ELINORE BLAISDELL, LA DIMENTICATA SIGNORA DEI NONMORTI

Elinore Blaisdell. Un nome dimenticato. Eppure merita un posto d’onore nell’empireo dei cultori di vampiri. A lei, artista poliedrica, si deve infatti quella che può essere considerata la prima antologia letteraria dedicata espressamente ai nonmorti e ai vampiri, Tales of the Undead (sottotitolo, solo all’interno e non in copertina: Vampires and Visitants),edita nel 1947 da Thomas Y. Crowell di New York. 

Per la prima volta si prestava attenzione alla narrativa breve sui vampiri, a molti anni di distanza dalle future antologie che dagli anni Sessanta si moltiplicheranno all’infinito. Il libro, di quasi 400 pagine, non è stato mai ristampato, né edito in edizione economica dopo la prima uscita con copertina rigida. Si trattava di un’elegante edizione, ogni testo era accompagnato da un’illustrazione realizzata dalla stessa Blaisdell, in un caratteristico stile dai tratti bianchi su sfondo nero, e suoi disegni stilizzati apparivano anche su fronte e retro dell’hardback. La copertina era molto audace per l’epoca, con una donna nuda trafitta da un paletto. Una recensione su “Times Union” definiva Elinore Blaisdell “una signora con un perfetto gusto letterario per l’horror” (4 ottobre 1947).

La copertina di Tales of the Undead

Nel volume erano raccolti venti racconti brevi, due racconti lunghi e il romanzo Carmilla. Su 23 titoli, 10 erano apparsi sulle colonne di “Weird Tales”. Per curare Tales of the Undead, infatti, la Blaisdell si era avvalsa della collaborazione di due nomi di punta della rivista “Weird Tales”, Dorothy McIlwraith e Lamont Buchanan. Molti di quei testi sono stati riproposti decine di volte in anni recenti, anche in traduzione italiana, e sono diventati quasi “luogo comune” per l’immaginario vampirico. Ma nel 1947 si trattava di un esperimento pionieristico.

Questi i titoli riuniti in Tales of the Undead: “Carmilla” (J. Sheridan LeFanu); “Brother Lucifer” (Chandler W. Whipple); “The Metronome” (August W. Derleth); “Uncanonized” (Seabury Quinn); “The Feast in the Abbey” (Robert Bloch); “Clay-Shuttered Doors” (Helen R. Hull); “Amour Dure” (Vernon Lee); “School for the Unspeakables” (Manly Wade Wellman); “The Adventure of the German Student” (Washington Irving); “The Tomb” (H.P. Lovecraft); “Second Night Out” (Frank Belknap Long); “Clarimonde” (Theophile Gautier); “The Seed from the Sepulcher” (Clark Ashton Smith); “For the Blood is the Life” (F. Marion Crawford); “The Story of Ming-Y” (Lafcadio Hearn); “The Quick and the Dead” (Vincent Starrett); “Satan’s Circus” (Eleanor Smith); “Miss Mary Pask” (Edith Wharton); “Septima” (Marcel Schwob); “Count Magnus” (M.R. James); “‘And He Shall Sing.” (H.R. Wakefield); “Doom of the House of Duryea” (Earl Peirce); “The Room in the Tower” (E.F. Benson). 

Per capire l’approccio della Blaisdell alla narrativa vampiresca, leggiamo integralmente la sua prefazione a Tales of the Undead, con un’avvertenza: si cita Oscar Wilde, per ribaltare la sua celebre frase “love is stronger than death” (“L’amore è più forte della morte”, in The Canterville Ghost), ma al posto di “stronger” il testo riporta “stranger”, cioè “più strano” invece di “più forte”. Un errore di stampa? Probabile, ma se non lo fosse, la frase avrebbe comunque un senso inquietante.

In letteratura, come nella vita, ci sono due temi: l’amore e la morte. Tutto il resto è una propaggine dell’uno o dell’altra; e, contrariamente a Oscar Wilde, la morte è sicuramente più strana dell’amore. In tutto il mondo la leggenda dei vampiri — le storie di morti che non vogliono morire — compare in vari contesti e circostanze, però fondamentalmente identici. Questo libro raccoglie, con poche eccezioni, racconti di morti che ritornano, animati di una vita innaturale e profana. Nessuna apparizione può far rabbrividire più del cadavere stesso, ora alieno e straniero, che tuttavia continua le sue vecchie abitudini, aggrappato alla sua vecchia esistenza.

Sono qui inclusi uno o due vampiri che non appartengono ai nonmorti. Montague Summers segnala casi di vampiri viventi e Hans Ewers scrive di un vampiro che soffre di una malattia del sangue la cui vittima è costretta a cercare il sangue dei vivi per sopravvivere. Una di queste storie, forse, riguarda un caso simile. È inclusa anche una pianta vampiro. Altre storie sono di morti che tornano con uno scopo preciso, un torto da vendicare o una missione da compiere.

La maggior parte di queste storie soddisfa il requisito di M. R. James che le apparizioni dovrebbero essere “essenzialmente malvagie e odiose”.

Buonanotte! Piacevoli sogni!

Chi era quella donna di nome Elinore Blaisdell, abile disegnatrice e tanto appassionata di vampiri da essere la prima a divulgarne la disseminazione nella narrativa? Ecco come era presentata sul risvolto di copertina del libro Tales of the Undead:

Elinore Blaisdell ha letto emozionanti storie del soprannaturale da quando ha avuto libero accesso alla biblioteca di suo padre all’età di sette anni e ha scoperto Poe, Hawthorne e un breve racconto di Maupassant dal titolo L’Horla. Da ragazzina passava molte estati nella torrida Baltimora e andava a caccia di innumerevoli storie di quel tipo da leggere ai suoi cugini, convinta che i brividi avrebbero abbassato la temperatura. Le impressionanti illustrazioni che accompagnano ogni racconto danno eloquente testimonianza di questa lunga devozione.

Elinore Blaisdell è una persona davvero versatile. Ha una profonda conoscenza della mitologia come dimostrano le sue meravigliose illustrazioni per Bulfinch’s Mythology, pubblicate da Crowell nel 1946. Si è occupata ampiamente anche di storia, folclore e arte del costume. È un’autorità in materia di ballate in musica. I versi che ha pubblicato riflettono un forte senso estetico. Le sue illustrazioni di libri per bambini le hanno dato una invidiabile reputazione in quel campo.

Miss Blaisdell ha studiato arte con Naum Los, Robert Brackman e alla Slade School di Londra. Nel corso delle sue varie attività, Miss Blaisdell ha viaggiato e disegnato molto, sia negli Stati Uniti che in Europa. La sua casa-studio di New York è dominata dai suoi due gatti siamesi, Reri-Honey e C. B Joe.

Al profilo biografico che appariva nel risvolto di Tales of the Undead si possono aggiungere altre informazioni, reperibili con fatica in rete (solo due siti contengono post dedicati interamente a lei, deepcuts.blog e desturmobed.blogspot.com). Un’indagine tra le emeroteche digitali consente di ricostruire vari aspetti della vita dell’artista.

Elinore Blaisdell è nata a Brooklyn nel 1900. Disegnava da quando aveva 18 mesi e ha pubblicato la sua prima illustrazione su un giornale ancora bambina. Nell’ottobre 1924 recita in una rappresentazione teatrale di Icebound, dramma del Premio Pulitzer Owen Davis. Si dedica anche alla poesia e il prestigioso “The New Yorker(14 aprile 1928) pubblica un suo componimento poetico, dal titolo Boat Ride: una deliziosa lady in guanti e piumino da cipria è portata da Caronte nell’aldilà, destinazione l’Ade per i suoi “graziosi peccati”. Nel 1928 sposa Melrich Rosenberg, scrittore e poeta che la chiamava “Blaisie”. Durante il viaggio di nozze a Londra riesce ad accedere ai corsi d’arte della prestigiosa accademia Slade. Nel 1934 dipinge numerosi quadri per le suite di un hotel di New York. Illustra poi diversi libri del marito, morto nel 1937 a soli 33 anni. Elinore non si è risposata e non ha avuto figli.

Nel 1939 riceve un premio di 2000 dollari dalla Julia Ellsworth Ford Foundation per il suo libro destinato ai ragazzi Falcon, Fly Back, da lei stessa illustrato (edito dalla Messner di New York). Ambientato nelle Francia medievale narra le avventure della dodicenne Anne de Hauteville, impegnata con altri amici nella ricerca del suo falco, tra zingari e banditi.

Dopo un’apprezzata carriera come illustratrice di libri, soprattutto per l’infanzia, si guadagna da vivere per un trentennio disegnando cartoline di auguri. La passione per il fantastico non la abbandona, se si considera che il suo nome compare nelle carte, messe all’asta un paio di anni fa, della storica 12th World Science Fiction Convention (Worldcon) che si tenne nel settembre 1954 a San Francisco, accanto a giganti del genere come Isaac Asimov, Robert Bloch, Ray Bradbury, Philip K. Dick, Fredric Brown, Jack Williamson, Philip Jose Farmer, Henry Kuttner.

