ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 9

Arriva Theda Bara

Dopo il 1913 il tema della Vampira sembrava in declino. Poi, improvvisamente, a quasi 20 anni dalla pubblicazione la poesia di Rudyard Kipling The Vampire torna non solo di attualità, ma inaugura anche una lunga stagione nella storia del cinema: la stagione delle vamp. Tutto grazie a un film che esce nelle sale americane nel gennaio 1915, A Fool There Was, diretto da Frank Powell e prodotto dalla Fox. Destinato a un grandissimo successo, lanciò il personaggio della vamp, interpretato da Theda Bara che all’epoca era una sconosciuta attrice di teatro. Il film era basato sul testo teatrale e il romanzo omonimi di Porter Emerson Browne, con alcune pagine riportate quasi alla lettera dalla sceneggiatura.

Dopo i tanti adattamenti dei versi kiplinghiani per il palcoscenico e per lo schermo, il film A Fool There Was dà un aspetto definitivo alla Vampira, tramite gli occhi, le espressioni e l’abbigliamento di Theda Bara. Il produttore William Fox per la scelta dell’attrice si consultò con Robert Hilliard, ormai esperto dopo aver interpretato per anni la parte maschile principale a teatro, che gli confidò le grandi difficoltà incontrate per il ruolo della Vampira. Decidere chi dovesse recitare in quel ruolo era essenziale e Fox ha raccontato sia come si giunse alla scelta dell’attrice sia come si creò una sua biografia fittizia: “Abbiamo fatto un provino a una ragazza di nome Theodosia Goodman, senza esperienza nel cinema, e abbiamo deciso che andava bene. Era figlia di un sarto di Cincinnati. Miss Goodman diede in quel film un’interpretazione davvero notevole, ma avevamo un problema: se volevamo continuare a servirci di lei, il nome non era attraente per il pubblico e dovevamo trovarle un nome d’arte. Un giorno il nostro dipartimento pubblicità si accorse che sullo schermo c’era stato ogni tipo di donna, salvo un’araba. Il nostro direttore della pubblicità riteneva che al pubblico sarebbe piaciuta un’araba e ideò la storia che Miss Goodman fosse nata in Arabia: suo padre era un arabo e sua madre una donna francese che aveva recitato nei teatri di Parigi. Così abbiamo preso la parola ‘Arab’ che letta al contrario dava ‘Bara’ e abbiamo abbreviato il nome Theodosia in ‘ Theda’, da qui ‘Theda Bara’. Poi il direttore ha detto: ‘Non prendiamo una decisione senza aver capito se funziona. Fatemi invitare i giornalisti per un’intervista e vediamo se se la bevono’. L’ha vestita con tipici costumi arabi, l’ha circondata dell’atmosfera adatta e quindi sono entrati i giornalisti. Ha detto: ‘Voglio farvi conoscere Miss Bara’ e ha raccontato la storia, spiegando che lei non sapeva una parola di inglese. Quel giorno i giornalisti sono tornati in redazione per scrivere che la Fox Film Corporation aveva scoperto la più grande attrice del mondo” (Upton Sinclair, Upton Sinclair Presents William Fox, autopubblicato, Los Angeles 1933).

In realtà i ricordi di Fox non erano del tutto precisi, Theda parlò con i giornalisti e forse fu proprio lei a scegliere lo pseudonimo che la renderà famosa: un doppio anagramma, perché veniva spiegato come Arab Death, morte araba.

Theda Bara e Edward José in A Fool There Was

La Vampira di A Fool There Was è una Cenerentola “nera” che ottiene la sua scalata sociale grazie all’attrazione sessuale, depredando tanto giovanotti perbene quanto padri di famiglia danarosi e portandoli dalla rovina alla morte. Il vampirismo si rivela nel prosciugamento delle vittime (di soldi ed energie vitali) e nel contestuale arricchirsi e rinvigorirsi della carnefice. La vamp di Theda Bara non è per niente “inconsapevole”, come la dipingeva invece Kipling, ma determinata e astuta nelle sue trame vampiresche. L’attrice non mancava di sottolineare i contenuti sovversivi, rispetto alla mentalità dominante, del suo personaggio: “Credetemi, per ogni donna vampiro ci sono dieci uomini dello stesso tipo: uomini che prendono tutto alle donne, amore, devozione, bellezza, giovinezza, e non danno niente in cambio! V sta per Vampira e sta anche per Vendetta. La vampira che interpreto è la vendetta del mio sesso sui suoi sfruttatori. Vedete… ho il volto di una vampira, forse, ma il cuore di una feministe” (“The Montgomery Advertiser”, 21 marzo 1915).

Grazie al successo clamoroso di quel film, Theda Bara recitò in una serie di innumerevoli pellicole dove interpretava la donna fatale, con un culmine in Salome (1918) prodotto ancora dalla Fox e diretto da Gordon Edwards. Quasi tutti i suoi film sono perduti (complice anche il devastante incendio che distrusse i magazzini della Fox), ma A Fool There Was è viceversa miracolosamente sopravvissuto. Possiamo quindi ripercorrerne la trama nel dettaglio, un espediente utile perché rivela l’intero portato degli anni precedenti nella costruzione della Vampira, da Kipling ai continuatori sulla carta stampata, sul palcoscenico e sullo schermo. A Fool There Was è la summa di tutti i tasselli accumulati nel periodo intercorso dal 1897.

Theda Bara e Edward José in A Fool There Was

La trama

Un uomo elegante, di mezza età (Edward José), è seduto a un tavolo e ammira due rose sorridendo. Le avvicina al viso per sentirne il profumo. Una didascalia riporta la prima strofa della poesia di Rudyard Kipling The Vampire e le immagini passano a una donna (Theda Bara) in abito lussuoso e cappellino piumato, in piedi accanto a un vaso con due rose. Anche lei porta i fiori vicino al volto per aspirarne il profumo, sorridente. Ma il suo gesto è ben diverso da quello dell’uomo: strappa i petali, li schiaccia nella mano e li guarda ridendo.

L’uomo è John Schuyler, ricco avvocato e politico, che vive felice con la moglie Kate (Mabel Frenyear) e la figlioletta (Runa Hodges). Suo amico è Tom (Clifford Bruce), fidanzato con Elinor (May Allison), la sorella di Kate. La donna, invece, è indicata in un cartello solo come “La Vampira”, senza un nome proprio. La vediamo litigare irritata con un giovanotto barcollante, Reginal Parmalee (Victor Benoit). I due passeggiano, poi la Vampira è attratta da una vivace bambina bionda, la figlia di Schuyler, che gioca con la madre e la zia. Improvvisamente la bambina corre verso la Vampira e prende un fiore caduto a terra. La Vampira sorride e sta per accogliere il fiore dalle mani della bimba, quando la madre si colloca tra loro, afferra il fiore e lo butta via, dando le spalle alla Vampira, come se non esistesse. “Un giorno te ne pentirai”, recita a questo punto una didascalia.

Il giorno dopo, un telegramma annuncia a Schuyler che è stato nominato rappresentante speciale del governo statunitense in Inghilterra e deve partire subito a bordo del Gigantic (un nome che allude ovviamente al Titanic, naufragato nel 1912 e ancora ben impresso nella memoria degli spettatori). La Vampira legge la notizia dell’importante incarico di Schuyler e decide di seguirlo. Quando Parmalee lo apprende, ha una crisi di rabbia (“Mi hai rovinato, demonio, e ora mi getti via!”) e distrugge l’appartamento della Vampira, tra l’altro calpestando dei fiori, tema ricorrente nel film.

Al molo, i familiari e Tom stanno aspettando Schuyler per salutarlo prima che parta. La Vampira scende da un taxi vicino al porto ed è avvicinata da un uomo vestito miseramente, un mendicante curvo e magro: “Vedi come mi hai ridotto, mentre tu prosperi ancora, gatto infernale [hell cat]!”. Per tutta risposta, lei ride e chiama un poliziotto che porta via il poveraccio. Appena sale sulla nave, la Vampira suscita subito le attenzioni dei passeggeri di sesso maschile.

Da un altro taxi scende Parmalee. Il mendicante si rivolge a lui: “Sapevo che l’avresti seguita, Parmalee! Il nostro predecessore, Van Dam, marcisce in prigione a causa sua! Guarda cosa mi ha fatto… guarda cosa sta facendo a te!” (se ne deduce che la Vampira annovera già almeno tre vittime). Sulla nave, la Vampira è sul ponte, in mano tiene una grossa rosa dalla quale aspira il profumo, con un sorriso. Anche Parmalee è salito a bordo e raggiunge la donna, i due discutono. Parmalee estrae una pistola, ma lei resta immobile e continua a sorridere, abbassando l’arma con la rosa che impugna. Ridendo, la Vampira avvicina le labbra a quelle di Parmalee. “Baciami, stupido mio!” [“Kiss me, My Fool!”], dice in una didascalia destinata a rimanere celebre. Lui, allora, si punta la pistola a una tempia. Il montaggio passa ad altre immagini della famiglia Schuyler, poi a un’inquadratura di Parmalee a terra, morto. Tom chiede cosa sia successo a un lavoratore della nave che sta pulendo il sangue. “Era solo un ragazzo, signore. E quella se ne stava lì a ridere come un demonio”. Schuyler vede passare la barella con il cadavere del suicida e ne resta impressionato. Poi si congeda dai suoi familiari, ma la Vampira li osserva da un oblò, mentre si ammira in uno specchietto e si incipria. Schuyler la vede, distraendosi dai saluti, e i due si scambiano uno sguardo. Appena Schuyler è solo, con in mano i fiori che la moglie gli ha donato, la Vampira lo avvicina e lascia cadere a terra la sua grossa rosa, battendogli sulla spalla per invitarlo a raccoglierla. Lui è talmente confuso che prende la rosa, ma per errore consegna alla Vampira il mazzolino di fiori della moglie. La Vampira si allontana sorridendo soddisfatta e torna a sedersi sulla sua sedia a sdraio, dopo aver fatto collocare da un inserviente la sedia riservata a Schuyler accanto alla sua.

Due mesi dopo, la Vampira è distesa tra i palmizi di un hotel, in Italia. Tiene una mano sul petto di Schuyler, coricato con la testa appoggiata sul suo ventre, e gli offre da bere. Lei lo accarezza e Schuyler le bacia la mano, portandosela poi sul cuore, mentre la donna sorride. Schuyler si addormenta e la donna alza lentamente le braccia sopra la testa, stirandosi, con un gesto che appare anche di trionfo o il dispiegarsi delle ali di un uccello predatore.

Il caso vuole che il medico della famiglia Schuyler (interpretato dal regista del film, Frank Powell) con la moglie (Minna Gale) siano arrivati in vacanza proprio nell’hotel di Sorrento dove si trova la coppia adulterina e scorgano Schuyler che scambia effusioni con la Vampira.

In America, la sorella di Kate legge un articolo di giornale dove si parla, senza farne il nome, di un milionario in missione diplomatica che sarebbe stato sedotto da “una nota donna della specie vampiresca, non estranea al suicidio del giovane Reginal Parmalee a bordo del Gigantic”. La rovina di Schuyler è imminente: il Segretario di Stato americano gli annuncia che per il suo comportamento indecoroso è stato rimosso dall’incarico.

Schuyler e la Vampira vanno ad abitare insieme in un appartamento del milionario. Sei mesi dopo, Schuyler è ormai ridotto a una larva. Non si regge in piedi, ha scatti d’ira e beve ininterrottamente. La Vampira lo ha lasciato, è tornata nella sua casa, con un nuovo partner, e organizza feste licenziose.

Kate va da Schuyler in un estremo tentativo di riconciliazione e lo trova ubriaco, in stato confusionale. La Vampira, avvisata di quella visita da un informatore, irrompe nell’appartamento e fissa a lungo la rivale, poi si volta verso Schuyler e lo bacia sulla bocca. Mentre l’uomo si inginocchia e bacia la mano della Vampira raggiante e trionfante, Kate se ne va sconfitta.

