginario italiano di quegli anni. Tra il 1908 e il 1910 Emilio Salgari aveva pubblicato una trilogia di romanzi definita “Ciclo del Far West” e le atmosfere western erano apparse clamorosamente nell’opera lirica di Giacomo Puccini La fanciulla del West (1910). Spesso negli studi di storia del cinema si definisce La vampira indiana “il primo western italiano”, ma non è del tutto corretto. Nel maggio 1913, quindi diversi mesi prima del film di Roberti, un’altra casa produttrice torinese, la Savoia Film, aveva realizzato Nel vortice del destino, vero e proprio western.

La particolarità di La vampira indiana sta nella fusione del western con la figura della femme fatale “vampiresca”. La donna del titolo è una “pellerossa” che, per aiutare i fratelli, uccide un uomo e fa accusare e condannare un innocente. Ma la figlia di quest’ultimo riesce a far riconoscere l’innocenza del padre. Commentava il quindicinale “Il Maggese cinematografico” (n. 1, 1914), descrivendo la cattiveria della “vampira”: “Ammettiamo pure che una donna indiana commetta dei crimini per beneficare i suoi fratelli, ma che faccia tutto da sé è un po’ troppo! Ed ha molto da fare e cose le più svariate e difficili. Non neghiamo però che ha della grande abilità. Entra ed esce nei palazzi e fa il comodo suo senza trovare alcuno che le sbarri il passo. Ammazza, telefona e fa condannare in sua vece un povero innocente”.

Il film è perduto, sopravvive una solo foto. “La Stampa” (29 dicembre 1913) in un breve trafiletto definiva La vampira indiana “straordinario cinedramma d’eccezionale interesse drammatico e con messa in scena veramente sfarzosa”, aggiungendo che “si prevede un successo grandissimo”.

L’unica foto esistente di La vampira indiana

A causa della scarsa documentazione e delle poche recensioni dell’epoca, non possiamo sapere se la Vampira fosse interpretata da Bice Waleran o da quella che risulta l’attrice principale del film, Antonietta Calderari, vera star delle produzioni Aquila e spesso ritratta in pose da vamp. Sergio Leone pareva certo, comunque, che fosse sua madre Bice la donna a cavallo che compare nell’unica foto esistente. Nel saggio di Lorenzo Codelli Il West in Europa, l’Europa nel West (in  Storia del cinema mondialeL’Europa. Miti, luoghi, divi, Volume I, a cura di Gian Piero Brunetta, Einaudi, Torino 1999) si legge: “Ricordo bene come Leone osservasse intensamente quell’unica foto rimasta de La vampira indiana – una scena in cui sua madre a cavallo in tenuta da pellirossa è attorniata da altri due indiani con tante piume folte sul capo, sullo sfondo d’un accampamento – quasi tentando di animare quel reperto immobile”. Codelli aggiunge che Leone “non si dava pace che tra i fortunosi ritrovamenti [delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone] non comparisse ancora quella mitica pellicola paterna”. E Vittorio Martinelli, ricordando i suoi incontri con Leone, in compagnia  di Aldo Bernardini durante la stesura di un saggio su Roberto Roberti, scrive: “Sergio Leone ci mostrò con molto orgoglio una fotografia di La vampira indiana, unica testimonianza rimasta di quell’impresa pionieristica e, a libro pubblicato, si meravigliò che avessimo trovato anche alcuni brani della critica del tempo” (Vittorio Martinelli, Laggiù nell’Arizona, in “Bianco & nero” n. 3, 1997).

Dunque nemmeno Sergio Leone possedeva altri materiali e documenti su quel film interpretato dai suoi genitori. Eppure era molto legato a La vampira indiana che vedeva quasi come un presagio del suo successo nel “western all’italiana” (in omaggio al padre firmò il suo primo film western, Per un pugno di dollari, con lo pseudonimo di Bob Robertson, cioè “figlio di Roberto”). Un fumetto dedicato nel 2019 alla vita del regista, intitolato Sergio Leone e pubblicato da Glénat (con disegni di Philan e testi di Noël Simsolo, amico di Leone e studioso del suo cinema), ritrae in una vignetta Sergio bambino che nel 1937 scopre la foto della madre in La vampira indiana.