Negli anni Settanta tiene corsi di pittura e decorazione a Bradford. La sua attività di artista non decollerà mai e deve lasciare la casa-studio di New York per ritirarsi a Lancaster, in Pennsylvania. È lì che viene “riscoperta” da “The Sunday News”, che le dedica un lungo articolo il 13 luglio 1980: Elinore all’epoca viveva con il nuovo gatto Tigger, dedicandosi alla sua antica passione per la fotografia, ed era tornata ai pastelli e ai dipinti a olio. Rare sue opere sono tuttora vendute all’asta. Muore ultranovantenne nel 1994.

Ancora un disegno di Elinore Blaisdell per Tales of the Undead

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 9

Arriva Theda Bara

Dopo il 1913 il tema della Vampira sembrava in declino. Poi, improvvisamente, a quasi 20 anni dalla pubblicazione la poesia di Rudyard Kipling The Vampire torna non solo di attualità, ma inaugura anche una lunga stagione nella storia del cinema: la stagione delle vamp. Tutto grazie a un film che esce nelle sale americane nel gennaio 1915, A Fool There Was, diretto da Frank Powell e prodotto dalla Fox. Destinato a un grandissimo successo, lanciò il personaggio della vamp, interpretato da Theda Bara che all’epoca era una sconosciuta attrice di teatro. Il film era basato sul testo teatrale e il romanzo omonimi di Porter Emerson Browne, con alcune pagine riportate quasi alla lettera dalla sceneggiatura.

Dopo i tanti adattamenti dei versi kiplinghiani per il palcoscenico e per lo schermo, il film A Fool There Was dà un aspetto definitivo alla Vampira, tramite gli occhi, le espressioni e l’abbigliamento di Theda Bara. Il produttore William Fox per la scelta dell’attrice si consultò con Robert Hilliard, ormai esperto dopo aver interpretato per anni la parte maschile principale a teatro, che gli confidò le grandi difficoltà incontrate per il ruolo della Vampira. Decidere chi dovesse recitare in quel ruolo era essenziale e Fox ha raccontato sia come si giunse alla scelta dell’attrice sia come si creò una sua biografia fittizia: “Abbiamo fatto un provino a una ragazza di nome Theodosia Goodman, senza esperienza nel cinema, e abbiamo deciso che andava bene. Era figlia di un sarto di Cincinnati. Miss Goodman diede in quel film un’interpretazione davvero notevole, ma avevamo un problema: se volevamo continuare a servirci di lei, il nome non era attraente per il pubblico e dovevamo trovarle un nome d’arte. Un giorno il nostro dipartimento pubblicità si accorse che sullo schermo c’era stato ogni tipo di donna, salvo un’araba. Il nostro direttore della pubblicità riteneva che al pubblico sarebbe piaciuta un’araba e ideò la storia che Miss Goodman fosse nata in Arabia: suo padre era un arabo e sua madre una donna francese che aveva recitato nei teatri di Parigi. Così abbiamo preso la parola ‘Arab’ che letta al contrario dava ‘Bara’ e abbiamo abbreviato il nome Theodosia in ‘ Theda’, da qui ‘Theda Bara’. Poi il direttore ha detto: ‘Non prendiamo una decisione senza aver capito se funziona. Fatemi invitare i giornalisti per un’intervista e vediamo se se la bevono’. L’ha vestita con tipici costumi arabi, l’ha circondata dell’atmosfera adatta e quindi sono entrati i giornalisti. Ha detto: ‘Voglio farvi conoscere Miss Bara’ e ha raccontato la storia, spiegando che lei non sapeva una parola di inglese. Quel giorno i giornalisti sono tornati in redazione per scrivere che la Fox Film Corporation aveva scoperto la più grande attrice del mondo” (Upton Sinclair, Upton Sinclair Presents William Fox, autopubblicato, Los Angeles 1933).

In realtà i ricordi di Fox non erano del tutto precisi, Theda parlò con i giornalisti e forse fu proprio lei a scegliere lo pseudonimo che la renderà famosa: un doppio anagramma, perché veniva spiegato come Arab Death, morte araba.

Theda Bara e Edward José in A Fool There Was

La Vampira di A Fool There Was è una Cenerentola “nera” che ottiene la sua scalata sociale grazie all’attrazione sessuale, depredando tanto giovanotti perbene quanto padri di famiglia danarosi e portandoli dalla rovina alla morte. Il vampirismo si rivela nel prosciugamento delle vittime (di soldi ed energie vitali) e nel contestuale arricchirsi e rinvigorirsi della carnefice. La vamp di Theda Bara non è per niente “inconsapevole”, come la dipingeva invece Kipling, ma determinata e astuta nelle sue trame vampiresche. L’attrice non mancava di sottolineare i contenuti sovversivi, rispetto alla mentalità dominante, del suo personaggio: “Credetemi, per ogni donna vampiro ci sono dieci uomini dello stesso tipo: uomini che prendono tutto alle donne, amore, devozione, bellezza, giovinezza, e non danno niente in cambio! V sta per Vampira e sta anche per Vendetta. La vampira che interpreto è la vendetta del mio sesso sui suoi sfruttatori. Vedete… ho il volto di una vampira, forse, ma il cuore di una feministe” (“The Montgomery Advertiser”, 21 marzo 1915).

Grazie al successo clamoroso di quel film, Theda Bara recitò in una serie di innumerevoli pellicole dove interpretava la donna fatale, con un culmine in Salome (1918) prodotto ancora dalla Fox e diretto da Gordon Edwards. Quasi tutti i suoi film sono perduti (complice anche il devastante incendio che distrusse i magazzini della Fox), ma A Fool There Was è viceversa miracolosamente sopravvissuto. Possiamo quindi ripercorrerne la trama nel dettaglio, un espediente utile perché rivela l’intero portato degli anni precedenti nella costruzione della Vampira, da Kipling ai continuatori sulla carta stampata, sul palcoscenico e sullo schermo. A Fool There Was è la summa di tutti i tasselli accumulati nel periodo intercorso dal 1897.

Theda Bara e Edward José in A Fool There Was

La trama

Un uomo elegante, di mezza età (Edward José), è seduto a un tavolo e ammira due rose sorridendo. Le avvicina al viso per sentirne il profumo. Una didascalia riporta la prima strofa della poesia di Rudyard Kipling The Vampire e le immagini passano a una donna (Theda Bara) in abito lussuoso e cappellino piumato, in piedi accanto a un vaso con due rose. Anche lei porta i fiori vicino al volto per aspirarne il profumo, sorridente. Ma il suo gesto è ben diverso da quello dell’uomo: strappa i petali, li schiaccia nella mano e li guarda ridendo.

L’uomo è John Schuyler, ricco avvocato e politico, che vive felice con la moglie Kate (Mabel Frenyear) e la figlioletta (Runa Hodges). Suo amico è Tom (Clifford Bruce), fidanzato con Elinor (May Allison), la sorella di Kate. La donna, invece, è indicata in un cartello solo come “La Vampira”, senza un nome proprio. La vediamo litigare irritata con un giovanotto barcollante, Reginal Parmalee (Victor Benoit). I due passeggiano, poi la Vampira è attratta da una vivace bambina bionda, la figlia di Schuyler, che gioca con la madre e la zia. Improvvisamente la bambina corre verso la Vampira e prende un fiore caduto a terra. La Vampira sorride e sta per accogliere il fiore dalle mani della bimba, quando la madre si colloca tra loro, afferra il fiore e lo butta via, dando le spalle alla Vampira, come se non esistesse. “Un giorno te ne pentirai”, recita a questo punto una didascalia.

Il giorno dopo, un telegramma annuncia a Schuyler che è stato nominato rappresentante speciale del governo statunitense in Inghilterra e deve partire subito a bordo del Gigantic (un nome che allude ovviamente al Titanic, naufragato nel 1912 e ancora ben impresso nella memoria degli spettatori). La Vampira legge la notizia dell’importante incarico di Schuyler e decide di seguirlo. Quando Parmalee lo apprende, ha una crisi di rabbia (“Mi hai rovinato, demonio, e ora mi getti via!”) e distrugge l’appartamento della Vampira, tra l’altro calpestando dei fiori, tema ricorrente nel film.

Al molo, i familiari e Tom stanno aspettando Schuyler per salutarlo prima che parta. La Vampira scende da un taxi vicino al porto ed è avvicinata da un uomo vestito miseramente, un mendicante curvo e magro: “Vedi come mi hai ridotto, mentre tu prosperi ancora, gatto infernale [hell cat]!”. Per tutta risposta, lei ride e chiama un poliziotto che porta via il poveraccio. Appena sale sulla nave, la Vampira suscita subito le attenzioni dei passeggeri di sesso maschile.