Una settimana dopo Schuyler partecipa a una sfrenata festa da ballo e quando scorge la Vampira che si intrattiene con un altro, furioso di gelosia, colpisce l’uomo, poi minaccia anche lei impugnando una bottiglia, ma un abbraccio della perfida amante lo immobilizza.

Kate ricorre a un ultimo espediente per riportare il marito alla ragione, presentandosi da lui con la figlioletta. Si fa precedere da Tom che prende Schuyler a calci e pugni per risvegliarlo dal suo torpore. Poi entrano Kate e la bambina che, felice, abbraccia il padre. La scena è osservata dalla Vampira, in camicia da notte. Non appena la Vampira si avvicina, Schuyler si avvinghia a lei voltando le spalle ai suoi familiari. Tom, Kate e la bimba non possono che andarsene.

Schuyler, nel buio, striscia come un verme scendendo la scala della sua casa e vede in una sorta di allucinazione la moglie e la figlia, poi rivive il momento in cui sulla nave veniva portato via il cadavere di Parmalee. Si trascina a fatica nel salotto, devasta gli arredi con un bastone e una bottiglia, quindi stramazza a terra. Ancora un cartello con le parole di Kipling: “Un poco di lui visse, ma il più di lui morì”. Ora la Vampira, tenendo tra le mani un mazzo di rose, è inginocchiata sul corpo riverso di Schuyler. Con un sorriso, lascia cadere dei petali sul volto dell’uomo e poi li soffia via. L’ultimo cartello, sulle immagini in dissolvenza, recita: “(proprio come te e me)”.

Rose e vampire destabilizzanti

Il legame tra il film A Fool There Was e The Vampire di Kipling era tale che si decise di aprire la prima proiezione allo Strand Theater di New York con una lettura integrale della poesia, stampata anche nel materiale promozionale. Sullo schermo era resa per immagini la descrizione precisa del “fool” che si fa irretire da una Vampira. Il ritratto di Schuyler è impietoso. È un uomo sottomesso e debole che, come nella poesia, permette alla sua amante di umiliarlo in qualsiasi modo: subisce ogni angheria (quando riceve una lettera della moglie, la Vampira gliela toglie di mano con furia e la strappa) e sopporta che la Vampira rida di lui mentre precipita nell’alcolismo. Estenuato, a un certo punto ha un gesto di ribellione e porta una mano alla gola della Vampira, ma lei risponde con un sorriso e lo abbraccia.

A fare da contraltare a Schuyler c’era il personaggio di Tom, dalla maschia mascella, che diventa un protagonista importante della storia, incarnando l’uomo che non si fa distruggere dalle “vampire” e che protegge la famiglia tradizionale. Anche lui, però, soccombe e deve lasciare spazio alla forza travolgente della Vampira.

La scena in cui la Vampira bacia sulla bocca Schuyler di fronte alla moglie fece sensazione, turbò il perbenismo dell’epoca e tuttora conserva un suo impatto. Vediamo la moglie soccorrere il marito barcollante e guidarlo verso la porta di casa, da cui emana la luce della redenzione. Ma l’ombra della Vampira si insinua tra i due. Schuyler si accascia su una parete, lei lo imprigiona contro il muro e lo bacia. Quando l’uomo si inginocchia di fronte alla Vampira e le bacia una mano, per la moglie non c’è altra possibilità che andarsene.

Il quadro di Burne-Jones sulla copertina del romanzo di Browne, riproposto da Theda Bara nel film del 1915 e in un servizio fotografico

Se il film gioca con i rimandi alla poesia di Kipling, anche attraverso le ripetute citazioni nelle didascalie, alcune immagini evocano il quadro di Philip Burne-Jones: Theda Bara in più momenti indossa una camicia da notte bianca, con i lunghi capelli scuri sciolti, presentandosi al pubblico come una replica della donna del dipinto The Vampire. E in una serie di scatti fotografici dell’attrice, realizzati poco tempo dopo e diventati celebri, compare nella tipica posizione della donna nel quadro di Burne-Jones, china su una vittima ridotta addirittura a scheletro.

Il film A Fool There Was eredita invece da Porter Emerson Browne la famosa frase “Kiss me, my fool!”, consacrandola e rendendola luogo comune duraturo. Anche il tema delle rose è tratto da Browne. Nel film, sono quei fiori a scatenare l’ira della Vampira, quando la bambina raccoglie una rosa da terra, ma la madre le impedisce di donargliela. Ed è con una rosa che la Vampira abbassa la pistola di Parmalee, con una rosa attrae Schuyler facendolo confondere con i fiori che gli ha dato la moglie, infine con i petali di una rosa cosparge il corpo della sua vittima. Secondo Anne Morey e Claudia Nelson (Phallus and Void in Kipling’s “The Vampire” and Its Progeny, in “Frame” 24.2, novembre 2011) quei fiori alludono ai genitali femminili usati come un’arma, pronti a castrare il maschio.

Anche a causa di questi contenuti destabilizzanti, accentuati dall’assenza di lieto fine, A Fool There Was incontrò ostilità censorie e campagne moralistiche. Nonostante il successo favoloso in America, il film non fu mai distribuito in Gran Bretagna. A Fool There Was sarà riproposto in sala nel 1918, di nuovo con ottimi risultati di pubblico, in una versione abbreviata dal taglio di circa 10 minuti.

Pubblicità per la riproposta di A Fool There Was nel 1918

Nel 1922 la Fox tentò di rinnovare il successo del film con un costoso remake sempre intitolato A Fool There Was. La regia era di Emmett J. Flynn e gli interpreti principali Estelle Taylor (la Vampira), Lewis Stone (il marito) e Irene Rich (la moglie). Paradossalmente, se il film con Theda Bara del 1915 è sopravvissuto, il remake è perduto.

Nonostante le critiche sottolineassero che il film era ben recitato e con scenografie sontuose, il nuovo A Fool There Was si rivelò un flop. La storia era pressoché identica all’originale, con alcune varianti nei personaggi, e la Vampira otteneva finalmente un nome, Gilda Fontaine (“Un volto innocente… e l’animo di Satana”, spiegava la pubblicità). Eppure era impossibile replicare l’impatto straordinario della prima pellicola. Le vamp si erano moltiplicate sugli schermi, ma il film del 1915 restava insuperabile e Theda Bara ineguagliabile. Le recensioni notavano come la Taylor fosse indubbiamente “più carina” di Theda Bara, però priva delle sue abilità seduttive e della sua presenza scenica. Si aggiunga che per gli aumentati rigori della censura vennero addolcite le sequenze più audaci del film originale.

Poster e pubblicità per il remake del 1922

A soli sette anni dall’uscita del film con Theda Bara, i giornali scrivevano che il remake poteva essere di interesse solo per coloro ai quali “piacevano i vecchi film sulle Vampire” (Will Please Those Who Liked the Old Vampire Pictures titolava “The Film Daily”, 23 luglio 1922). Nel tritacarne hollywoodiano, creatore di continue novità, in sette anni un fenomeno clamoroso come quello della Vampira di Theda Bara poteva considerarsi già “vecchio”. Questa rapida senescenza della Vampira attirò l’attenzione del commediografo Robert E. Sherwood, che sarà poi sceneggiatore, tra l’altro, del film di Alfred Hitchcock Rebecca (Rebecca – La prima moglie,1940). Per Sherwood A Fool There Was del 1915 “probabilmente ha esercitato sul pensare contemporaneo un’influenza superiore a qualsiasi film che sia mai stato prodotto”. Eppure il commediografo si trovava costretto a segnalare che il remake non reggeva ai rapidi cambiamenti del cinema, oltre ad aver rinunciato alla forza trasgressiva del film originario, sotto le pressioni del puritanesimo americano (“Life”, 10 agosto 1922).

Lo stesso Sherwood si era già dedicato alla Vampira con una parodia della poesia di Kipling, implicitamente indirizzata a William Fox che aveva reso Theda Bara “famosa in una settimana”, ma che al contrario del “fool” di Kipling non era uno sciocco, perché la scelta di contrattualizzare quella “dama dagli occhi scuri” gli portò buoni profitti (“Life”, 14 aprile 1921).

La parodia di Sherwood era solo l’ultima di una lunga serie, come abbiamo visto in puntate precedenti, riattivate dal successo di A Fool There Was. Dopo l’uscita del film nel 1915 e poi per la riedizione del 1918 tornano ad apparire le riscritture di The Vampire, come andava di moda un ventennio prima. È il caso di Ballade of a Rheumatic Vampire (“Motion Picture”, aprile 1918), una parodia in dialetto della Louisiana scritta dal poeta Lew Sarett.

La lunga parabola della poesia di Kipling con A Fool There Was era arrivata al suo culmine. Da quel momento sorge il fenomeno delle vamp, intenso e vivace per quasi un decennio. Ne scriveremo nella prossima puntata.

La poesia di Robert E. Sherwood su “Life” (14 aprile 1921)

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 7bis

Mute Vampire italiane

L’ondata di Vampire avviata dal 1897 grazie alla poesia The Vampire di Rudyard Kipling e all’omonimo quadro di Philip Burne-Jones sfiorò anche l’Italia. Da noi, i vampiri leggendari avevano avuto relativa popolarità, nonostante all’estero si fantasticasse spesso di un’Italia “terra di vampiri”: nel pieno della moda vampiresca di inizi Novecento, ad esempio, Francis Marion Crawford ambientò in Calabria il suo racconto For the Blood Is the Life (Perché il sangue è la vita, 1905).

Una riproduzione del quadro di Philip Burne-Jones da “Harper’s Weekly” (31 gennaio 1903)

Per quanto il vampiro vero e proprio non avesse un’attenzione particolare in Italia, sappiamo però che il fantastico, il gotico e il macabro non erano affatto estranei alla cultura italiana di allora, come hanno dimostrato dettagliatamente, tra gli altri, gli studi di Fabrizio Foni. Così, anche la Vampira kiplinghiana ha avuto un suo passaggio fugace in Italia.

Come spesso avveniva nella cultura nostrana, sapevamo innovare e rielaborare le mode estere: nel caso della Vampira si riuscì a unire la donna fatale al western. Nel dicembre 1913, infatti, esce nelle sale La vampira indiana, prodotto dalla torinese Aquila Films. A dirigerlo e interpretarlo era Roberto Roberti, pseudonimo di Vincenzo Leone, molto attivo nel cinema muto. E nel cast c’era Bice Waleran (o Valeran), pseudonimo di Edvige Valcarenghi: Roberti e la Waleran diventeranno genitori, nel 1929, di Sergio Leone, destinato a una splendida carriera proprio nel cinema western.

Il western non era estraneo all’immaginario italiano di quegli anni. Tra il 1908 e il 1910 Emilio Salgari aveva pubblicato una trilogia di romanzi definita “Ciclo del Far West” e le atmosfere western erano apparse clamorosamente nell’opera lirica di Giacomo Puccini La fanciulla del West (1910). Spesso negli studi di storia del cinema si definisce La vampira indiana “il primo western italiano”, ma non è del tutto corretto. Nel maggio 1913, quindi diversi mesi prima del film di Roberti, un’altra casa produttrice torinese, la Savoia Film, aveva realizzato Nel vortice del destino, vero e proprio western.

La particolarità di La vampira indiana sta nella fusione del western con la figura della femme fatale “vampiresca”. La donna del titolo è una “pellerossa” che, per aiutare i fratelli, uccide un uomo e fa accusare e condannare un innocente. Ma la figlia di quest’ultimo riesce a far riconoscere l’innocenza del padre. Commentava il quindicinale “Il Maggese cinematografico” (n. 1, 1914), descrivendo la cattiveria della “vampira”: “Ammettiamo pure che una donna indiana commetta dei crimini per beneficare i suoi fratelli, ma che faccia tutto da sé è un po’ troppo! Ed ha molto da fare e cose le più svariate e difficili. Non neghiamo però che ha della grande abilità. Entra ed esce nei palazzi e fa il comodo suo senza trovare alcuno che le sbarri il passo. Ammazza, telefona e fa condannare in sua vece un povero innocente”.

Il film è perduto, sopravvive una solo foto. “La Stampa” (29 dicembre 1913) in un breve trafiletto definiva La vampira indiana “straordinario cinedramma d’eccezionale interesse drammatico e con messa in scena veramente sfarzosa”, aggiungendo che “si prevede un successo grandissimo”.