Sergio Leone bambino guarda la foto della madre in La vampira indiana nel fumetto del 2019

Una vampira della notte

Le Vampire italiane dei primi anni del Novecento non finiscono con La vampira indiana. Nel 1914 la Aquila Films vende all’americana Greene’s Feature Photo Plays un film che viene distribuito come Vampires of the Night (paradossalmente è lo stesso titolo di lavorazione che nel 1935 sarà assegnato a Mark of the Vampire di Tod Browning). Si presume che il cast fosse simile a quello di La vampira indiana, perché i film Aquila di quel periodo erano quasi tutti realizzati con gli stessi attori.

Secondo la novelization del film, pubblicata da “Illustrated Film Monthly” (marzo-agosto 1914), la trama muove da uno scambio di neonati nella culla: Judith, la figlia di un criminale che è stato impiccato, viene sostituita alla piccola Edna, duchessa di Burville. Crescendo, Judith manifesta la stessa anima malvagia di suo padre e nonostante sia una duchessa guida una banda di delinquenti. Innamorata di un poeta “alla Byron”, Lord Norman, la malvagia Judith si vede portar via l’oggetto del suo amore proprio da Edna, ridotta a cantare in strada per sopravvivere. Quando la verità sulle sue origini viene svelata, Judith si uccide.

La novelization di Vampires of the Night su “Illustrated Film Monthly” (marzo-agosto 1914)

Si può ipotizzare, come fa Gary D. Rhodes, che Vampires of the Night fosse la versione americana di La belva di mezzanotte (o La belva della mezzanotte), uscito in Italia nel settembre 1913. Secondo Aldo Bernardini e Vittorio Martinelli (Il cinema muto italiano, 1905-1931, CSC-Nuova Eri, Roma-Torino, 1991-1996), La belva di mezzanotte era interpretato nel ruolo della duchessa da Claudia Gaffino Zambuto e nella parte del Lord dal marito Gero Zambuto (forse anche regista del film, suo esordio dietro la macchina da presa): entrambi erano stati da poco reclutati dalla Aquila Films. Viceversa “Illustrated Film Monthly” indica come protagonista femminile Antonietta Calderari, ponendo la sua foto in apertura della novelization di Vampires of the Night.

La similitudine tra le trame dei due film e l’assonanza dei titoli è tale da rendere quasi certo che La belva di mezzanotte sia Vampires of the Night. Comunque, i nomi dei personaggi in La belva di mezzanotte differiscono da quelli riportati dalla novelization americana di Vampires of the Night: almeno secondo quanto si evince da “La Vita Cinematografica” (15 ottobre 1913), i due protagonisti principali del film italiano si chiamavano duchessa di Burleigh e Lord Hashton. È possibile inoltre che una stessa attrice interpretasse entrambi i ruoli, Edna e Judith, dato che veniva sottolineata l’incredibile somiglianza tra le due donne.

Antonietta Calderari

Altre figure vampiresche del cinema muto in Italia

La presenza nel cinema italiano della Vampira di origine kiplinghiana si riduce dunque a due titoli. Inoltre, Dracula non era stato ancora tradotto nella nostra lingua e i film esteri che abbiamo citato nell’articolo precedente non arrivavano nelle sale italiane, già occupate dalla innumerevole produzione cinematografica nostrana. La critica, poi, stigmatizzava ogni incursione del cinema italiano nel macabro o nell’orrorifico, reputando inadatta al gusto “mediterraneo” ogni storia soprannaturale di vampiri o fantasmi.