Da un altro taxi scende Parmalee. Il mendicante si rivolge a lui: “Sapevo che l’avresti seguita, Parmalee! Il nostro predecessore, Van Dam, marcisce in prigione a causa sua! Guarda cosa mi ha fatto… guarda cosa sta facendo a te!” (se ne deduce che la Vampira annovera già almeno tre vittime). Sulla nave, la Vampira è sul ponte, in mano tiene una grossa rosa dalla quale aspira il profumo, con un sorriso. Anche Parmalee è salito a bordo e raggiunge la donna, i due discutono. Parmalee estrae una pistola, ma lei resta immobile e continua a sorridere, abbassando l’arma con la rosa che impugna. Ridendo, la Vampira avvicina le labbra a quelle di Parmalee. “Baciami, stupido mio!” [“Kiss me, My Fool!”], dice in una didascalia destinata a rimanere celebre. Lui, allora, si punta la pistola a una tempia. Il montaggio passa ad altre immagini della famiglia Schuyler, poi a un’inquadratura di Parmalee a terra, morto. Tom chiede cosa sia successo a un lavoratore della nave che sta pulendo il sangue. “Era solo un ragazzo, signore. E quella se ne stava lì a ridere come un demonio”. Schuyler vede passare la barella con il cadavere del suicida e ne resta impressionato. Poi si congeda dai suoi familiari, ma la Vampira li osserva da un oblò, mentre si ammira in uno specchietto e si incipria. Schuyler la vede, distraendosi dai saluti, e i due si scambiano uno sguardo. Appena Schuyler è solo, con in mano i fiori che la moglie gli ha donato, la Vampira lo avvicina e lascia cadere a terra la sua grossa rosa, battendogli sulla spalla per invitarlo a raccoglierla. Lui è talmente confuso che prende la rosa, ma per errore consegna alla Vampira il mazzolino di fiori della moglie. La Vampira si allontana sorridendo soddisfatta e torna a sedersi sulla sua sedia a sdraio, dopo aver fatto collocare da un inserviente la sedia riservata a Schuyler accanto alla sua.

Due mesi dopo, la Vampira è distesa tra i palmizi di un hotel, in Italia. Tiene una mano sul petto di Schuyler, coricato con la testa appoggiata sul suo ventre, e gli offre da bere. Lei lo accarezza e Schuyler le bacia la mano, portandosela poi sul cuore, mentre la donna sorride. Schuyler si addormenta e la donna alza lentamente le braccia sopra la testa, stirandosi, con un gesto che appare anche di trionfo o il dispiegarsi delle ali di un uccello predatore.

Il caso vuole che il medico della famiglia Schuyler (interpretato dal regista del film, Frank Powell) con la moglie (Minna Gale) siano arrivati in vacanza proprio nell’hotel di Sorrento dove si trova la coppia adulterina e scorgano Schuyler che scambia effusioni con la Vampira.

In America, la sorella di Kate legge un articolo di giornale dove si parla, senza farne il nome, di un milionario in missione diplomatica che sarebbe stato sedotto da “una nota donna della specie vampiresca, non estranea al suicidio del giovane Reginal Parmalee a bordo del Gigantic”. La rovina di Schuyler è imminente: il Segretario di Stato americano gli annuncia che per il suo comportamento indecoroso è stato rimosso dall’incarico.

Schuyler e la Vampira vanno ad abitare insieme in un appartamento del milionario. Sei mesi dopo, Schuyler è ormai ridotto a una larva. Non si regge in piedi, ha scatti d’ira e beve ininterrottamente. La Vampira lo ha lasciato, è tornata nella sua casa, con un nuovo partner, e organizza feste licenziose.

Kate va da Schuyler in un estremo tentativo di riconciliazione e lo trova ubriaco, in stato confusionale. La Vampira, avvisata di quella visita da un informatore, irrompe nell’appartamento e fissa a lungo la rivale, poi si volta verso Schuyler e lo bacia sulla bocca. Mentre l’uomo si inginocchia e bacia la mano della Vampira raggiante e trionfante, Kate se ne va sconfitta.

Una settimana dopo Schuyler partecipa a una sfrenata festa da ballo e quando scorge la Vampira che si intrattiene con un altro, furioso di gelosia, colpisce l’uomo, poi minaccia anche lei impugnando una bottiglia, ma un abbraccio della perfida amante lo immobilizza.

Kate ricorre a un ultimo espediente per riportare il marito alla ragione, presentandosi da lui con la figlioletta. Si fa precedere da Tom che prende Schuyler a calci e pugni per risvegliarlo dal suo torpore. Poi entrano Kate e la bambina che, felice, abbraccia il padre. La scena è osservata dalla Vampira, in camicia da notte. Non appena la Vampira si avvicina, Schuyler si avvinghia a lei voltando le spalle ai suoi familiari. Tom, Kate e la bimba non possono che andarsene.

Schuyler, nel buio, striscia come un verme scendendo la scala della sua casa e vede in una sorta di allucinazione la moglie e la figlia, poi rivive il momento in cui sulla nave veniva portato via il cadavere di Parmalee. Si trascina a fatica nel salotto, devasta gli arredi con un bastone e una bottiglia, quindi stramazza a terra. Ancora un cartello con le parole di Kipling: “Un poco di lui visse, ma il più di lui morì”. Ora la Vampira, tenendo tra le mani un mazzo di rose, è inginocchiata sul corpo riverso di Schuyler. Con un sorriso, lascia cadere dei petali sul volto dell’uomo e poi li soffia via. L’ultimo cartello, sulle immagini in dissolvenza, recita: “(proprio come te e me)”.

Rose e vampire destabilizzanti

Il legame tra il film A Fool There Was e The Vampire di Kipling era tale che si decise di aprire la prima proiezione allo Strand Theater di New York con una lettura integrale della poesia, stampata anche nel materiale promozionale. Sullo schermo era resa per immagini la descrizione precisa del “fool” che si fa irretire da una Vampira. Il ritratto di Schuyler è impietoso. È un uomo sottomesso e debole che, come nella poesia, permette alla sua amante di umiliarlo in qualsiasi modo: subisce ogni angheria (quando riceve una lettera della moglie, la Vampira gliela toglie di mano con furia e la strappa) e sopporta che la Vampira rida di lui mentre precipita nell’alcolismo. Estenuato, a un certo punto ha un gesto di ribellione e porta una mano alla gola della Vampira, ma lei risponde con un sorriso e lo abbraccia.

A fare da contraltare a Schuyler c’era il personaggio di Tom, dalla maschia mascella, che diventa un protagonista importante della storia, incarnando l’uomo che non si fa distruggere dalle “vampire” e che protegge la famiglia tradizionale. Anche lui, però, soccombe e deve lasciare spazio alla forza travolgente della Vampira.

La scena in cui la Vampira bacia sulla bocca Schuyler di fronte alla moglie fece sensazione, turbò il perbenismo dell’epoca e tuttora conserva un suo impatto. Vediamo la moglie soccorrere il marito barcollante e guidarlo verso la porta di casa, da cui emana la luce della redenzione. Ma l’ombra della Vampira si insinua tra i due. Schuyler si accascia su una parete, lei lo imprigiona contro il muro e lo bacia. Quando l’uomo si inginocchia di fronte alla Vampira e le bacia una mano, per la moglie non c’è altra possibilità che andarsene.

Il quadro di Burne-Jones sulla copertina del romanzo di Browne, riproposto da Theda Bara nel film del 1915 e in un servizio fotografico

Se il film gioca con i rimandi alla poesia di Kipling, anche attraverso le ripetute citazioni nelle didascalie, alcune immagini evocano il quadro di Philip Burne-Jones: Theda Bara in più momenti indossa una camicia da notte bianca, con i lunghi capelli scuri sciolti, presentandosi al pubblico come una replica della donna del dipinto The Vampire. E in una serie di scatti fotografici dell’attrice, realizzati poco tempo dopo e diventati celebri, compare nella tipica posizione della donna nel quadro di Burne-Jones, china su una vittima ridotta addirittura a scheletro.

Il film A Fool There Was eredita invece da Porter Emerson Browne la famosa frase “Kiss me, my fool!”, consacrandola e rendendola luogo comune duraturo. Anche il tema delle rose è tratto da Browne. Nel film, sono quei fiori a scatenare l’ira della Vampira, quando la bambina raccoglie una rosa da terra, ma la madre le impedisce di donargliela. Ed è con una rosa che la Vampira abbassa la pistola di Parmalee, con una rosa attrae Schuyler facendolo confondere con i fiori che gli ha dato la moglie, infine con i petali di una rosa cosparge il corpo della sua vittima. Secondo Anne Morey e Claudia Nelson (Phallus and Void in Kipling’s “The Vampire” and Its Progeny, in “Frame” 24.2, novembre 2011) quei fiori alludono ai genitali femminili usati come un’arma, pronti a castrare il maschio.

Anche a causa di questi contenuti destabilizzanti, accentuati dall’assenza di lieto fine, A Fool There Was incontrò ostilità censorie e campagne moralistiche. Nonostante il successo favoloso in America, il film non fu mai distribuito in Gran Bretagna. A Fool There Was sarà riproposto in sala nel 1918, di nuovo con ottimi risultati di pubblico, in una versione abbreviata dal taglio di circa 10 minuti.

Pubblicità per la riproposta di A Fool There Was nel 1918

Nel 1922 la Fox tentò di rinnovare il successo del film con un costoso remake sempre intitolato A Fool There Was. La regia era di Emmett J. Flynn e gli interpreti principali Estelle Taylor (la Vampira), Lewis Stone (il marito) e Irene Rich (la moglie). Paradossalmente, se il film con Theda Bara del 1915 è sopravvissuto, il remake è perduto.