L’unica foto esistente di La vampira indiana

A causa della scarsa documentazione e delle poche recensioni dell’epoca, non possiamo sapere se la Vampira fosse interpretata da Bice Waleran o da quella che risulta l’attrice principale del film, Antonietta Calderari, vera star delle produzioni Aquila e spesso ritratta in pose da vamp. Sergio Leone pareva certo, comunque, che fosse sua madre Bice la donna a cavallo che compare nell’unica foto esistente. Nel saggio di Lorenzo Codelli Il West in Europa, l’Europa nel West (in  Storia del cinema mondialeL’Europa. Miti, luoghi, divi, Volume I, a cura di Gian Piero Brunetta, Einaudi, Torino 1999) si legge: “Ricordo bene come Leone osservasse intensamente quell’unica foto rimasta de La vampira indiana – una scena in cui sua madre a cavallo in tenuta da pellirossa è attorniata da altri due indiani con tante piume folte sul capo, sullo sfondo d’un accampamento – quasi tentando di animare quel reperto immobile”. Codelli aggiunge che Leone “non si dava pace che tra i fortunosi ritrovamenti [delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone] non comparisse ancora quella mitica pellicola paterna”. E Vittorio Martinelli, ricordando i suoi incontri con Leone, in compagnia  di Aldo Bernardini durante la stesura di un saggio su Roberto Roberti, scrive: “Sergio Leone ci mostrò con molto orgoglio una fotografia di La vampira indiana, unica testimonianza rimasta di quell’impresa pionieristica e, a libro pubblicato, si meravigliò che avessimo trovato anche alcuni brani della critica del tempo” (Vittorio Martinelli, Laggiù nell’Arizona, in “Bianco & nero” n. 3, 1997).

Dunque nemmeno Sergio Leone possedeva altri materiali e documenti su quel film interpretato dai suoi genitori. Eppure era molto legato a La vampira indiana che vedeva quasi come un presagio del suo successo nel “western all’italiana” (in omaggio al padre firmò il suo primo film western, Per un pugno di dollari, con lo pseudonimo di Bob Robertson, cioè “figlio di Roberto”). Un fumetto dedicato nel 2019 alla vita del regista, intitolato Sergio Leone e pubblicato da Glénat (con disegni di Philan e testi di Noël Simsolo, amico di Leone e studioso del suo cinema), ritrae in una vignetta Sergio bambino che nel 1937 scopre la foto della madre in La vampira indiana.

Sergio Leone bambino guarda la foto della madre in La vampira indiana nel fumetto del 2019

Una vampira della notte

Le Vampire italiane dei primi anni del Novecento non finiscono con La vampira indiana. Nel 1914 la Aquila Films vende all’americana Greene’s Feature Photo Plays un film che viene distribuito come Vampires of the Night (paradossalmente è lo stesso titolo di lavorazione che nel 1935 sarà assegnato a Mark of the Vampire di Tod Browning). Si presume che il cast fosse simile a quello di La vampira indiana, perché i film Aquila di quel periodo erano quasi tutti realizzati con gli stessi attori.

Secondo la novelization del film, pubblicata da “Illustrated Film Monthly” (marzo-agosto 1914), la trama muove da uno scambio di neonati nella culla: Judith, la figlia di un criminale che è stato impiccato, viene sostituita alla piccola Edna, duchessa di Burville. Crescendo, Judith manifesta la stessa anima malvagia di suo padre e nonostante sia una duchessa guida una banda di delinquenti. Innamorata di un poeta “alla Byron”, Lord Norman, la malvagia Judith si vede portar via l’oggetto del suo amore proprio da Edna, ridotta a cantare in strada per sopravvivere. Quando la verità sulle sue origini viene svelata, Judith si uccide.

La novelization di Vampires of the Night su “Illustrated Film Monthly” (marzo-agosto 1914)

Si può ipotizzare, come fa Gary D. Rhodes, che Vampires of the Night fosse la versione americana di La belva di mezzanotte (o La belva della mezzanotte), uscito in Italia nel settembre 1913. Secondo Aldo Bernardini e Vittorio Martinelli (Il cinema muto italiano, 1905-1931, CSC-Nuova Eri, Roma-Torino, 1991-1996), La belva di mezzanotte era interpretato nel ruolo della duchessa da Claudia Gaffino Zambuto e nella parte del Lord dal marito Gero Zambuto (forse anche regista del film, suo esordio dietro la macchina da presa): entrambi erano stati da poco reclutati dalla Aquila Films. Viceversa “Illustrated Film Monthly” indica come protagonista femminile Antonietta Calderari, ponendo la sua foto in apertura della novelization di Vampires of the Night.

La similitudine tra le trame dei due film e l’assonanza dei titoli è tale da rendere quasi certo che La belva di mezzanotte sia Vampires of the Night. Comunque, i nomi dei personaggi in La belva di mezzanotte differiscono da quelli riportati dalla novelization americana di Vampires of the Night: almeno secondo quanto si evince da “La Vita Cinematografica” (15 ottobre 1913), i due protagonisti principali del film italiano si chiamavano duchessa di Burleigh e Lord Hashton. È possibile inoltre che una stessa attrice interpretasse entrambi i ruoli, Edna e Judith, dato che veniva sottolineata l’incredibile somiglianza tra le due donne.

Antonietta Calderari

Altre figure vampiresche del cinema muto in Italia

La presenza nel cinema italiano della Vampira di origine kiplinghiana si riduce dunque a due titoli. Inoltre, Dracula non era stato ancora tradotto nella nostra lingua e i film esteri che abbiamo citato nell’articolo precedente non arrivavano nelle sale italiane, già occupate dalla innumerevole produzione cinematografica nostrana. La critica, poi, stigmatizzava ogni incursione del cinema italiano nel macabro o nell’orrorifico, reputando inadatta al gusto “mediterraneo” ogni storia soprannaturale di vampiri o fantasmi.

Se il Decadentismo aveva offerto donne dominanti e disinibite che destabilizzavano l’uomo, il cinema muto italiano non sembra quindi assumere la figura della Vampira di Kipling. Ma l’immaginario non era certo impermeabile alle suggestioni della voga “straniera” delle donne fatali dai tratti vampireschi. Anzi, il nostro cinema muto aveva creato il fenomeno peculiare delle Dive, strette parenti delle Vampire, ma con significative differenze: “Le dive italiane non uccidono per pura crudeltà, ma perché i loro personaggi si ribellano contro molestia sessuale, stupro o adulterio. Sotto questo aspetto, la diva italiana non accoglie la vocazione omicida gratuita o egoistica della femme fatale. In altre parole, la diva non uccide per ottenere un avanzamento sociale” (Angela Dalle Vacche, Diva. Defiance and Passion in Early Italian Cinema, University of Texas Press, Austin 2008).

L’uomo esanime e la donna dominante in Il fuoco (1916)

Tra le attrici che per prime sono state caratterizzate come interpreti di donne fatali spicca Pina Menichelli, a partire da Il fuoco (1916), film che contiene un’immagine della perfida donna incombente su un uomo riverso molto evocativa del quadro The Vampire di Burne-Jones. Come in alcune pellicole americane sulla Vampira, i film italiani sulle Dive mettevano a volte in contrapposizione le figure della donna senza scrupoli che seduce e porta l’uomo alla distruzione e della Madre che tutela la famiglia e i figli. Molte erano le storie “in costume” che inscenavano donne crudeli o perverse sotto le spoglie di grandi personaggi femminili (reali o leggendari) dell’antichità, regine e seduttrici dell’Antica Roma o di secoli lontani.

Il nesso con la sottrazione di energia o di sangue, determinante nel successo della Vampira di Kipling, non pare presentarsi nel cinema muto italiano. L’uso stesso del termine “vampiro” è rarissimo, così come il riferimento ai vampiri soprannaturali nelle sceneggiature. Gli unici altri esempi (tutti perduti) di titoli che contengono quel termine, oltre a La vampira indiana, sono La torre dei vampiri (1914), Il vampiro (1915) e infine La carezza del vampiro (1918).

Prodotto dalla Ambrosia film e distribuito in America come The Vampire’s Tower, il film La torre dei vampiri era diretto da Gino Zaccaria e raccontava di una torre attorniata, secondo una leggenda, da pipistrelli vampiri in cui si sono incarnate le anime dei dannati: lì si nasconde  l’ex boia di Parigi (Oreste Grandi), scacciato dalla Rivoluzione, che si accanisce contro una coppia in procinto di matrimonio, la Fornarina (Lia Negro) e Raimondo (Alfredo Bertone). Il termine “vampiro” appare utilizzato quindi per descrivere personaggi criminali particolarmente spietati. Un delinquente è anche il protagonista di Il vampiro, prodotto dalla Film Artistica Gloria di Torino e diretto da Vittorio Rossi Pianelli, con Dante Cappelli e Lydia Quaranta. Uscito nel gennaio 1915, subì i tagli della censura per una scena cruenta. Anche se Bernardini e Martinelli nella loro storia del cinema muto italiano indicano Luigi Capuana come fonte letteraria del film, certo non traeva ispirazione dal suo racconto Un vampiro (1904) che aveva ben diverso contenuto. Così infatti è sintetizzata la trama del film su “La Vita Cinematografica” (22 febbraio1915): “Un cotale che vuole sposare per forza una ragazza che ama un giovane cugino. Un delitto che porta l’innocente in galera. Punizione del colpevole e trionfo della giustizia”.

Altrettanto metaforico sarà l’uso del termine per il titolo del film La carezza del vampiro, con visto della censura del novembre 1918, ma apparentemente distribuito prima all’estero che in Italia: anche in questo caso, il “vampiro” è un malfattore che agisce nel mondo dell’aristocrazia e finisce sconfitto niente meno che da Maciste.

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 5

Vampire che danzano

Il 1909 è stato anno di vampiri sui palcoscenici. Lo spettacolo teatrale A Fool There Was, diventato in seguito romanzo sempre per la penna di Porter Emerson Browne, ispirato alla poesia The Vampire di Rudyard Kipling e al quadro omonimo di Philip Burne-Jones, va in scena a marzo. Contemporaneamente si rappresenta a New York una brevissima commedia musicale, The Vampire, scritta e interpretata da Walter Shannon con diretto riferimento alla poesia omonima. Non aveva nulla a che fare con Kipling, invece, il testo teatrale The Vampire messo in scena all’Hackett Theatre di New York già nel gennaio dello stesso anno e tratto da un romanzo di George Sylvester Viereck (dove il vampiro del titolo è ancora una volta “psichico”, ma in questo caso è un uomo che ruba le idee agli scrittori: ne tratteremo dettagliatamente in un futuro articolo).

Il 1909 è anche, e forse soprattutto, l’anno della vampire dance, da tradurre per la precisione come “danza della vampira” dato che a portare distruzione dopo un ballo seduttivo era sempre una donna. Si tratta di un vero e proprio filone che si prolungherà per oltre un quinquennio. La vampire dance si ispirava dichiaratamente alla poesia di Kipling, al quadro di Burne-Jones e al testo teatrale A Fool There Was, quando la Vampira dice alla sua vittima “Before we part, kiss me, my fool!” e l’uomo cade a terra morto, mentre lei ride lasciando piovere petali di rosa sul cadavere.

La danza contribuisce in modo decisivo al cambiamento semantico del termine “vampiro” nel mondo anglosassone di inizio Novecento: più che creatura soprannaturale di ritorno dalla tomba, una donna fatale che prosciuga i maschi di beni e vita. Nei balletti sui palcoscenici le antiche “danze macabre” (o le danze delle streghe e degli scheletri) si univano così alla figura della femmina seduttiva che agli inizi del nuovo secolo ballava sotto le spoglie di Cleopatra e Salomè o nelle danze tentatrici di Mata Hari.