Se il Decadentismo aveva offerto donne dominanti e disinibite che destabilizzavano l’uomo, il cinema muto italiano non sembra quindi assumere la figura della Vampira di Kipling. Ma l’immaginario non era certo impermeabile alle suggestioni della voga “straniera” delle donne fatali dai tratti vampireschi. Anzi, il nostro cinema muto aveva creato il fenomeno peculiare delle Dive, strette parenti delle Vampire, ma con significative differenze: “Le dive italiane non uccidono per pura crudeltà, ma perché i loro personaggi si ribellano contro molestia sessuale, stupro o adulterio. Sotto questo aspetto, la diva italiana non accoglie la vocazione omicida gratuita o egoistica della femme fatale. In altre parole, la diva non uccide per ottenere un avanzamento sociale” (Angela Dalle Vacche, Diva. Defiance and Passion in Early Italian Cinema, University of Texas Press, Austin 2008).

L’uomo esanime e la donna dominante in Il fuoco (1916)

Tra le attrici che per prime sono state caratterizzate come interpreti di donne fatali spicca Pina Menichelli, a partire da Il fuoco (1916), film che contiene un’immagine della perfida donna incombente su un uomo riverso molto evocativa del quadro The Vampire di Burne-Jones. Come in alcune pellicole americane sulla Vampira, i film italiani sulle Dive mettevano a volte in contrapposizione le figure della donna senza scrupoli che seduce e porta l’uomo alla distruzione e della Madre che tutela la famiglia e i figli. Molte erano le storie “in costume” che inscenavano donne crudeli o perverse sotto le spoglie di grandi personaggi femminili (reali o leggendari) dell’antichità, regine e seduttrici dell’Antica Roma o di secoli lontani.

Il nesso con la sottrazione di energia o di sangue, determinante nel successo della Vampira di Kipling, non pare presentarsi nel cinema muto italiano. L’uso stesso del termine “vampiro” è rarissimo, così come il riferimento ai vampiri soprannaturali nelle sceneggiature. Gli unici altri esempi (tutti perduti) di titoli che contengono quel termine, oltre a La vampira indiana, sono La torre dei vampiri (1914), Il vampiro (1915) e infine La carezza del vampiro (1918).

Prodotto dalla Ambrosia film e distribuito in America come The Vampire’s Tower, il film La torre dei vampiri era diretto da Gino Zaccaria e raccontava di una torre attorniata, secondo una leggenda, da pipistrelli vampiri in cui si sono incarnate le anime dei dannati: lì si nasconde  l’ex boia di Parigi (Oreste Grandi), scacciato dalla Rivoluzione, che si accanisce contro una coppia in procinto di matrimonio, la Fornarina (Lia Negro) e Raimondo (Alfredo Bertone). Il termine “vampiro” appare utilizzato quindi per descrivere personaggi criminali particolarmente spietati. Un delinquente è anche il protagonista di Il vampiro, prodotto dalla Film Artistica Gloria di Torino e diretto da Vittorio Rossi Pianelli, con Dante Cappelli e Lydia Quaranta. Uscito nel gennaio 1915, subì i tagli della censura per una scena cruenta. Anche se Bernardini e Martinelli nella loro storia del cinema muto italiano indicano Luigi Capuana come fonte letteraria del film, certo non traeva ispirazione dal suo racconto Un vampiro (1904) che aveva ben diverso contenuto. Così infatti è sintetizzata la trama del film su “La Vita Cinematografica” (22 febbraio1915): “Un cotale che vuole sposare per forza una ragazza che ama un giovane cugino. Un delitto che porta l’innocente in galera. Punizione del colpevole e trionfo della giustizia”.

Altrettanto metaforico sarà l’uso del termine per il titolo del film La carezza del vampiro, con visto della censura del novembre 1918, ma apparentemente distribuito prima all’estero che in Italia: anche in questo caso, il “vampiro” è un malfattore che agisce nel mondo dell’aristocrazia e finisce sconfitto niente meno che da Maciste.