Nonostante le critiche sottolineassero che il film era ben recitato e con scenografie sontuose, il nuovo A Fool There Was si rivelò un flop. La storia era pressoché identica all’originale, con alcune varianti nei personaggi, e la Vampira otteneva finalmente un nome, Gilda Fontaine (“Un volto innocente… e l’animo di Satana”, spiegava la pubblicità). Eppure era impossibile replicare l’impatto straordinario della prima pellicola. Le vamp si erano moltiplicate sugli schermi, ma il film del 1915 restava insuperabile e Theda Bara ineguagliabile. Le recensioni notavano come la Taylor fosse indubbiamente “più carina” di Theda Bara, però priva delle sue abilità seduttive e della sua presenza scenica. Si aggiunga che per gli aumentati rigori della censura vennero addolcite le sequenze più audaci del film originale.

Poster e pubblicità per il remake del 1922

A soli sette anni dall’uscita del film con Theda Bara, i giornali scrivevano che il remake poteva essere di interesse solo per coloro ai quali “piacevano i vecchi film sulle Vampire” (Will Please Those Who Liked the Old Vampire Pictures titolava “The Film Daily”, 23 luglio 1922). Nel tritacarne hollywoodiano, creatore di continue novità, in sette anni un fenomeno clamoroso come quello della Vampira di Theda Bara poteva considerarsi già “vecchio”. Questa rapida senescenza della Vampira attirò l’attenzione del commediografo Robert E. Sherwood, che sarà poi sceneggiatore, tra l’altro, del film di Alfred Hitchcock Rebecca (Rebecca – La prima moglie,1940). Per Sherwood A Fool There Was del 1915 “probabilmente ha esercitato sul pensare contemporaneo un’influenza superiore a qualsiasi film che sia mai stato prodotto”. Eppure il commediografo si trovava costretto a segnalare che il remake non reggeva ai rapidi cambiamenti del cinema, oltre ad aver rinunciato alla forza trasgressiva del film originario, sotto le pressioni del puritanesimo americano (“Life”, 10 agosto 1922).

Lo stesso Sherwood si era già dedicato alla Vampira con una parodia della poesia di Kipling, implicitamente indirizzata a William Fox che aveva reso Theda Bara “famosa in una settimana”, ma che al contrario del “fool” di Kipling non era uno sciocco, perché la scelta di contrattualizzare quella “dama dagli occhi scuri” gli portò buoni profitti (“Life”, 14 aprile 1921).

La parodia di Sherwood era solo l’ultima di una lunga serie, come abbiamo visto in puntate precedenti, riattivate dal successo di A Fool There Was. Dopo l’uscita del film nel 1915 e poi per la riedizione del 1918 tornano ad apparire le riscritture di The Vampire, come andava di moda un ventennio prima. È il caso di Ballade of a Rheumatic Vampire (“Motion Picture”, aprile 1918), una parodia in dialetto della Louisiana scritta dal poeta Lew Sarett.

La lunga parabola della poesia di Kipling con A Fool There Was era arrivata al suo culmine. Da quel momento sorge il fenomeno delle vamp, intenso e vivace per quasi un decennio. Ne scriveremo nella prossima puntata.

La poesia di Robert E. Sherwood su “Life” (14 aprile 1921)

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 8

Un presidente americano contro i vampiri

C’è stato un presidente degli Stati Uniti che ha avuto stretti rapporti con i vampiri. O meglio, con gli autori che hanno creato il vampirismo dell’immaginario novecentesco, in particolare diffondendo la figura della Vampira e di tutte le sue sorelle. È Theodore Roosevelt, detto Teddy, presidente degli Usa dal 1901 al 1909. Roosevelt è stato in contatto diretto con ben cinque nomi che abbiamo incontrato in questo viaggio alle fonti del vampiro moderno: Bram Stoker, Rudyard Kipling, Philip Burne-Jones, Porter Emerson Browne e George Sylvester Viereck.

Roosevelt vantava una vita avventurosa, prima come inflessibile capo della polizia di New York dal 1895, poi ardimentoso comandante sul campo a Cuba nella guerra contro gli spagnoli, per avviarsi quindi alla carriera politica su posizioni ultraconservatrici e diventare presidente nel 1901, subentrando a William McKinley  ucciso da un anarchico. La sua estrosa personalità lo portò a dialogare con scrittori come H. Rider Haggard e Arthur Conan Doyle.

La Vampira che popolava l’immaginario dopo la poesia di Kipling rispecchiava i pericoli che l’America correva secondo Roosevelt, il timore profondo per la svirilizzazione dell’uomo bianco e di conseguenza la messa in discussione del suo predominio sul mondo.

Roosevelt incarnava l’uomo della frontiera, con disprezzo dichiarato per gli Indiani d’America tanto che salutava lo sterminio dei nativi americani come un trionfo della civiltà su esseri paragonati a “squallide bestie feroci” (The Winning of the West, G. P. Putnam’s Sons, New York 1894). Anche verso gli asiatici nutriva ostilità, considerando i cinesi “rovinosi per la razza bianca” e quindi da tenere lontani dagli Stati Uniti (in “Sewanee Review”, maggio 1894).

Per Roosevelt i bianchi anglosassoni, specialmente americani e tedeschi (negli inglesi aveva poca fiducia), dovevano allearsi per contrastare le altre razze: neri, slavi, latini e persino irlandesi. Mantenere pura al cento per cento la razza bianca era considerato da Roosevelt il problema fondamentale della sua epoca. Intorno al 1906 incomincia a cavalcare il concetto di “race suicide”, il suicidio della razza bianca che sarebbe commesso tramite il calo delle nascite tra gli americani di origine anglosassone e con i matrimoni misti. Inoltre per Roosevelt il matrimonio doveva essere indissolubile o comunque chi divorziava non doveva avere il diritto di risposarsi.

A unire i sei nomi (Stoker, Kipling, Burne-Jones, Browne, Viereck e Roosevelt) era lo stesso retroterra ideologico: imperialismo, suprematismo bianco, discriminazione delle donne. Erano terrorizzati dai pericoli che correva il loro sistema di valori, tra popoli colonizzati in rivolta, donne che pretendevano diritti, immigrati che aumentavano. I cacciatori di vampiri in Dracula potevano profilarsi come “rappresentanti della razza anglosassone uniti contro la minaccia al sangue dell’Inghilterra che Dracula mette in atto” (Louis H. Palmer, Vampires in the New World, Praeger, Santa Barbara 2013), così come la Vampira kiplinghiana personificava le paure per un indebolimento della razza bianca e del maschio.

Theodore Roosevelt

Roosevelt e Stoker

L’incontro tra Theodore Roosevelt e Bram Stoker risale al novembre 1895, quando lo scrittore era in un tour americano con Henry Irving. In quel momento Roosevelt era capo della polizia di New York. Stoker ricorda in Personal Reminiscences of Henry Irving (Macmillan, New York 1906) di essere rimasto favorevolmente impressionato da Roosevelt che, dopo un pranzo insieme, lo invitò alla sede della polizia per presenziare a una sorta di informale “processo” ad alcuni agenti sotto accusa. Con notevoli capacità di predizione, Stoker annotò nel suo diario: “Un giorno deve diventare Presidente. Un uomo che non si può blandire, non si può spaventare né comprare”.

Stoker e Roosevelt si incontrarono ancora il primo gennaio 1904, alla Casa Bianca. Insieme a Irving, lo scrittore si trovava a Washington ed entrambi parteciparono al ricevimento presidenziale per l’anno nuovo. Da capo della polizia Roosevelt era ora presidente, la profezia di Stoker si era avverata. Nel corso della cerimonia, Stoker rimase sorpreso che dopo quasi dieci anni dal loro primo incontro Roosevelt lo riconoscesse subito e lo chiamasse per nome. Il presidente si intrattenne in privato con Irving e Stoker per un’ora.

Lo scrittore irlandese aveva un altro contatto con la famiglia Roosevelt, già prima di conoscere Teddy. Nella sua cerchia britannica, infatti, frequentava da anni Robert Roosevelt, zio di Teddy Roosevelt e amico di Oscar Wilde. Secondo un’ipotesi circolata soprattutto in rete in anni recenti, Robert sarebbe uno dei candidati come ispirazione per il personaggio di Van Helsing in Dracula. A parte provenire da una famiglia di origini olandesi (è stato anche ambasciatore Usa nei Paesi Bassi dal 1888), Robert Roosevelt non ha altro in comune con l’immaginario Abraham Van Helsing: non era uomo di scienza, ma avvocato, e non si occupava di occulto, ma di studi sulla pesca. Forse solo il suo aspetto fisico potrebbe adattarsi a Van Helsing.

Più fondata, invece, la tesi secondo cui Quincey Morris, il texano che partecipa alla caccia a Dracula nel romanzo di Stoker, possa avere dei tratti che rimandano a Theodore Roosevelt. Per Clive Leatherdale, ad esempio, Morris “è un po’ sullo stampo di Teddy Roosevelt, conforme alla visione altezzosa che si aveva nella Gran Bretagna vittoriana dell’americano rude ma genuino” (Dracula. The Novel & The Legend, The Aquarian Press, Wellingborough 1985).