Non era un fenomeno del tutto nuovo. Come sottolinea Gary D. Rhodes (The First Vampire Films in America, Palgrave Communications, nature.com, 2017), la vampire dance era popolare almeno dal 1890, quando una compagnia americana di “minstrel” (commedie musicali interpretate da bianchi con il volto truccato di nero o da afroamericani) presentava la “Great Vampire Transformation Dance” e nel 1896 un’altra vampire dance si registra nel Massachusetts. Si trattava però di balli ispirati al vampiro soprannaturale e non alle vampiresche donne fatali che si affermano solo nel 1897 con Burne-Jones e Kipling.

Da pipistrello a danzatrice nel cortometraggio Loie Fuller (1905)

Una sorta di “danza della vampira” può rintracciarsi nella Serpentine dance e in altre esibizioni dell’artista americana Loïe Fuller che ebbero grande influenza sui simbolisti e sull’art nouveau. Danzatrice autodidatta, Loïe Fuller dopo aver lavorato nel 1892 alle Folies Bergère diventò manager, autrice teatrale e coreografa, a Parigi, Londra e New York, contribuendo alla nascita della danza moderna. Le sue rappresentazioni erano spesso caratterizzate dalle tuniche che faceva roteare creando effetti straordinari. Un cortometraggio del 1905, intitolato semplicemente Loie Fuller, mostra un pipistrello che si trasforma in donna e avvia una danza, muovendo vorticosamente un abito che simula le ali del chirottero. Si univa così il vampiro soprannaturale, evocato dal pipistrello, alla seduzione della vampira kiplinghiana grazie alla danza affascinante e ipnotica. Va ricordato che Loïe Fuller pagò un prezzo piuttosto alto per le sue rappresentazioni artistiche: il radio che utilizzava per rendere fluorescenti le “ali” dei suoi abiti di scena le provocò un tumore.

Il riferimento della danza di Loïe Fuller al vampirismo era comunque solo allusivo. La prima, esplicita “danza della vampira” va attribuita all’artista Fuji-Ko. Nata a Tokio, ma cresciuta a Londra, si esibiva in America e in Sud Africa con brevi rappresentazioni in cui univa ballo e pantomima (su Fuji-Ko vedi una breve biografia in Dixie Hines, Harry Prescott Hanaford,Who’s who in Music and Drama, Hanaford, New York 1914). Il 19 novembre 1908 presenta al Neues Deutsches Theater di New York lo spettacolo The Vampire Cat of Nabeshima, pantomima con accompagnamento musicale di un’orchestra. Un gatto soprannaturale, tipico delle leggende giapponesi, dissangua Sakura-Ko, la favorita di un principe, e ne assume l’aspetto. Sakura-Ko usa il suo fascino vampiresco per distruggere il principe e lo fa ammalare gravemente. Un giovane samurai affronta la vampira per vendicare il suo signore, ma lei tenta di sedurlo. Il samurai riesce a resistere ai suoi sguardi ammaliatori piantandosi la spada in una gamba e uccide la vampira: al posto di Sakura-Ko c’è il cadavere di un enorme gatto (il testo integrale di The Vampire Cat of Nabeshima è stato pubblicato in “The Smart Set” n. 1, 1910).

Per quanto sovrappeso, Fuji-Ko con i lunghi capelli sciolti riusciva a essere emozionante nelle sue danze da vampira attorno alle due vittime, il principe e il samurai, tra suggestive melodie orientali. Secondo “The Kansas City Star” (22 novembre 1908) “la sua abile seduzione, i suoi trucchi di sensualità provocante e il suo balzo finale sull’uomo prostrato erano una meravigliosa combinazione tra una donna diabolica e il gioco di un gatto con una vittima senza scampo”. L’articolista dichiarava di aver avuto un brivido quando la vampira protendeva le dita ad artiglio, avanzando a piedi nudi verso la sua preda, e cambiava improvvisamente espressione passando “dalle astuzie di una sirena alla ferocia di una bestia”.

Fuji-Ko, autrice e interprete di The Vampire Cat of Nabeshima (1908)

Nasce la Vampire Dance

Fuller e Fuji-ko non prendevano ispirazione dalla vampira predatrice di uomini creata da Kipling e Burne-Jones. Il fenomeno Vampire Dance nasce solo quando si diffondono spettacoli esplicitamente derivati dal quadro e dalla poesia The Vampire. Uno dei grandi artefici della prosecuzione in forma di danza del successo di The Vampire è senz’altro Joseph C. Smith. Dopo aver ballato, tra l’altro, alla Scala di Milano, diventa coreografo a Broadway e dal 1909, in coincidenza con lo spettacolo teatrale A Fool There Was, sceglie di trasformare in balletto la scena finale vista a teatro, inserendo citazioni dalla poesia di Kipling e allusioni al quadro di Burne-Jones.

Cronologicamente, sembra proprio Smith il primo a inventare la vampire dance, che nella sua versione da vaudeville diventa presto nota anche come temptation dance e flirtation dance. Smith ha inizialmente come partner artistica Louise Alexander, che veniva dalle Ziegfeld Follies. Con lei nel dicembre 1908 aveva già eseguito la Apache dance nel musical The Queen of the Moulin Rouge, a New York. La Apache dance era nata a Parigi nel 1908, al Moulin Rouge, ed era caratterizzata dai modi brutali del ballerino verso la sua partner femminile, una sorta di lite violenta tra amanti che si concludeva con una riconciliazione e la resa della donna. La lotta tra una donna e un uomo trasformata in balletto è analoga nella Vampire Dance, però a ruoli ribaltati e con un finale tragico che vede la supremazia della donna. La vampira non usa la violenza per ottenere quello che vuole dall’uomo, ma la seduzione ipnotica.

Smith e Alexander portano la danza vampiresca a Baltimora nel giugno 1909, ma dopo la prima rappresentazione devono cancellarla dal repertorio per volontà del direttore del teatro di vaudeville dove andava in scena lo spettacolo, a causa della “volgarità” del tema. Il duo Smith-Alexander si separa ed entrambi continuano a interpretare la vampire dance con altri partner. Smith sceglie Ethel Donaldson per presentare, nel settembre 1909, una “original conception” della danza vampiresca al teatro American di New York. In questo caso l’azione si svolge in un salottino: lui è in abito da sera (il caratteristico abbigliamento di Smith come ballerino), lei in succinto vestito nero con le spalle nude. Nel frattempo, come vedremo tra poco, nel corso dell’estate 1909 si era affermata nei teatri un’altra vampire dance, molto simile, eseguita dal duo Bert French-Alice Eis. Inevitabilmente i giornali fecero dei paragoni tra le due versioni, ritenendo quella di Smith-Donaldson inferiore a quella di French-Eis, soprattutto per il minor temperamento e abilità della ballerina. Anche queste rappresentazioni sollevarono l’indignazione dei commentatori “benpensanti” che ne stigmatizzavano il “cattivo gusto”.

Joseph C. Smith e Violet Dale nella Vampire Dance (1909)

Indifferente alle critiche, Smith continuò a promuovere la sua danza vampiresca. In particolare, cura il segmento The Vampire Dance alla chiusura del primo atto di una commedia musicale che ospitava al suo interno dei numeri di danza, The Flirting Princess, imperniata su una bella egiziana che scappa in America per evitare un matrimonio combinato. Nell’ottobre e novembre 1909 Smith esegue la Vampire Dance in un tour americano della commedia, con Violet Dale (che dopo la recita faceva sensazione baciando tutta la troupe) e il danzatore/attore Harry Pilcer. In occasione dello spettacolo al La Salle Theater di Chicago, “The Show World” (6 novembre 1909) dava una breve descrizione del ballo: “Harry Pilcer appoggia il viso alla spalla di Violet Dale e sussurra un paio di strofe della poesia di Kipling, poi entra Mr. Smith in abito da sera per finire vampirizzato. Miss Dale ha un vestito verde brillante, con in rilievo sul seno la testa di un grande serpente che le si avvolge luccicante lungo il corpo. Ondeggia intorno all’uomo, lo afferra ansimante e lo bacia, fino a che lui crolla irrigidito. Allora, con un sorriso malvagio, lei lascia cadere petali di rosa rossa sul corpo esanime e cala il sipario”.

Nella primavera del 1910, sempre a Chicago, la partner di Smith nella danza della vampira è Vera Michelena, attrice e cantante oltre che ballerina. Un ulteriore allestimento di The Flirting Princess si ha nel marzo 1911, dove però la Vampire Dance sarà eseguita da Maude Emery e Charles Morgan.

Alice Eis e Bert French nella Vampire Dance (da “The Sketch”, 15 dicembre 1909)

La “danza della vampira” conquista New York e Londra

Quello che mancava alla vampire dance di Smith e delle sue partner era l’audacia, il coraggio di portare all’estremo possibile in quei tempi il contenuto erotico della “danza della vampira”. Quel coraggio lo dimostrarono viceversa nell’estate del 1909 Alice Eis e Bert French, lei diciannovenne, lui poco più che ventenne, con il loro spettacolo The Vampire Dance. Da tre anni French e Eis si esibivano come mimi e Bert si era preso cura di insegnare la danza ad Alice. Lavorando insieme diventano noti come il primo duo a eseguire la Apache dance sui palcoscenici americani.

Dopo il successo a New York della loro Apache dance, French cercava un nuovo tema per un balletto ed ebbe l’illuminazione quando un amico gli inviò una cartolina che riproduceva il quadro di Burne-Jones. Nacque così The Vampire Dance, uno spettacolo della durata di 17 minuti che fa il suo esordio al teatro Fifth Avenue nel luglio 1909.

La rappresentazione si apriva con una Apache dance, in ambientazione vagamente parigina, dove French abbordava una donna per strada e la maltrattava senza pietà. Poi si passava alla danza vampiresca. Dalle recensioni di allora si possono immaginare i tratti essenziali dello spettacolo.

Alice Eis e Bert French nella “danza della vampira” (1909)

La scenografia è dominata da una scala, tra pesanti drappeggi, in quella che sembra una caverna su una spiaggia. Sul palcoscenico, tra suggestivi effetti di luce, c’è un giovane in abiti semplici. Si china per prendere una rosa rossa e se la porta alle labbra. In quel momento il sole svanisce e dalle tenebre emerge una luce rossa che illumina la scena, rivelando a poco a poco la presenza di una donna addormentata, al centro del palco, avvolta in un velo rosso. Una dolce musica sfuma mentre la donna si risveglia e, accucciata, resta intenta a osservare il giovane. Rimosso il velo, mostra un lungo abito d’oro e argento di foggia orientale, attillato, che le lascia scoperte le spalle e le braccia. Si avvicina al giovane. Scivola sinuosa intorno alla sua preda. L’uomo si ritrae, con un atteggiamento “femminile” che qualche giornale accostò alla ritrosia delle eroine perseguitate nei melodrammi, poi cede alla seduzione e la abbraccia. Mentre la bacia sulla bocca, la vampira tenta di morderlo al collo. Inorridito, il giovane la allontana da sé e lei cade a terra apparentemente esanime. Ma improvvisamente comincia a strisciare come un serpente verso l’uomo che tenta di fuggire. Inizia la lotta contro la seduttrice che cerca di raggiungergli la gola. Lui la respinge con brutalità e, come nella Apache dance, la getta più volte a terra, ma lei si rialza e continua a muoversi intorno a lui e a tentare di abbracciarlo. Alla fine lo avvolge nelle sue spire, di nuovo lui la bacia, ma cade di schiena e la vampira lo morde alla gola. Resta morente a terra, mentre lei lo osserva trionfante. In un ultimo tentativo di resistenza rotola via dalla vampira, ma è ancora morso al collo e muore. Quando il giovane giace immobile è inscenata una sorta di replica del quadro di Burne-Jones, con la donna che si erge sulla vittima.

La pubblicità metteva in diretta relazione lo spettacolo e il testo di Kipling (“La sensazionale poesia di Rudyard Kipling The Vampire illustrata in forma di danza da Bert French & Alice Eis”), sostenendo che “ogni frase della poesia può esser compresa dal pubblico con la stessa chiarezza che se la si leggesse”. Ad avvalorare lo stretto legame anche con il quadro di Burne-Jones contribuiva una foto promozionale di Alice Eis in sottoveste bianca e lunghi capelli scuri che evocava chiaramente la vampira del dipinto.