Robert Roosevelt, possibile ispiratore di Van Helsing

Roosevelt e Kipling

La sua mentalità imperialista, il suprematismo bianco e l’avversione a ogni modifica del ruolo tradizionale assegnato alle donne dovevano portare inevitabilmente Roosevelt a provare simpatia per Rudyard Kipling, il “poeta dell’imperialismo”. Tra il presidente americano e lo scrittore britannico c’erano sensibilità comuni che trovavano terreno fertile nel clima culturale predominante in quegli anni, tanto che il premio Pulitzer per la storia Frank Luther Mott è arrivato ad affermare che Roosevelt e Kipling sono state le due personalità che più hanno influenzato gli intellettuali americani dell’epoca: “Roosevelt e Kipling erano divinità gemelle per gli scrittori ‘rudi e duri’ agli inizi del ventesimo secolo” (Golden Multitudes, Macmillan, New York 1947).

L’incontro tra Kipling e Roosevelt avviene un paio d’anni prima che lo scrittore britannico scrivesse The Vampire. Kipling era in America con la moglie, dove progettava di restare a lungo, e conobbe il futuro presidente Usa al  Cosmos Club di New York, rimanendone subito attratto per le sue qualità di uomo d’azione e di conservatore estremo. Da allora iniziò una frequentazione che proseguì con scambi di lettere anche dopo la partenza di Kipling dall’America nell’estate del 1896. In una lettera dell’8 gennaio 1919, Kipling definiva Roosevelt “il miglior amico” che aveva avuto in America e in occasione della morte scrisse una poesia in suo onore, Great Heart.

Roosevelt aveva letto The Vampire e non poteva che trovare consonante con le sue idee il ritratto di una donna predatrice, metafora di degrado morale, e di un uomo prosciugato e reso inutile per la difesa della nazione o degli imperi. Per Roosevelt il compito primario nella vita delle donne era prendersi cura della casa e dei figli, come teorizzò in un articolo per “Metropolitan” del maggio 1916 (The Parasite Woman), e al contrario andava promosso il culto della mascolinità, da realizzarsi attraverso il salutismo e il rafforzamento fisico. Le Vampire rappresentavano la massima minaccia, capaci com’erano di fiaccare e indebolire gli uomini fino alla consunzione. Non erano forse associabili al suo timore delle malattie veneree che, veicolate da uomini caduti tra le spire di Vampire del sesso, potevano contagiare le mogli e i figli americani?

Roosevelt poteva ben vedere nella poesia di Kipling una coincidenza con la sua battaglia “contro i degenerati effetti della sessualità femminile” (Sarah Lyons Watts, Rough Rider in the White House: Theodore Roosevelt and the Politics of Desire, University of Chicago Press, Chicago 2003). Quello che Roosevelt non poteva apprezzare in The Vampire era la descrizione troppo compiaciuta dell’uomo distrutto dalla Vampira, come testimonia una sua lettera del 28 aprile 1899 allo scrittore Elbert Hubbard che nel luglio 1897 era stato tra i primi a pubblicare la poesia The Vampire sulla sua rivista “The Philistine”. Le osservazioni di Roosevelt non erano lusinghiere: “Vi devo dire che sono deliziato dai vostri libri. Lasciatemi solo protestare contro la poesia di Kipling The Vampire. Mi ha sempre colpito per la nota decadente, molto fuori luogo nel carattere di Kipling” (in The Letters of Theodore Roosevelt, a cura di Elting E. Morison, Harvard University Press, Cambridge 1951)

Questi dissensi non indebolirono il rapporto positivo tra lo scrittore e il presidente, al punto che nella campagna per le presidenziali del 1912 Roosevelt usò la strofa di una poesia di Kipling per i suoi manifesti elettorali.

Kipling (a sinistra) e Roosevelt nel loro primo incontro al Cosmos Club (da Cassell’s Book of Knowledge, 1910)

Roosevelt e Burne-Jones

I rapporti di Roosevelt con il pittore Philip Burne-Jones, che aveva ispirato con il suo quadro la Vampira di suo cugino Kipling, furono più limitati. L’incontro tra Roosevelt e l’artista avvenne quando Burne-Jones si era provvisoriamente trasferito in America, nel 1902, alla ricerca di successo oltreoceano e per vendere i suoi quadri (come sappiamo, portò con sé anche The Vampire). Vide una prima volta il presidente americano mentre passeggiava con un ministro, apparentemente senza scorta, poi gli fu presentato durante una cerimonia alla Harvard University e un terzo incontro avvenne a Oyster Bay.

Burne-Jones nutrì la speranza di poterlo ritrarre in un suo dipinto. Roosevelt, infatti, aveva apprezzato un ritratto di Kipling realizzato dal cugino pittore, ma l’obiettivo di Burne-Jones non venne raggiunto e restò deluso il desiderio di acquisire prestigio immortalando su tela il presidente Usa.

Dell’incontro a Harvard, Burne-Jones scrisse nel suo libro Dollars and Democracy: “Ho avuto un’impressione molto precisa di quell’uomo acuto ed energico, l’incarnazione stessa della forza e del vigore mascolino. Con modi meravigliosamente allegri e cordiali, mi salutò come se fossi stata l’unica persona al mondo che era ansioso di incontrare – sicuramente la forma di cortesia più gratificante, e che ci tocca tutti all’istante – e sebbene avesse probabilmente dimenticato la mia esistenza un minuto dopo e si affrettava tra la folla entusiasta dei suoi vecchi compagni di college, come un ragazzone di buon carattere troppo cresciuto, ricevendo e facendo mille saluti, pieni, pensavo, di una bonomia leggermente accentuata, tuttavia mi restava una gradevole impressione della sua accoglienza”.

Una riproduzione del quadro di Burne-Jones dalla “Sahib Edition” delle opere di Kipling (1909)

Roosevelt e Browne

Molto stretta fu l’amicizia e la collaborazione tra Roosevelt e l’uomo che trasformò la Vampira di Kipling nel testo teatrale e nel romanzo A Fool There Was, Porter Emerson Browne. Lo scrittore era un fervente interventista durante la Prima guerra mondiale e nel 1915 Roosevelt fu attratto da un suo articolo sull’affondamento del Lusitania. L’ex presidente volle conoscerlo e tra i due ci fu subito sintonia, tanto che Browne iniziò a scrivere discorsi per Roosevelt. La loro intesa politica si rafforza quando Roosevelt partecipa attivamente al movimento dei Vigilantes, creato nel 1916 da Browne per unire gli intellettuali americani sotto una bandiera patriottica e bellicista (alla morte dello scrittore, nel 1934, il “New York Times” lo definirà “acerrimo nemico dei pacifisti”).

Browne dedicò a Theodore Roosevelt il libro Scars and Stripes (Doran, New York 1917) che raccoglie suoi testi apparsi su giornali e riviste. Tra questi, il racconto Mary and Marie che mette in contrapposizione due donne, l’una semplice, ma coraggiosa e pronta a partecipare alla guerra, l’altra benestante e indifferente a tutto, una sorta di Vampira kiplinghiana “che di nulla si cura”. Nella satira Uncle Sham, invece, Browne ridicolizza le politiche del presidente Wilson ed esalta Roosevelt.

L’attivismo di Browne a favore della partecipazione americana alla guerra si univa perfettamente alle intransigenti idee di Roosevelt e culmina in un opuscolo di propaganda a favore dell’intervento americano (A Liberty Loan Primer, pubblicato dal Liberty Loan Committee nel 1918), indirizzato ai bambini e illustrato da James Montgomery Flagg, il grande artista dei poster. L’opuscolo invitava all’acquisto delle obbligazioni emesse dal governo degli Stati Uniti per sostenere le spese militari, tramite testi e disegni dove gli americani erano eroi belli e angelici, mentre i tedeschi erano rappresentati come repellenti mostri assetati di sangue.

Come definitivo omaggio a Roosevelt, nel 1919 Browne scrisse la sceneggiatura per il film celebrativo Our Teddy, diretto da William Nigh.

Un germanico bevitore di sangue nell’opuscolo di Porter Emerson Browne A Liberty Loan Primer

Roosevelt e Viereck

La personalità connessa all’immaginario vampiresco di inizio secolo che ebbe maggiori legami con Roosevelt è senza dubbio George Sylvester Viereck, l’autore di The House of the Vampire. Il padre, tedesco, aveva collaborato nel 1904 alla campagna elettorale di Roosevelt per la presidenza, orientando i votanti della comunità americana di origini germaniche. Sylvester nel 1911 prende le redini del giornale in lingua tedesca di suo padre e ne pubblica una versione in inglese. A quel punto l’ormai ex presidente Teddy Roosevelt si incuriosisce e discute con lo scrittore le possibili iniziative per rafforzare i legami politici e culturali tra America e Germania, aiutandolo a trovare finanziamenti per il giornale. Viereck, così, da quel momento sviluppa per l’ex presidente un attaccamento filiale (vedi Phyllis Keller, George Sylvester Viereck: The Psychology of a German-American Militant, “The Journal of Interdisciplinary History”, vol. 2, n. 1, 1971) e vede in lui il tipico “superuomo” che aveva teorizzato in The House of the Vampire. Nel 1912 decide di appoggiarlo nella campagna per la candidatura alle presidenziali, mettendo momentaneamente da parte le sue ambizioni di scrittore e poeta. Quando non riesce a ottenere la nomination dei Repubblicani, Roosevelt crea un suo partito personale, il Progressive Party. Viereck partecipa alla convention dei Repubblicani a Chicago, poi appoggia la costruzione del nuovo partito ed è talmente entusiasta di Roosevelt che torna a scrivere poesie, inneggiando in The Hymn of Armageddon all’uomo che considerava ormai il suo idolo.