Alice Eis

La reazione al fenomeno della vampire dance, avviato da Smith e quasi contemporaneamente consacrato da French-Eis, fu di definirla “rivoltante” e “decadente”. Esemplari le parole di “Variety” (31 luglio 1909): “Quando ci hanno rappresentato la Apache Dance credevamo che New York avesse assistito al culmine estremo della danza sensazionalistica. La Vampire Dance va ben oltre (o sotto, se vogliamo) quella esibizione scellerata”. Il periodico continuava definendo lo spettacolo “un numero sgradevole con un grado di vividi dettagli quasi da visita medica”. Per “Variety” la Eis poteva fare la contorsionista e sapeva cadere bene a terra, ma non era certo una ballerina. La sentenza finale era senza appello: si trattava di una “esibizione assolutamente indecente”, messa in scena solo per fare cassa. Non meno severo il “New York Dramatic Mirror” (7 agosto 1909) che considerava la Vampire Dance “volgare”, uno spettacolo che “getta vergogna e discredito sui gestori del teatro” (il proprietario del Fifth Avenue, Benjamin Franklin Keith, era un’autorità nel mondo del varietà e del vaudeville) e “chiamarla danza è una diffamazione per la parola arte”. Il giornale aggiunge un “povero Kipling!” e si augura che lo spettacolo non vada oltre la prima settimana di rappresentazioni. Invece The Vampire Dance ebbe un successo clamoroso, nonostante la stagione estiva, con applausi a scena aperta e teatri pieni. Dopo due mesi a New York lo spettacolo va in tour ed è rappresentato tra l’altro al Grand di Syracuse e all’Orpheum di Atlanta. In provincia l’accoglienza della stampa è meno ostile e “The Constitution” (3 ottobre 1909) arriva a definire lo spettacolo “una vetta artistica” e “una perfezione di grazia”. Il successo fu tale che Alice Eis divenne tanto famosa da dover uscire con la testa coperta da un velo per non farsi riconoscere dalle innumerevoli persone pronte a seguirla ovunque.

Nell’ottobre 1909 Eis e French eseguono la Vampire Dance all’Hammerstein’s di New York, durante uno spettacolo che vede anche un numero di Buster Keaton, poi il loro balletto varca l’oceano. Lunedì pomeriggio 29 novembre 1909 Alice Eis e Bert French presentano The Vampire Dance all’Hippodrome di Londra e la stessa sera un’analoga “danza della vampira” è eseguita da Mildred Deverez e Tom Terriss al Tivoli. Questi ultimi, per quanto chiaramente imitatori, affermavano che la loro versione era la migliore.

A sinistra la Vampire Dance di Bert French e Alice Eis, a destra quella di Tom Terriss e Mildred Deverez (da “The Constitution”, 3 ottobre 1909; “The London Magazine”, marzo 1910)

Il duo danzante French-Eis fa di nuovo scandalo. “The London Magazine” (marzo 1910) liquida sia lo spettacolo di Terris-Deverez che quello di French-Eis come “realismo ripugnante”, dove l’arte del ballo sarebbe tramutata in mera “diavoleria”: “La Vampire Dance è chiamata danza per cortesia. In realtà non è una danza, ma una sorta di dramma in movimento, nel quale l’azione consiste in una serie di corse selvagge e demoniache su e giù per il palcoscenico, intervallate da brutali abbracci, avvinghiarsi da serpente e seduzioni da sirena”.

Fuori dal coro era invece il periodico populista inglese “John Bull”: “Per la grazia delle pose, per le forme sinuose, per la bellezza del corpo e l’avvenenza del viso, non ho mai visto niente di più incantevole di Alice Eis che, con i suoi poteri affascinanti e i movimenti da pantera, può portare alla dannazione qualsiasi essere umano” (18 dicembre 1909).

Il clamore londinese dello spettacolo fa cambiare orientamento anche alla stampa americana: “Da molti anni non si assiste a qualcosa di così nuovo e sensazionale, per quanto terribile”, scrive il “New York Herald” (26 dicembre 1909).

Il successo di pubblico della Vampire Dance a Londra è comunque strepitoso, French riceveva continue telefonate di ammiratori che volevano incontrare il duo e lettere che lodavano la “lezione morale” contenuta nel balletto. La vampire dance, infatti, prolungava in forma di balletto il contenuto “ideologico” della poesia di Kipling: la donna come pericolo, una minaccia per lo status quo a guida maschile, insidiato dalla richiesta di suffragio universale e dal femminismo. La “lezione morale”, semplificando, era di mettere in guardia l’uomo, indicando che cedere alle lusinghe di donne lascive e prive di sentimenti porta distruzione e morte.

Da “Show World”, 18 dicembre 1909

La Vampire Dance arriva al cinema

Dopo Londra, Eis e French portano il loro spettacolo a Vienna, nel luglio 1910, poi in Francia nel 1911, dove è definito “mimodrame sensuel”. Quando si esibiscono nella Vampire Dance all’Olympia, “Le Figaro” (18 aprile 1911) parla di un “trionfale successo”. Ancora a dicembre di quell’anno la Vampire Dance di Eis e French girava nelle sale francesi della provincia.

Nonostante i risultati trionfali in Europa, al ritorno in patria il duo dovette fronteggiare i rigori della censura. Per il loro spettacolo Le Rouge et Noir, nel febbraio 1913, Eis e French finirono in carcere a New York insieme al direttore del teatro. La Eis interpretava la Fortuna, una figura resa simile alla Vampira che qui illudeva un giocatore e poi gli consegnava il coltello con cui uccidersi. A far scattare le manette erano i costumi della danzatrice e alcune posture nel ballo.

Eis e French sono presto liberati, le scene incriminate sono sostituite e il duo può continuare le sue danze, riproponendo ancora la Vampire Dance a New York nel corso del 1913. Il loro successo doveva moltiplicarsi proprio in quell’anno con l’arrivo della Vampire Dance sugli schermi cinematografici. Nell’ottobre 1913, infatti, esce nelle sale un film di 38 minuti prodotto dalla Kalem, The Vampire, dove il duo si esibisce nella famosa danza vampiresca (ottennero un notevole compenso per la partecipazione al film: 2000 dollari). La regia era di Robert G. Vignola (nato in Basilicata, ma vissuto fin da bambino in America), su sceneggiatura di T. Hayes Hunter “da Rudyard Kipling”. Il direttore della fotografia era George K. Hollister, marito dell’attrice protagonista principale del film e operatore anni dopo per The Thing from Another World (La cosa da un altro mondo, 1951).

Il duo Eis-French nel film The Vampire (1913)

The Vampire raccontava la storia del giovane Harold Brentwell (Harry Millarde) che cade vittima di Sybil (Alice Hollister), una “vampira”, avventuriera spregiudicata e peccaminosa. Nelle spire della Vampira, Harold perde il lavoro e la fidanzata. Quando Harold non ha più soldi, Sybil lo abbandona e il giovane diventa alcolizzato. In un teatro assiste a una “Vampire Dance”, interpretata proprio da Alice Eis e Bert French, restandone talmente turbato che comprende i suoi errori e torna dalla fidanzata.

La visione della “danza della vampira”, dunque, porta alla redenzione. Anche se nel film Harold assiste alla Vampire Dance in uno spettacolo teatrale, le scene con Eis e French furono girate in esterni, nei boschi del New Jersey, perché le produzioni Kalem preferivano la luce naturale per le riprese. “The New York Dramatic Mirror” (1 ottobre 1913) scriveva che, dopo una proiezione privata in anteprima, gli spettatori che avevano visto in precedenza la danza di Eis e French sui palcoscenici espressero “l’opinione unanime che la Vampire Dance nella versione per lo schermo primeggiava su qualsiasi sua rappresentazione a teatro”.

Il segmento della danza è forse la prima visualizzazione in assoluto, al cinema, del morso di un vampiro. Come si nota nelle fotografie superstiti, infatti, la gola della vittima è imbrattata di sangue dopo l’attacco della vampira: la donna fatale, ma realistica, di Kipling si unisce finalmente ed esplicitamente alla creatura leggendaria bevitrice di sangue.

The Vampire creò anche problemi di ordine pubblico. Ad Atlanta la scena della danza era stata censurata, ma ne arrivò una copia integrale in un “negro theater” (una delle sale riservate agli afroamericani). Si accalcò una grande folla, composta anche da numerosi bianchi, tanto che intervenne la polizia (lo riporta “The Constitution”, 22ottobre 1913).

Il film The Vampire era considerato perduto, ma una copia è custodita all’Eastman Museum di Rochester e periodicamente viene proiettato, anche se non è disponibile su nessun supporto per l’home video (la prossima proiezione è prevista il 4 marzo 2024 al Sie Film Center di Denver).

Nel 1917 Alice Eis e Bert French si sono sposati.

La danza della vampira in The Vampire (1913)

Ascesa e declino della danza vampiresca

La moda della vampire dance si estingue a poco a poco con il diffondersi al cinema della vampirica donna fatale, grazie a una serie di pellicole che culmineranno nel successo di Theda Bara e nella proliferazione della “vamp” . Ma tra il 1909 e il 1915 la vampire dance è il fenomeno principale che cattura l’attenzione sui vampiri, nell’immaginario dell’epoca. Era tanto popolare che poteva diventare oggetto di parodie, come nella rivista Hello… London, all’Empire di Londra dal febbraio 1910, che vedeva un numero dedicato alla “danza della vampira”, di nome Julia, in questo caso impegnata a sedurre un anziano e un giovane musicista.

I perbenisti ancora nel 1912 temevano le nefaste influenze di quel ballo: “The Catholic Telegraph” di Cincinnati (16 maggio 1912) invocava in prima pagina la censura per “temi orribili e malsani come ‘La danza dei vampiri'”.

La vampira Julia in Hello… London (da “The Sketch”, 2 marzo 1910)

Ma in quegli anni non è solo l’America (o l’Inghilterra) a scandalizzarsi per la “danza della vampira” e contemporaneamente a riempire le sale per uno spettacolo che faceva il tutto esaurito ogni sera. A Parigi il 23 novembre 1909 la Vampire Dance è presentata all’Olympia con l’interpretazione di Théodora Girard (alias Teddie Gerard), appena arrivata da New York, e Harry Watt. Secondo “Variety” (4 dicembre 1909) lo spettacolo era in costumi dell’antica Grecia ed era stato subito dopo riproposto con Harry Agoust nel ruolo maschile.

L’anno successivo, sempre a Parigi, va in scena alle Folies Bergère La Vampire, pantomima ispirata alla poesia di Kipling con la danzatrice Natacha Trouhanowa, famosa per le sue interpretazioni di Salomè, e con Robert Quinault, in futuro celeberrimo ballerino. Lo spettacolo si protrae dal 15 febbraio al 30 aprile 1910, di fronte a un folto pubblico che chiedeva spesso il bis. La Vampire sarà riallestito dal primo al 27 ottobre 1913 con Miss Monor nel ruolo femminile.

Nella primavera del 1910 si rappresenta in Germania Der Vampir-Tanz, spettacolo che dichiara di ispirarsi alla poesia The Vampire e al quadro di Burne-Jones. Si tratta chiaramente della stessa pantomima di French e Eis, qui proposta con la ballerina Violet Hope nel ruolo della vampira e Fred Lesly in quello della vittima. Così la pubblicità descriveva la rappresentazione: “Una vampira vive in una grotta vicino a una palude. Tentato da un fuoco fatuo e incantato dal profumo di una rosa avvelenata, un giovane artista si avvicina alla grotta, ma fugge spaventato alla vista della vampira. Lei esce dalla grotta ed esegue una danza che eccita i sensi, finché l’artista non trova il coraggio per avvicinarsi di nuovo. La figura demoniaca lo ammalia e alla fine gli si avventa addosso e lo soffoca. Lui si libera e la allontana, ma lei alla fine riesce ad attirarlo nella grotta usando il suo velo magico. La scena, che per un momento diventa buia, mostra poi un’immagine emozionante. Immersa nella luce della luna, la vampira si china sull’artista immobile, gli succhia la vita con un bacio appassionato e poi lo getta negli abissi” (“Leipziger Tageblatt”,  16 aprile 1910).

La danza della vampira in Germania: poster per lo spettacolo del 1910

La vampire dance arriva anche in Australia, dove i giornali avevano dato ampio risalto alle prime rappresentazioni americane e londinesi, descrivendo lo spettacolo con indignazione per la decadenza, la nudità e l’assenza di vergogna. Secondo l’“Express and Telegraph” di Adelaide (8 gennaio 1910), il momento della seduzione nel corso del balletto “ha tanto a che vedere con la danza, quanto il Vesuvio con il Polo Nord”. “The Bulletin” (27 gennaio 1910) dava anche una colorita descrizione della danza: “È l’ultima importazione dagli Stati Uniti e la sua caratteristica principale è una donna che volteggia in costume succinto e trasparente, scarlatto e nero. Ruota con sinuosi e vibranti volteggi da serpente attorno a un personaggio maschile che è troppo affascinato per andarsene o resistere. Può solo fissare quella forma vorticosa che sembra un’alta fiamma dissipata e piegata dal vento. Il turbine si fa sempre più veloce, fino a che la vampira si avvicina abbastanza da avviluppare la vittima. Lei lo morde con il suo morso fatale e lui crolla lasciando le sue spoglie mortali”.

Agli spettatori australiani, la “danza della vampira” non doveva dispiacere, se qualche mese dopo, nell’aprile 1910, la Edison Records incise un disco di due minuti con un brano intitolato Dance of the Vampires, eseguito dallaNational Military Band. Nel 1911 la Clarke and Meynell’s Dramatic Company portò in tour per l’Australia A Fool There Was di Porter Emerson Browne e alla fine anche la vampire dance approdò nel Nuovissimo Continente. Nina Speight, nata in Australia, diventa nota in patria come modella e intorno al 1915 ha un grande successo con la sua The Vampire Dance nei teatri di vaudeville, identica alla versione di Eis e French. Secondo il giornale australiano “The Lone Hand” (1 ottobre 1917) la “danza della vampira” minò l’equilibrio psicofisico della Speight: “La tensione che provava per la sua potente interpretazione si dimostrò troppo grande per la sua salute”, tanto che per quel motivo nel 1916 abbandonò le scene e si trasferì in America per cercare fortuna nel cinema (ha recitato in vari film di Harold Lloyd).

La vampira di Nina Speight (da “The Lone Hand”, 1 maggio 1916)

La Vampire Dance, dunque, aveva varcato i continenti, ma a poco a poco perdeva le sue attrattive, abdicando in favore delle vamp cinematografiche. Ciò non toglie che anche in America il fenomeno proseguisse con vari interpreti. Si ha notizia, ad esempio, di una Vampire Dance con Mae Murray, in procinto di diventare una star del cinema muto, sotto la guida di Julian Mitchell, nome di punta delle Ziegfeld’s Follies e già vittima della vampira Louise Alexander nelle rappresentazioni del 1910. Nel 1919 Vera Michelena, che nove anni prima era stata partner di Joseph C. Smith nello stesso ballo, si esibisce in una Vampire Dance con Fred Hillebrand nel musical Take It From Me. Lei interpreta una regina del cinema che seduce un giovanotto, come le “vampire” del grande schermo. Sono gli ultimi fuochi della “danza della vampira”, soppiantata dal cinema e dalle sue vamp dopo il successo di Theda Bara. Qualche spettacolo di varietà continuò a presentare la Vampire Dance, fino all’ultima propaggine negli anni Cinquanta come intrattenimento nei locali, spesso ridotta alla sola protagonista femminile in abiti succinti.

Vera Michelena “vampira” in Take It From Me (1919)

Due “vere” vampire

Due interpreti della vampire dance nei teatri di inizio Novecento si sono rivelate molto simili, per certi aspetti, al personaggio della Vampira che interpretavano nei balletti. Sono Louise Alexander e Teddie Gerard, entrambe note come “vampire” delle danze da vaudeville.

Esattamente un anno dopo la sua vampire dance con Joseph C. Smith, nel giugno 1910 Louise Alexander è in Ziegfeld’s Follies of 1910, dove il balletto ha titolo A Fool There Was, richiamando esplicitamente tanto la poesia di Kipling quanto lo spettacolo teatrale di Browne. Il partner della Alexander è Julian Mitchell che già aveva curato le coreografie per le danze di Louise in Miss Innocence, a Chicago.

La Alexander, vero nome Jeanne L. Spaulding, si era sposata nel 1908 con Lewis Strang, celebre pilota automobilistico, promettendogli di lasciare il palcoscenico. Ovviamente la promessa non fu mantenuta e Louise si dedicò alla vampire dance. Ne seguì la separazione, ma soprattutto un evento giudiziario che nel 1910 occupò varie pagine di cronaca sui giornali. La moglie di Julian Mitchell, anche lei ballerina, aveva chiesto il divorzio e in tribunale fece il nome proprio della Alexander come una delle amanti di suo marito. La stampa non perse la ghiotta occasione di ricordare l’identificazione tra la Alexander e la Vampira.

Pochi mesi dopo, nel 1911, Strang muore in un incidente stradale che il gossip interpretò come suicidio. Insomma, la vampira Louise aveva distrutto il matrimonio del suo partner sulla scena (anche se in seguito Mitchell e la moglie si riappacificarono) e il suo ex marito era andato incontro a una fine tragica.

Louise Alexander (da “Minneapolis Star-Tribune”, 17 luglio 1910)

Ancora più vampiresca la biografia di Teddie Gerard, nata in Argentina nel 1892. Si chiamava in realtà Thérése Théodora Gerard Cabrié e diventò nota sulle scene anche come Teddy Gerard, Terrie Gerrard, Theodora Gerard o Girard. Negli anni della sua popolarità nei teatri era soprannominata “La Belle Théodora” a Parigi e “Teddie the Great” a Londra.

Da giovanissima, come racconta Alva Johnston (The Legendary Mizners, Farrar, Straus and Young, New York 1953), era entrata nelle grazie dei commediografi George Bronson-Howard e Wilson Mizner, oltre che di un innominato scrittore di famosi polizieschi. I tre pigmalioni “istruirono la ragazza, ne corressero la dizione, ne raffinarono la personalità e la avviarono alla carriera teatrale”. Mizner e Bronson-Howard, con la passione per l’oppio, la incaricavano di preparare la sostanza per poterla fumare. Quando la ragazza lasciò il trio di uomini per calcare le scene, Bronson-Howard non prese bene l’abbandono. Nell’agosto 1909, mentre l’attrice era impegnata a Broadway nella commedia musicale Havana, Bronson-Howard si presentò a casa sua per riprendersi un anello con diamante che le aveva regalato e la minacciò con un coltello. Per tutta risposta, Teddie lo fece arrestare. Quando Bronson-Howard fu perquisito alla stazione di polizia si scoprì che nascondeva un lungo pugnale: lui sostenne che era di Teddie e che lo aveva preso perché l’attrice minacciava di usarlo per uccidersi. Mizner pagò la cauzione e Bronson-Howard tornò libero.

Al processo, Miss Gerard si presentò in tribunale con un vestito da sera nero ornato di piume e una preziosa collana di diamanti con pendant a forma di cuore, senza però riuscire a convincere i giudici. Bronson-Howard fu scagionato per il furto dell’anello, ma le sue disavventure non finirono. Restò sotto accusa per il coltello che portava con sé al momento dell’arresto e nel maggio 1910 fu nuovamente arrestato a Baltimora per decadenza della cauzione. Inoltre per vendicarsi del giudice aveva dato lo stesso nome del magistrato a un personaggio negativo di un suo romanzo, ottenendo così una querela. Caduto in depressione durante la Prima guerra mondiale, Bronson-Howard nel 1922 si uccide con il gas.

Teddie, invece, dopo la vicenda giudiziaria proseguì la sua carriera, interpretando la Vampire Dance a Parigi nel novembre 1909. Proprio nei giorni in cui ballava la danza della vampira, una sera da Maxim’s si sentì disturbata dagli sguardi di un russo e gli spaccò un bicchiere in faccia.

Teddie Gerard in posa da donna fatale e un articolo del “Los Angeles Times” (15 luglio 1912)

Nel 1910. a Londra, Teddie Gerard diventò amante dell’estroso milionario Edward Russell Thomas e quando l’anno dopo tornò in America sostenne nelle interviste di essere stata “la prima a presentare la Vampire Dance che appassionò l’Europa diversi mesi fa” (“The New York Press”, 6 marzo 1911). La attendeva però una vicenda quasi identica a quella che coinvolse Louise Alexander: nel 1912 la moglie di Thomas chiese il divorzio puntando il dito sulla “vampira” che a suo dire aveva distrutto il loro matrimonio. I giornali potevano così replicare, come per la Alexander, gli accostamenti tra il personaggio vampiresco sulla scena e la realtà: Il milionario, la moglie e la ballerina “vampira” titolò ad esempio “The Evening World” (20 marzo 1912).

Negli anni successivi la Gerard fu una star minore di Broadway, molto seguita dalla stampa scandalistica per le innumerevoli avventure amorose con aristocratici russi, ungheresi e britannici. Teddie Gerard recitò anche nel cinema muto ed ebbe l’opportunità di apparire con Boris Karloff in The Cave Girl (1921), nel ruolo del titolo.  Ancora nel 1926 rallegrava i party più chic, tra alcol e battute salaci, come ricorda nei suoi diari il grande fotografo Cecil Beaton (The Wandering Years: 1922-39, Weidenfeld & Nicolson, London 1961).

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 2

La vampira di Kipling

Per un trentennio il mondo anglosassone, e non solo, fu attraversato da quella che si definì “vampire craze”, una vera e propria “mania per i vampiri” (o meglio per le vampire), avviata nel 1897 con il quadro e la poesia The Vampire per poi passare il testimone, nel 1927, alla passione per Dracula grazie a Bela Lugosi.

Come abbiamo visto nell’articolo precedente, l’inizio della saga di The Vampire (imperniata su una donna che porta sventura e distruzione ai maschi, preferibilmente benestanti e sposati) è avvenuto con il quadro di Philip Burne-Jones. Ma quella vampira vittoriana dipinta forse non avrebbe avuto successo per decenni se non fosse stata accompagnata dalla poesia scritta per l’occasione dall’autore del Libro della giungla, Rudyard Kipling. È uno dei primi esempi di vampiro multimediale che attraversa differenti mezzi di comunicazione e di espressione: un quadro, una poesia, poi un testo teatrale, un romanzo, diversi film, balletti.

Le loro madri erano sorelle, quindi Kipling e Burne-Jones si erano frequentati fin da bambini e per un periodo, in età adulta, furono legati da stretta amicizia. Ci si è chiesti se per The Vampire Burne-Jones si sia ispirato alla poesia di Kipling o viceversa. Stando alle sue dichiarazioni, in occasione dell’intervista che rilasciò a “The Argus” nel 1898, il pittore aveva avuto in mente il soggetto di The Vampire per molti anni e pare ormai certo che Kipling scrisse la poesia solo dopo aver visto il quadro del cugino, per aiutarlo a lanciare la sua opera.

Due cartoline postali con la riproduzione del quadro di Burne Jones e la poesia di Kipling

La prima apparizione in forma stampata della poesia è perciò affidata alla pagina 8 nel catalogo per la mostra della New Gallery, dove il quadro era esposto come opera n. 15. Il padre di Philip, il pittore Edward Burne-Jones, sapeva che Kipling, su richiesta del cugino, aveva scritto una poesia per quel catalogo. Andrew Lycett (in Rudyard Kipling, Weidenfeld & Nicolson, London 1999) cita un ricordo dell’assistente personale dell’artista, Thomas Rooke, che il 19 aprile 1897 discusse del quadro e della poesia The Vampire con il grande pittore preraffaellita. Secondo Edward Burne-Jones, “la poesia di Ruddy sul quadro di Phil” era talmente lunga che il catalogo sarebbe stato occupato quasi tutto da quel testo. In realtà la poesia era piuttosto breve, ma di certo focalizzò l’attenzione di pubblico e critica su quell’unico quadro, a detrimento delle altre opere esposte compresi dipinti di John Singer Sargent e dello stesso Edward Burne-Jones.