Il progetto di un nuovo partito fallisce e viene eletto presidente il democratico Woodrow Wilson, ma la collaborazione tra Viereck e Roosevelt prosegue, orchestrando polemiche con il nuovo inquilino della Casa Bianca.

Lo scoppio della Prima guerra mondiale doveva però incrinare l’amicizia tra loro. Viereck era deluso dalle posizioni di Roosevelt, che non sosteneva la Germania nella Grande Guerra, nonostante la simpatia che aveva dimostrato in precedenza per il Kaiser. Tra febbraio e marzo 1915 c’è uno scambio di lettere tra i due, chiuso da una ramanzina di Roosevelt al suo giovane seguace: “Hai reso evidente che tutto il tuo cuore sta con il paese che preferisci, la Germania, e non con il paese che ti ha adottato, gli Stati Uniti. In queste circostanze qui non sei un buon cittadino… Per quanto mi riguarda, non ammetto una fedeltà divisa in due per chi ha la cittadinanza degli Stati Uniti” (lettera del 15 marzo 19195 conservata al Theodore Roosevelt Center).

L’ex presidente si spinge a invitare Viereck a lasciare l’America e tenta persino di farlo espellere dalla Poetry Society. Le reprimende di Roosevelt nei confronti di Viereck, però, non divennero mai pubbliche e i due continuarono a scambiarsi lettere.

Alla morte di Roosevelt, lo scrittore gli dedicò un libro (Roosevelt: A Study in Ambivalence, Jackson Press, New York 1919) spiegando il loro rapporto di odio-amore. Per un lungo periodo avevano condiviso l’ostilità verso l’Inghilterra e l’ammirazione per la Germania, ma allo scoppio della Grande Guerra l’americanismo di Roosevelt diventò incompatibile con le posizioni di Viereck. Tuttavia, se Roosevelt condannava il Viereck filogermanico, continuava a condividere con lui idee di fondo (vedi, tra l’altro, Patrick J. Quinn, Aleister Crowley, Sylvester Viereck. Literature, Lust, and the Great War, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle upon Tyne 2021).

Anni dopo, con il nuovo conflitto mondiale, il filonazista Viereck sarà affascinato da un altro “superuomo”: nel suo ufficio di New York insieme a un ritratto di Roosevelt campeggiava una foto ancora più grande di Adolf Hitler (Rachel Maddow, Prequel: An American Fight Against Fascism, Crown, New York 2023). Per ironia della sorte, a causa delle sue attività a favore della Germania nazista Viereck si troverà contro un altro Roosevelt, il cugino di Teddy diventato a sua volta presidente degli Usa nel 1933, Franklin Delano Roosevelt.

Una lettera di George Sylvester Viereck a Theodore Roosevelt del 1912

Roosevelt e i pipistrelli succhiasangue

Finito il suo incarico presidenziale, Theodore Roosevelt si era dedicato ai viaggi e alla passione per la caccia. Da un libro che dedicò alle esperienze in Brasile (Through the Brazilian Wilderness, Scribner’s Sons, New York 1914), apprendiamo che con i suoi compagni di caccia discuteva “dei fatti inspiegabili che avvenivano sulla mutevole frontiera tra la vita e la morte, tra il conosciuto e lo sconosciuto, e di vampiri, licantropi e fantasmi”.

Proprio in Brasile, Roosevelt fece la conoscenza dei pipistrelli vampiri, trattandone in un capitolo del suo libro: “Eravamo ora nella terra dei pipistrelli succhiasangue, i pipistrelli vampiri che succhiano il sangue degli esseri viventi, aggrappati o sospesi in volo sopra la schiena di un cavallo o di una mucca, oppure sulla mano o il piede di un uomo addormentato, facendo una ferita dalla quale il sangue continua a fluire molto dopo che la sete del pipistrello si è saziata. A Tapirapoan c’erano dei bovini e uno dei vitelli si presentò una mattina indebolito per la perdita di sangue che ancora gocciolava da una ferita sulla parte anteriore della schiena, fatta da un pipistrello. Ma i pipistrelli creano pochi danni in questa zona a paragone di quanto fanno in altri luoghi, dove non solo i muli e i buoi ma anche le galline devono essere custoditi di notte dietro protezioni a prova di pipistrello, altrimenti rischiano la vita. I responsabili principali e abituali sono varie specie di pipistrelli piuttosto piccoli, ma si dice che altri tipi di pipistrelli brasiliani abbiano acquisito quella maligna abitudine, almeno sporadicamente e localmente, variando la loro consueta dieta con bevute di sangue vivo. Uno dei membri brasiliani del nostro gruppo, il botanico Hoehne, era anche zoologo. Mi informò di aver appreso che persino i grandi pipistrelli frugivori si nutrono di sangue. Secondo le sue osservazioni, non sono loro a fare la ferita iniziale, ma dopo che è stata fatta da un vero vampiro leccano il sangue che fluisce e allargano la ferita. In America del sud mancano, rispetto a Africa e India, i grandi carnivori dalla straordinaria ferocia che mangiano uomini, ma in compenso si trovano piccole creature assetate di sangue che altrove sono innocue. Solo qui dei pesci non più grandi di una trota uccidono i bagnanti e dei pipistrelli dalle dimensioni dei comuni ‘topolini volanti’ dell’emisfero settentrionale prosciugano di sangue vitale grandi animali e l’uomo stesso”.

Un’ulteriore presenza dei pipistrelli, infine, si rintraccia in un disegno che Roosevelt allegò a una lettera indirizzata al direttore di “Emporia Gazette” (1 gennaio 1917) dove illustrava i “fallimentari tentativi” di espellere dei pipistrelli da un campanile.

Il disegno di Theodore Roosevelt sui pipistrelli

Roosevelt cacciatore di vampiri

Il nesso tra Roosevelt e i vampiri si è trasferito in romanzi e racconti che lo vedono impegnato in una lotta senza quartiere, nel suo stile, contro i nonmorti. Un primo esempio è offerto da Mike Resnick, scrittore di fantascienza per cinque volte premio Hugo, in Two Hunters in Manhattan (nell’antologia The Secret History of Vampires, a cura di Darrell Schweitzer e Martin H. Greenberg, Daw Books, New York 2007; ristampato in Mike Resnick, The Other Teddy Roosevelts, Subterranean, Burton 2008). Il racconto è ambientato nel 1897, quando Roosevelt era capo della polizia di New York: il vampiro greco Demosthenes miete vittime in città e Roosevelt lo uccide trafiggendolo con un bastone da passeggio imbevuto di acqua santa. Il metodo usato da Roosevelt per eliminare il vampiro ricorda una sua celebre frase, “Speak softly and carry a big stick; you will go far” (Parla gentilmente e portati un grosso bastone; andrai lontano), che aveva utilizzato per spiegare la sua politica estera.

Roosevelt è a caccia di vampiri anche in un breve romanzo, scritto da James Fortescue, dal titolo Theodore Roosevelt: Vampire Slayer (New Street Communications, Wickford 2012). Nella prefazione, l’autore afferma di essere imparentato con Robert Roosevelt e quindi “distante cugino” di Theodore, dicendosi certo che Stoker abbia basato il personaggio di Van Helsing proprio su Teddy Roosevelt. Nel romanzo, Roosevelt poliziotto insegue i vampiri dall’università di Harvard al quartiere a luci rosse di Manhattan.

Roosevelt torna a confrontarsi con i vampiri nel romanzo The Last American Vampire (Hachette, New York 2015) di Seth Grahame-Smith che già si era dedicato ad Abramo Lincoln come cacciatore di vampiri. Il protagonista del libro, il vampiro Henry O. Sturges che aveva contagiato Lincoln, incontra Roosevelt, a conoscenza dell’esistenza dei vampiri e sicuro dell’affidabilità del suo interlocutore. A lui confida le preoccupazioni per l’uso degli anarchici da parte dei vampiri: “Secondo Roosevelt i movimenti anarchici in Europa e negli Stati Uniti, erano di fatto parte di una ‘nascosta resurrezione vampiresca’ con l’obiettivo di sovvertire i governi che erano diventati sempre più ostili nei confronti dei vampiri in seguito alla Guerra Civile. Con la diminuzione del loro numero, quei vampiri avevano approfittato di un movimento esistente, reclutando alla propria causa giovani menti ideologizzate e facilmente manipolabili. E non solo negli Stati Uniti”.

Ancora vampiri per Roosevelt in Stoker’s Wilde West (Flame Tree, London 2020), parte di una serie di romanzi scritti da Stephen Hopstaken e Melissa Prusi  che hanno come protagonisti Oscar Wilde e Bram Stoker, uniti nella lotta a minacciose forze soprannaturali. Sotto forma di romanzo epistolare ambientato nel 1882, in Stoker’s Wilde West oltre ai due scrittori irlandesi ritroviamo Henry Irving e Florence Stoker. Questa volta l’esperienza di Stoker e Wilde è richiesta da Robert Roosevelt e dal nipote Teddy che li chiamano per contribuire alla sconfitta di una banda di pistoleri vampiri dediti alle rapine nel Far West.