Questo il testo di The Vampire, in una traduzione rielaborata da Vampirismus. Gotico e fantastico nel mito del vampiro (Alfamedia, Roma 1986):

C’era un folle e diceva le preghiere
(proprio come te e me!)
per uno straccio, un osso e una matassa di capelli
(la chiamavamo la donna che di nulla si cura)
ma il folle la chiamava la sua bella signora
(proprio come te e me!)

Oh, gli anni sprecati e le lacrime sprecate
e il lavoro della nostra mente e della nostra mano
appartengono alla donna che non sapeva
(e ora sappiamo che non avrebbe mai potuto sapere )
e che non capiva.

C’era un folle e spese i suoi beni
(proprio come te e me!)
l’onore e l’onestà e un vero ardore
(e non era quello che la signora voleva)
ma un folle deve seguire la sua inclinazione naturale
(proprio come te e me!)

Oh, le energie che abbiamo perso e i guadagni che abbiamo perso
e le grandi cose che progettavamo
appartengono alla donna che non sapeva perché
(e ora sappiamo che non avrebbe mai saputo perché)
e non capiva!

Il folle fu spogliato sino all’osso
(proprio come te e me!)
e lei poteva accorgersene quando lo gettò via
(ma non risulta che la signora abbia provato ad accorgersene)
al punto che un poco di lui visse, ma il più di lui morì
(proprio come te e me!)

E non è la vergogna e non è la colpa
che morde come un tizzone incandescente.
Ma venire a sapere che lei mai seppe perché
(vedendo, alla fine, che lei mai avrebbe potuto sapere perché)
e mai avrebbe capito.

Un’edizione americana di The Vampire del 1898

La coincidenza temporale tra la poesia di Kipling e la pubblicazione del romanzo Dracula di Bram Stoker (il 17 aprile 1897 la prima, il 26 maggio il secondo) avviò un interesse inusitato per i vampiri alla fine del secolo e per i decenni successivi. Ma in quel periodo a influenzare il senso comune e persino il linguaggio non fu Dracula, ma The Vampire. Un decennio dopo, la parola “vampire” era associata correntemente solo al vampirismo parassitario indicato da Kipling e Burne-Jones e agli esotici pipistrelli mostrati nelle fiere che si diceva succhiassero il sangue, tanto che “The New York Times” (5 marzo 1899) scriveva: “La gente oggi usa con noncuranza la parola ‘vampiro’ come termine più forte e un po’ più spregevole di ‘parassita’… Probabilmente poche persone sanno cos’è un vero vampiro”. E il quotidiano si sentiva in dovere di spiegare che i vampiri risalgono alle credenze popolari sui morti che tornano dalla tomba e si cibano del sangue dei viventi (sostenendo del tutto fantasiosamente che “questa superstizione era prevalente nel sud Italia mezzo secolo fa”). Dracula quindi non aveva lasciato il segno sui lettori di quegli anni con il suo vampiro soprannaturale, ed erano momentaneamente dimenticati The Vampyre di John Polidori (1819) e Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu (1872): a conclusione del secolo era The Vampire a imporre la concezione realistica del vampirismo, un vampirismo “psicologico”, “spirituale” e soprattutto femminile, solo metaforicamente associato alle antiche credenze sui nonmorti.

È significativo che nel 1914 Ernst Havekost, in una sua pionieristica dissertazione di dottorato sulla leggenda dei vampiri in Inghilterra (Die Vampirsage in England, Facoltà di filosofia dell’Università di Halle-Wittenberg), citi Dracula solo come titolo, in un elenco di “opere minori” sul vampirismo, a testimonianza della inferiore notorietà del libro di Stoker, nei primi due decenni del Novecento, rispetto alla poesia di Kipling, riportata integralmente nella dissertazione.

Resta comunque importante e singolare che le due opere, Dracula e The Vampire, avessero fatto la loro comparsa a poche settimana di distanza l’una dall’altra. Entrambi accesi sostenitori dell’imperialismo britannico, Kipling e Stoker si conoscevano bene e si frequentavano almeno dal 1889, dato che il Lyceum Theatre di Irving era un crocevia per incontri tra intellettuali.

Il 3 febbraio 1892, Rudyard Kipling prende un treno con la moglie Caroline per recarsi a Liverpool e iniziare un viaggio di nozze negli Stati Uniti. Alla stazione, scrittori ed editori li salutano. C’era Henry James, ma c’era anche Bram Stoker. Secondo Jimmie E. Cain l’episodio dimostrerebbe “gli stretti rapporti tra Stoker e Kipling” (Bram Stoker, Geopolitics, and War in Bram Stoker and the Late Victorian World, a cura di Matthew Gibson e Sabine Lenore Müller, Clemson University Press, Clemson 2018).

Comunque, nella primavera del 1897 mentre Stoker era ancora intento a correggere le bozze di Dracula, Kipling aveva già scritto The Vampire. Charles Carrington (Rudyard Kipling: His Life and Work, Macmillan, London 1978) sostiene che Kipling non aveva preso sul serio quella poesia, non vi aveva messo nulla di se stesso e la considerava “un pezzo occasionale, un favore per il cugino Phil: niente di più”. Ciò sarebbe confermato dal fatto che Kipling non tutelò la proprietà del suo testo consentendo, come vedremo, il diffondersi incontrollato della poesia The Vampire su giornali e pubblicazioni “pirata”.

L’edizione Mansfield (1898) e Street & Smith (1899), entrambe di New York

Appena la poesia di Kipling compare sul catalogo per la mostra alla New Gallery è immediatamente pubblicata integralmente dai giornali. Parte il “Daily Mail”, contemporaneamente all’apertura della mostra, seguito da svariati quotidiani e riviste. Anche la stampa americana veicola la poesia (“New York Tribune” il 9 maggio 1897, “Buffalo Evening News” il 10 maggio, poi molti altri).

The Vampire visse poi un grande ritorno di popolarità tra il 1902 e il 1903, in coincidenza del tour americano di Philip Burne-Jones e della relativa esposizione del quadro The Vampire nelle gallerie degli Stati Uniti. Nel soggiorno americano del pittore i giornali parlarono spesso di lui e immancabilmente della poesia di Kipling, ristampata più volte. In quel contesto la poesia subì anche una piccola modifica: sul “Record-Herald” cambiarono nella prima strofa il termine “hank” (matassa), che sembrava poco appropriato riferito ai capelli, in “hunk”, dal significato simile, ma più spesso usato per definire un ammasso di capelli.

Tre citazioni dalla poesia di Kipling diventarono luogo comune, innumerevoli volte riproposte. Si tratta dell’incipit “A fool there was” (C’era un folle), della descrizione della donna-vampiro come “a rag and a bone and a hank of hair” (uno straccio, un osso e una matassa di capelli) e “the woman who did not care” (la donna che di nulla si curava), di “But the fool he called her his lady fair” (Ma il folle la chiamava la sua bella signora), oltre al ritornello “Even as you and I” (Proprio come te e me).

La poesia di Kipling affascinò i lettori perché vedevano rappresentata una paura e un’inquietudine molto diffusa alla fine del secolo: la donna non più passiva e sottomessa, ma capace di minacciare salute e beni dell’uomo.

Nella letteratura anglosassone la donna fatale aveva una lunga tradizione, che risale almeno alla belle dame sans merci di John Keats, in bilico tra soprannaturale e naturale. Nella versione di Kipling, ancor più che nel quadro di Burne-Jones (dove la ferita sul petto dell’uomo potrebbe indicare il morso di una creatura fantastica succhiasangue), la “vampira” è ricondotta al realismo, a una vera donna senza nulla di soprannaturale, anzi diffusa e nota all’epoca quanto meno nelle fantasie maschili. “The Marion Enterprise” (10 luglio 1897) citava un articolo del “Louisville Courier-Journal” per spiegare il successo della poesia di Kipling: “Non si tratta di meriti letterari eccezionali. Semplicemente si tratta del coraggio di Kipling nel dare espressione a ciò che gli altri pensano, ma non osano dire. Quel tipo di donna è comune, sia se si voglia credere che esista davvero o che esista soltanto nell’immaginazione degli uomini”.

In The Vampire gli uomini sono ingannati dall’apparenza (a loro pareva una bellissima dama, ma era solo “uno straccio, un osso e una matassa di capelli”), si rovinano per lei (spendendo “energie” e “guadagni”), fin quasi a morirne, per poi scoprire che era una donna sventata e incapace di capire qualsiasi cosa. L’uomo della poesia prova quindi vergogna di se stesso e soffre della propria stupidità. Per quanto chiaramente dettata da una mentalità che oggi si definirebbe semplicisticamente “patriarcale”, la poesia di Kipling non è certo lusinghiera verso il maschio vittoriano, ridotto a uno stupido che cade nella trappola di una donna tanto fatale quanto superficiale (due interessanti analisi su questi aspetti sono in Anne Morey, Claudia Nelson, Phallus and Void in Kipling’s “The Vampire” and Its Progeny, “Frame”, novembre 2011; Janet Staiger, Bad Women: Regulating Sexuality in Early American Cinema, University of Minnesota Press, 1995).

Quando Kipling scrisse The Vampire, il suo matrimonio con la moglie americana Caroline era in crisi e il testo evidenzia un risentimento personale dell’autore verso il sesso femminile (lo scrittore, tra l’altro, aveva una predilezione per le donne dal carattere mascolino). Secondo alcuni, la misoginia di Kipling era dovuta all’infelice infatuazione adolescenziale per Florence Garrard, che lo respinse (Angus Wilson, The Strange Ride of Rudyard Kipling: His Life and Works, Secker & Warburg, London 1977), secondo altri alla presunta relazione segreta con l’attrice americana di vaudeville Lulu Glazer, nelle cui carte è stata trovata la poesia The Vampire con testi scritti a mano da Kipling stesso (J. Lawrence Mitchell, Rudyard Kipling, The Vampire, and the Actress, “English Literature in Transition 1880–1920”, n. 3, 2012).

Le opinioni di Kipling sulle donne, come anticipate da The Vampire, vennero poi rielaborate e confermate dalla sua poesia The Female of the Species (1911), rimasta celebre per le parole ripetute più volte “The female of the species is more deadly than the male” (La femmina di ogni specie è più letale del maschio).

Disegno ispirato al quadro di Burne-Jones dall’edizione Mansfield di The Vampire (1898)

The Vampire tornò sulle prime pagine dei giornali il 28 novembre 1911, in occasione di un infuocato processo per uxoricidio a Denver. Sul banco degli imputati c’era Gertrude Gibson Patterson, donna dalla “vita licenziosa”. Aveva sposato il giovane Charles Patterson, ma presto lui la sorprese in viaggio con l’amante, il ricco e anziano imprenditore Emil W. Strouss. Ne seguirono molte liti tra i coniugi, fino a che Charles fu ucciso da due colpi di pistola alla schiena. Gertrude prima disse che il marito si era suicidato, poi ammise il delitto affermando di essere stata picchiata e maltrattata. Al processo l’avvocato dell’accusa, Horace Benson, descrisse Gertrude come una donna avida, spietata e recitò in aula la prima strofa di The Vampire, aggiungendo dopo il verso “ma il folle la chiamava la sua bella signora” un drammatico “E lei gli sparò nella schiena” (And she shot him in the back). Nonostante l’oratoria dell’avvocato e la citazione di Kipling, la donna fu assolta grazie alla dubbia testimonianza di un passante che dichiarò di aver visto Charles picchiare la moglie in strada.

La popolarità di The Vampire prosegue per molti anni, rinvigorita dalle trasposizioni teatrali e cinematografiche. Ancora nel 1916 Francis Scott Fitzgerald, nel testo per una delle canzoni del musical Safety First!, cita la poesia di Kipling. La canzone lamenta che le ragazze della vita reale non assomiglino alle vamp del cinema e Fitzgerald scrive: “Perché non ne incontro qualcuna che non sia dolce, ma / si comporti piuttosto come le signore di Kipling?”. E per il pubblico americano il quadro e la poesia The Vampire continuarono a essere evocativi per molti anni, come dimostrano tra i tanti esempi due lunghi articoli sui vampiri di “American Weekly” nel 1927 (Mystery of the Vampire’s Bite) e del “Detroit Evening Times” il 19 ottobre 1941 (New Reason Why People Still Believe There Are“Vampires”) entrambi illustrati da una riproduzione del quadro di Burne-Jones e con riferimento alla poesia di Kipling.

Due edizioni newyorchesi: Grosset & Company (1898) e Dodge Publishing Co (1900)

Le parodie

Il successo popolare di The Vampire fu tale che quasi subito si pubblicarono parodie, con gran divertimento dei giornali, dove la poesia era riscritta in chiave umoristica o polemica. Ovviamente le prime reazioni satiriche furono da parte di donne, giustamente irritate dal ritratto della vampira mangiauomini e rovinafamiglie. Ne uscirono diverse soprattutto in America, sia scritte da uomini che da donne, caratterizzate dall’imitazione dello stile e dei versi di The Vampire, aperte spesso dalla scritta “Con scuse a Mr. Kipling” (With apologies to Mr. Kipling).

Le parodie iniziarono quasi immediatamente. Già il 27 maggio 1897 sul “Buffalo Evening News” appare una parodia di The Vampire che ironizza sul Kipling scrittore, ripresa dal settimanale “New York Press”, e il 5 agosto lo stesso quotidiano pubblica un dialogo satirico dove una signora rivendica che le donne non sono vampire, ma per la maggior parte “angeli”. Pochi giorni dopo il “San Francisco Examiner” e “The Evening Journal” (18 agosto 1897) stampano una breve parodia anonima che imita lo stile di The Vampire.

Le più popolari erano parodie che rovesciavano il punto di vista, facendo della donna la vittima di uomini spietati e ottusi. È il caso di The Vampire (From a woman’s point of view. With apologies to Rudyard Kipling) di Mary C. Low, apparsa su “The New York Bookman” (27 marzo 1899) e poi dalla rivista “The Academy” che la ristampa accanto all’originale (1 aprile 1899). Tutta virata al femminile, la poesia si apre con un rovesciamento delle parole iniziali di Kipling, trasformate in “A woman there was”, ed è l’uomo che non si prende cura di nulla e non capisce.

Le parodie di The Vampire sono state innumerevoli ed è impossibile citarle tutte. Tre parodie sono riportate da Robert Thurston Hopkins in un suo libro (Rudyard Kipling: ALiterary Appreciation, Simpkin, Marshall, Hamilton, Kent & Co., London 1915). Hopkins segnalava la “vasta circolazione” della parodia scritta da Felicia Blake dove al posto della vampira c’è un uomo egoista e maschilista (i giornali la ristamparono ancora nel 1919), mentre T.W.H. Crosland nel 1899 sostituiva la vampira con “il pubblico che non compra poesie”. Hopkins citava infine i versi di The Vampire riscritti dal poeta James Douglas per polemizzare con Kipling intorno alla presunta “stupidità” dell’uomo di fronte alla donna-vampiro. Per inciso, Robert Thurston Hopkins si intendeva di vampiri: scrittore e “cacciatore di fantasmi”, è stato autore di The Vampire of Woolpit Grange (1938), racconto ispirato alla leggenda di una strega che ritorna dalla tomba.

Le parodie riprendono vigore con l’esposizione americana del quadro di Burne-Jones. Così, “The Brooklyn Daily Eagle” l’11 febbraio 1902 ne pubblica una di Harvey E. Williams, comica riscrittura di The Vampire dedicata al rapporto tra uomini e automobili, con l’aggiunta di un “coro” alle strofe originali. Su “The Sunday Telegraph” del 2 marzo 1902 c’era invece una parodia di The Vampire scritta da John Joseph Beekman, incentrata sul divorzio. Il giornale nei giorni successivi riceve una lettera firmata da un certo R. Blount che risponde alla poesia di Beekman con un’altra parodia, come se si fosse sentito tirato in causa per le sue personali vicende familiari (“The Morning Telegraph”, 7 marzo 1902). Non pago, “The Sunday Telegraph” due giorni dopo dedica un’intera pagina a una vignetta che ironizza sul quadro di Burne-Jones (definito “il dipinto che i versi di Kipling e il press agent di Mrs. Patrick Campbell hanno reso famoso”) e a un’ennesima parodia della poesia di Kipling, questa volta intitolata The Umpire (L’arbitro), accompagnata da un testo satirico.

Parodie e vignette da “The Coolgardie Pioneer” (1898) e “The Sunday Telegraph” (1902)

La moda delle parodie di The Vampire arrivò anche in Australia. Il 18 marzo 1898 “The Euroa Advertiser” pubblica la poesia originale di Kipling e di seguito “The Woman Version”, firmata da Isobel Henderson Floyd. Il 18 ottobre 1902 tocca a “The Western Mail” affidare una parodia a Ethel Howell che inizia la prima strofa con un “A girl there was”. Curiosa la parodia in chiave di satira politica su “The Coolgardie Pioneer” (3 settembre 1898), accompagnata da una vignetta che riproduce stilizzato il quadro di Burne-Jones, dove la donna ha sul vestito la scritta “Westralia” (l’Australia occidentale) e l’uomo esanime “The Toiler” (il lavoratore). Il testo altera la poesia di Kipling trasformandola in una critica a quella parte dell’Australia che, con promesse non mantenute, “vampirizza” il resto del paese. E in questo caso le scuse sono per il pittore e non per il poeta: “With apologies to Burne-Jones”.

Le parodie continueranno per un ventennio. Il 4 marzo 1914 “The Day Book” di Chicago pubblica A Cop There Was di H.M. Cochran, rielaborazione di The Vampire per criticare il malcostume dei poliziotti. La saga delle parodie culmina nel 1920 quando circola a Los Angeles un volantino, firmato Mrs. Stella Gilbert e intitolato The ‘He’ Vampire, dove la poesia di Kipling è riscritta in chiave esplicitamente e marcatamente femminista, invocando l’eguaglianza di diritti per le donne e con questa chiusa: “Alla fine gli uomini sono in fuga… / E noi abbiamo vinto! / (e loro non possono capire)”. È probabile che il volantino sia stato stampato in occasione della conquista del diritto di voto per le donne americane. Lo spirito polemico della parodia era segnalato anche dalla scritta sotto il titolo, che in questo caso sentenziava “Senza scuse a Kipling” (With no apologies to Kipling).

Il volantino femminista del 1920

La poesia di Kipling era tanto nota che i suoi versi potevano essere utilizzati anche come didascalia per vignette satiriche. È il caso di una vignetta apparsa su “Life” il 3 maggio 1917, vent’anni dopo la pubblicazione di The Vampire, e firmata da C.D. Gibson, un illustratore interventista che agiva anche politicamente per spingere l’America a partecipare alla Grande Guerra: “And the fool, he called her his lady fair”, recita la didascalia. Nota anche con il titolo Harlot of War (Prostituta di guerra), la vignetta ritraeva l’imperatore Guglielmo II nel panico alla vista della sua amante, una orribile megera ingioiellata e in vestito elegante, con la scritta “Guerra” sul copricapo, che simboleggia la morte.

Passano altri vent’anni e di nuovo la poesia di Kipling è utilizzata per un’ulteriore vignetta di satira politica, con la didascalia “But the fool he called her his lady fair” (Even as you and I)”. Pubblicata dal “Daily News” di New York il 21 settembre 1937 e il giorno dopo da “Washington Time”, era tipica del razzismo antigiapponese che tornava a crescere in America in concomitanza con i bombardamenti del Giappone sulla Cina. La vignetta raffigura nuovamente una vampira in abiti seducenti, ma con il volto da teschio e la scritta “War” sul torace: davanti a lei, un militare giapponese inginocchiato che porta sulla schiena la scritta “Yellow Race”.

Le vignette di “Life” (1917) e “Daily News” (1937)

Vampoesia per bibliomani

The Vampire è stato un vero e proprio caso editoriale di notevole interesse: per quanto breve, la poesia fu subito stampata in agili fascicoli, senza autorizzazione da parte di Kipling. Sui giornali americani comparve anche una presunta lettera inviata da Kipling a Burne-Jones dove gli cederebbe tutti i diritti della sua poesia: “I versi per The Vampire, che chiameremo vampoesia [vampoetry], sono di tua proprietà. Quindi chiunque voglia portarli sul palcoscenico, farne un’incisione, metterli in musica, dipingerli di celeste, tradurli in gaelico, celtico o ittita, usarli come pubblicità di tintura per capelli o come inno per la Chiesa d’Inghilterra, deve accordarsi con quest’uomo” (vedi “The Daily Republican”, 17 aprile 1902; “The Argonaut”, 3 marzo 1902).

Vera o meno che sia quella lettera, di certo Kipling non tutelò in nessun modo il suo testo, consentendo così un’ampia diffusione “pirata” della poesia. Kipling non inserì The Vampire nelle sue opere ufficiali fino al 1919, ma dal 1898 la poesia appare comunque in varie collezioni di testi di Kipling, per varie case editrici, tanto che lo scrittore fece causa a un editore che aveva pubblicato la sua poesia vampiresca assieme ad altre.

Il fenomeno più straordinario è però il diffondersi di “libricini”, sia in Inghilterra sia in America, che in edizioni “non autorizzate” riproponevano The Vampire ai lettori come singolo volumetto. In genere erano fascicoli di poche pagine, in carta color crema, con ornamenti e disegni spesso di colore rosso, a volte rilegati con un nastrino di seta, in molti casi con la riproduzione all’interno del quadro di Philip Burne-Jones. La sopravvivenza fino ai giorni nostri di molte copie di quei libretti conferma che ebbero una consistente diffusione, complessivamente in migliaia di copie.

Una delle prime edizioni è pubblicata a Boston nel 1898 in due versioni. Il frontespizio indica che il volumetto è “Privately Printed”, senza nome dell’editore (si è ipotizzato che si tratti della Cornhill Press). Sulla copertina svettano pipistrelli in rosso, su un cielo dove si staglia una falce di luna, disegnati da E. J. Clark e ripetuti in ogni pagina, su carta color crema, una strofa per pagina. Un’altra versione ha un frontespizio con il disegno in rosso di una donna, tra le tombe di un cimitero, che gioca con un pipistrello (lo stesso disegno si ripete come cornice di ogni strofa della poesia). Va segnalato che diverse edizioni di The Vampire sovrapponevano nell’iconografia il vampirismo leggendario associato al notturno pipistrello e la donna in carne e ossa.

Due versioni dell’edizione di Boston

Nello stesso 1898 The Vampire è stampato anche a Washington da Woodward & Lothrop, in 20 pagine su carta lucida, e a marzo e giugno di quell’anno in due varianti con carta diversa per M.F. Mansfield di New York. Quest’ultima edizione aveva copertina rossa con scritte in oro ed era illustrata da un pipistrello stilizzato in copertina e all’interno, opera di Blanche McManus (moglie dell’editore Mansfield). Stampata in 650 copie, ospitava un disegno che riproduce parzialmente il quadro di Burne-Jones. Un’altra edizione in sole 4 pagine è stampata per il giorni di San Valentino 1898 da Adirondack Press, di Gouverneur, nello stato di New York

Tra le tante edizioni, si segnala quella di Grosset & Co., New York (1898), con in copertina una testa di donna con ali da pipistrello su inserti in rosso e all’interno la riproduzione fotografica del quadro di Burne-Jones. La casa editrice Doxey di San Francisco stampa The Vampire nel 1899 con illustrazioni di Florence Lundborg e poi nel 1901 con illustrazioni di Lander Phelps. Tra il 1898 e il 1899 The Vampire compare anche su un solo foglio di grande formato.

Una certa fortuna ebbero infine i minilibri di piccolissima dimensione con la ristampa di The Vampire, quasi sempre assieme ad altre poesie di Kipling, ma con il titolo di copertina dedicato esclusivamente al testo vampiresco.

Copertine di vari volumi in piccolo formato