Due fantasie letterarie su Roosevelt cacciatore di vampiri

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 7ter

I vampiri invadono la Russia

L’influsso della poesia The Vampire di Rudyard Kipling, e del quadro di Philip Burne-Jones che l’aveva ispirata, nei primi anni del Novecento si spinse fino alla Russia. Contaminò la cultura e il nascente cinema, per quanto in modo limitato e circoscritto. In Russia la creatura che in occidente era definita con il termine vampiro si chiamava upyr’. Dagli inizi del XX secolo, però, anche in Russia si adotta il termine occidentale per descrivere creature soprannaturali che succhiano il sangue o donne fatali che sottraggono energie.

A dimostrazione di quell’influsso, dai risvolti anche lessicali, nel gennaio 1906 avvia le pubblicazioni a San Pietroburgo una rivista settimanale “artistica e satirica” dal titolo “Vampir’”, chiusa dopo otto numeri. Il periodico, con le sue eleganti illustrazioni e le sue invettive politiche, si inseriva nella vivacità culturale seguita alla rivoluzione antizarista del 1905. Ne era caporedattore Benedikt Avraamovich Katlovker, che tra i tanti suoi pseudonimi si firmava “Upyr’” (tra il 1909 e il 1917, invece, sotto lo pseudonimo B. Reutsky pubblicò la serie di romanzi neri e d’avventura “Dalle note di uno psichiatra”).

Non è un caso poi che Vsevolod Mejerchold abbia tradotto in russo l’opera teatrale di Frank Wedekind Erdgeist (Lo spirito della terra), dove compare il personaggio della donna fatale Lulu, dandogli il titolo Vampir (volume pubblicato da Shipovnik, Sankt-Peterburg 1908).

Copertina del primo numero della rivista “Vampir” (1906)

Per quanto riguarda il cinema russo, un primo esempio di influenza della Vampira kiplinghiana può farsi risalire al dicembre 1912, quando esce nelle sale Tajna doma n. 5 (Il mistero della casa n. 5), pellicola di circa mezz’ora realizzata dalla sede moscovita della francese Pathé. Diretto da Kai Gansen, il film si avvaleva della fotografia suggestiva di Alexandr Levitsky (Premio Stalin nel 1949).

Tajna doma n. 5 risulta conservato negli archivi russi del Gosfilmofond, senza didascalie, ma ne sono stati diffusi solo i primi 15 minuti (esisterebbe anche una copia ungherese, dal titolo Az 5-ös számú ház titka). Inoltre, a maggio 1913 il film uscì in Francia come Le Mystère de la rue Donskaya ed è stato restaurato nel 2021 dalla Fondation Jérôme Seydoux-Pathé che ha ripristinato le musiche di accompagnamento composte da Stephan Oliva. Anche questo restauro non è disponibile al pubblico, ma dalla sceneggiatura della versione francese, conservata alla Bibliothèque National de France, si desume la trama precisa del film.

Una donna che frequenta i circoli nobiliari, Elsa (Vera Pashennaya), viene lasciata dal ricco conte Darski (Boris Piasetski) per un’altra donna. Mossa dalla vendetta, Elsa orchestra una trappola con il suo ex amante Dobrov (Mikhail Doronin) e convince Darski a passare per sfida una notte in una casa abbandonata che si ritiene infestata dal fantasma della proprietaria, morta misteriosamente: secondo le dicerie, il suo ritratto a mezzanotte prenderebbe vita per uccidere qualsiasi uomo si trovi di fronte. Quando Darski si reca nella casa, Elsa si veste in abiti ottocenteschi e si finge il dipinto della defunta padrona di casa, appeso a una parete, per terrorizzare il conte. Poi il complice Dobrov spara a Darski ed è simulato un suicidio, lasciando un biglietto accanto al corpo: “Non avendo la forza di sopportare più a lungo tanto orrore, metto fine al mio supplizio”. La mattina dopo, Darski è trovato morto dalla ragazza che lo amava e la perfida Elsa gode della vendetta (“il dolore della rivale raddoppia la sua soddisfazione”, si legge nel materiale pubblicitario).

Il film Tajna doma n. 5 univa luoghi comuni dell’immaginario macabro, come la casa infestata e il ritratto che prende vita, togliendo però ogni aspetto soprannaturale alla vicenda. Il principale personaggio femminile è indubbiamente accostabile alle donne vampiro che si erano profilate nel cinema americano ed europeo. È significativo che in Tajna doma n. 5 la Vampira resti impunita e, nonostante palesi dei rimorsi in alcune espressioni nella parte finale del film, sia fiera del suo trionfo criminale. Questa protovampira del cinema russo non è inquadrata in una postura simile al quadro di Philip Burne-Jones, ma si erge vittoriosa, in piedi, accanto al cadavere della sua vittima. A interpretare la vampiresca Elsa era Vera Pashennaya che resterà un’attrice molto attiva e apprezzata anche nel periodo sovietico.

La Vampira nel ritratto (a sinistra) e poi trionfante sulla sua vittima in Tajna doma n. 5 (1912)

L’influenza della moda occidentale per la Vampira kiplinghiana, e in particolare per i balletti che aveva ispirato, si affaccia in Russia nel 1914 con il corto di circa tre minuti Tanez vampira (Danza del vampiro) della casa produttrice Tieman e Reinhardt. Le riprese erano ancora una volta di Alexandr Levitsky, qui sotto la direzione di Yakov Protazanov (da ricordare, tra l’altro, per la sua regia del celebre film sovietico di fantascienza Aelita, nel 1924). La danza era eseguita da V. Laskina e da Richard Boleslawski, all’epoca attore teatrale e ballerino, poi regista di varie pellicole di successo a Hollywood.

Il cortometraggio è perduto e apparteneva al genere allora popolare in Russia del film-balet, brevi riprese cinematografiche di numeri danzanti. La rivista “Sine-Fono” dedicò due brevi segnalazioni al film (15 febbraio 1914; 1 marzo 1914), definendo la Danza del vampiro “degna rivale del Tango”.

L’esempio più eclatante di Vampira nel cinema russo compare un anno dopo, nel 1915, con Zagrobnaia skitalitsa (Vagabonda dell’aldilà), noto anche come Zhenshchina-vampir (La donna-vampiro). Secondo Gary D. Rhodes (The First Feature-Length Vampire Film in gdrhodes.medium.com, 28 ottobre 2023) sarebbe “il primo lungometraggio sui vampiri nella storia mondiale del cinema”, perché mette esplicitamente in scena una vampira soprannaturale, tornata dalla morte per succhiare il sangue, e non una semplice femmina che insidia energie e beni del maschio.

Il film è perduto e restano oggi a disposizione solo cinque foto. Diretto e interpretato da Viacheslav Turzhanskii (una volta emigrato in Europa, dopo la Rivoluzione sovietica, prese il nome di Viktor Tourjansky), Zagrobnaia skitalitsa vedeva nella parte della Vampira l’attrice Olga Baclanova che continuerà a interpretare bionde donne fatali anche dopo il suo trasferimento in America nel 1925, in film come The Man Who Laughs (1928) di Paul Leni e Freaks (1932) di Tod Browning.

La giovane Vera (Olga Baclanova) si è innamorata dell’artista Amosov (Viacheslav Turzhanskii), ma si toglie la vita quando scopre che l’uomo la considera solo un passatempo tra un’avventura amorosa e l’altra. Nella morte, l’anima di Vera si fonde con quella di una ragazza che le assomiglia. Vent’anni dopo, la reincarnazione di Vera è una donna felicemente sposata. È però consumata da una strana malattia che i medici non sanno spiegarsi. Per sopravvivere, Vera di notte si nutre di sangue umano. Uno spiritista scopre la verità e grazie all’evocazione di un’entità dell’oltretomba la Vampira è neutralizzata.

Con Zagrobnaia skitalitsa / Zhenshchina-vampir abbiamo la prova che la Vampira, nel 1915, non era appannaggio solo del cinema americano, dato che nello stesso momento anche in Russia un personaggio analogo (e per di più direttamente connesso alla tradizione dei nonmorti) era al centro di un film. I critici russi non si distanziarono molto dai loro colleghi americani nel liquidare frettolosamente una pellicola che affrontava temi sensibili per il perbenismo, definendola sia “vergognosa” sia incapace di spaventare davvero. Il sindaco di Pietrogrado (oggi San Pietroburgo) proibì le proiezioni del film. Del resto, la garanzia che Zagrobnaia skitalitsa avrebbe fatto scandalo veniva dal nome dell’autore del soggetto, Anatolij Kamenskij, all’epoca celebre scrittore estremo, tanto che ancora nel 1976 la storica del cinema Neja Zorkaja stigmatizzava “l’esecrabile produzione del belletrista erotico Anatolij Kamenskij” (Sfondi e requisiti. La pornografia sugli schermi degli anni Dieci, ora in Letteratura e cinema nel Modernismo russo, a cura di Claudia Criveller e Anita Frison, WriteUp Books, Roma 2022).

Zagrobnaia skitalitsa / Zhenshchina-vampir (1915)

Nello stesso 1915 di Zagrobnaia skitalitsa, il cinema muto russo ci offre un’altra Vampira in Posle smerti (Dopo la morte) di Evgeny Bauer, ispirato a un racconto di Ivan Turgenev. Può sembrare una forzatura definire Vampira lo spettro al centro del film, ma sicuramente molte sequenze indicano un riferimento alla vampiresca donna distruttiva, presentando un uomo vinto e consumato da una figura femminile che torna dalla morte.

Il giovane scienziato Andrei Bagrov (Witold Polonsky), dedito solo ai suoi studi, rifiuta l’amore dell’attrice Zoya Kadmina (Vera Karalli) e la ragazza si avvelena. Leggendo il diario della suicida, Andrei comincia ad avere allucinazioni in cui vede Zoya vestita di bianco, il volto angelico e sofferente, che gli indica l’Aldilà. Col protrarsi delle visite dello spettro, il giovane deperisce, sta sempre più male. “Hai vinto… Prendimi! Sono tuo…”, esclama infine. Dopo l’ennesima apparizione, Andrei muore nel suo letto.

Il film Posle smerti è sopravvissuto, in ottime condizioni, permettendoci di valutare le effettive assonanze con il vampirismo. Per quanto immateriale, il fantasma al centro del film assomma le caratteristiche del vampiro: avvicina la bocca al collo del suo amato, lasciando intendere il desiderio di un morso, e lo sovrasta mentre è privo di sensi. Una scena fa sorgere il dubbio che Zoya sia un essere concreto, come i vampiri leggendari, perché Andrei dopo una delle apparizioni si risveglia e si trova tra le mani una ciocca di capelli della ragazza.

L’attrice Vera Karalli che interpretava la pseudovampira ha avuto una notevole carriera durante il cinema muto e il suo nome è legato a una vicenda importante della storia russa: era quasi certamente presente, anche se non è stato mai ammesso dai testimoni, nel palazzo del principe Feliks Jusupov quando, in una notte del dicembre 1916, venne ucciso con veleno e colpi di pistola Rasputin, il famoso consigliere dello zar. La Karalli era l’amante di uno dei cospiratori che eliminarono il “monaco nero”, il granduca Dmitrij Pavlovič Romanov, cugino dello zar Nicola II (e aspirante al trono).

Lo spettro vampiresco di Posle smerti (1915)

Per quella catena di coincidenze bizzarre che connota a volte il “vampirismo” dell’immaginario, uno degli attori di Posle smerti, Georgij Azagarov, nel 1917 scrive e dirige il film Zhenshchina vampir (La donna vampiro) che esce in sala nei giorni della Rivoluzione bolscevica. Era l’adattamento cinematografico del racconto Ubiystvo (Omicidio; in Sobraniye sochineniy, vol. 7, 1906) di Vlas Doroshevich, prolifico giornalista e scrittore che vantava oltre cento pseudonimi.

Il testo di Doroshevich è un’agghiacciante descrizione della lenta morte di un uomo, inizialmente convinto di avere solo una bronchite e a poco a poco consapevole che la sua bellissima moglie lo sta uccidendo, per impadronirsi dell’eredità. Ogni bacio che la donna gli concede lo porta verso la morte. L’uomo, in scenari tropicali, si immagina “sdraiato sull’erba, morente, mentre un vampiro succhia il sangue”.

Il film Zhenshchina vampir proponeva la stessa situazione del racconto, con il protagonista Victor (Nikolaj Rimskij) che è progressivamente indebolito dai baci e dalle attrattive sessuali di Alla (Vera Charova). Leggendo una recensione, recuperata da Gary D. Rhodes e apparsa su “Sine-Fono” (n. 1-2, 1918), pare che nel film comparisse anche il quadro di una “donna vampiro” che Victor ammira e che prende vita confondendosi con l’immagine di Alla. Il film è perduto, quindi non è dato sapere quali fossero le caratteristiche del ritratto, ma possiamo fantasticare su un’ipotesi: poteva trattarsi di una riproduzione del dipinto The Vampire di Burne-Jones?

Avendo lo stesso titolo (Zhenshchina vampir) del film con Olga Baclanova del 1915, l’opera di Azagarov è spesso confusa con la pellicola anteriore. Quel titolo, in ogni caso, è rimasto a lungo nella memoria russa, come dimostra una citazione nel film sovietico del 1968 Sluzhili dva tovarishcha (Servivano due compagni, 1968) di Yevgeni Karelov. Nella prima parte, ambientata nel 1920, un comandante dell’Esercito rosso tesse le lodi del cinema a un soldato, per convincerlo della necessità di girare un film sugli eroi della Rivoluzione: “Il cinema è una gran cosa! Cinema! Hai visto Zhenshchina vampir? Resti lì seduto, sconvolto dall’orrore”.

Non sappiamo a quale delle due “donne-vampiro” del cinema russo si riferisse quella citazione, ma indubbiamente si evince che almeno una di quelle pellicole fosse popolare ed evocativa. La figura della Vampira aveva conquistato anche la Russia.

Zhenshchina vampir, 1917 (dal forum del sito kino-teatr.ru)

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 7bis

Mute Vampire italiane

L’ondata di Vampire avviata dal 1897 grazie alla poesia The Vampire di Rudyard Kipling e all’omonimo quadro di Philip Burne-Jones sfiorò anche l’Italia. Da noi, i vampiri leggendari avevano avuto relativa popolarità, nonostante all’estero si fantasticasse spesso di un’Italia “terra di vampiri”: nel pieno della moda vampiresca di inizi Novecento, ad esempio, Francis Marion Crawford ambientò in Calabria il suo racconto For the Blood Is the Life (Perché il sangue è la vita, 1905).

Una riproduzione del quadro di Philip Burne-Jones da “Harper’s Weekly” (31 gennaio 1903)

Per quanto il vampiro vero e proprio non avesse un’attenzione particolare in Italia, sappiamo però che il fantastico, il gotico e il macabro non erano affatto estranei alla cultura italiana di allora, come hanno dimostrato dettagliatamente, tra gli altri, gli studi di Fabrizio Foni. Così, anche la Vampira kiplinghiana ha avuto un suo passaggio fugace in Italia.

Come spesso avveniva nella cultura nostrana, sapevamo innovare e rielaborare le mode estere: nel caso della Vampira si riuscì a unire la donna fatale al western. Nel dicembre 1913, infatti, esce nelle sale La vampira indiana, prodotto dalla torinese Aquila Films. A dirigerlo e interpretarlo era Roberto Roberti, pseudonimo di Vincenzo Leone, molto attivo nel cinema muto. E nel cast c’era Bice Waleran (o Valeran), pseudonimo di Edvige Valcarenghi: Roberti e la Waleran diventeranno genitori, nel 1929, di Sergio Leone, destinato a una splendida carriera proprio nel cinema western.

Il western non era estraneo all’immaginario italiano di quegli anni. Tra il 1908 e il 1910 Emilio Salgari aveva pubblicato una trilogia di romanzi definita “Ciclo del Far West” e le atmosfere western erano apparse clamorosamente nell’opera lirica di Giacomo Puccini La fanciulla del West (1910). Spesso negli studi di storia del cinema si definisce La vampira indiana “il primo western italiano”, ma non è del tutto corretto. Nel maggio 1913, quindi diversi mesi prima del film di Roberti, un’altra casa produttrice torinese, la Savoia Film, aveva realizzato Nel vortice del destino, vero e proprio western.

La particolarità di La vampira indiana sta nella fusione del western con la figura della femme fatale “vampiresca”. La donna del titolo è una “pellerossa” che, per aiutare i fratelli, uccide un uomo e fa accusare e condannare un innocente. Ma la figlia di quest’ultimo riesce a far riconoscere l’innocenza del padre. Commentava il quindicinale “Il Maggese cinematografico” (n. 1, 1914), descrivendo la cattiveria della “vampira”: “Ammettiamo pure che una donna indiana commetta dei crimini per beneficare i suoi fratelli, ma che faccia tutto da sé è un po’ troppo! Ed ha molto da fare e cose le più svariate e difficili. Non neghiamo però che ha della grande abilità. Entra ed esce nei palazzi e fa il comodo suo senza trovare alcuno che le sbarri il passo. Ammazza, telefona e fa condannare in sua vece un povero innocente”.

Il film è perduto, sopravvive una solo foto. “La Stampa” (29 dicembre 1913) in un breve trafiletto definiva La vampira indiana “straordinario cinedramma d’eccezionale interesse drammatico e con messa in scena veramente sfarzosa”, aggiungendo che “si prevede un successo grandissimo”.

L’unica foto esistente di La vampira indiana

A causa della scarsa documentazione e delle poche recensioni dell’epoca, non possiamo sapere se la Vampira fosse interpretata da Bice Waleran o da quella che risulta l’attrice principale del film, Antonietta Calderari, vera star delle produzioni Aquila e spesso ritratta in pose da vamp. Sergio Leone pareva certo, comunque, che fosse sua madre Bice la donna a cavallo che compare nell’unica foto esistente. Nel saggio di Lorenzo Codelli Il West in Europa, l’Europa nel West (in  Storia del cinema mondialeL’Europa. Miti, luoghi, divi, Volume I, a cura di Gian Piero Brunetta, Einaudi, Torino 1999) si legge: “Ricordo bene come Leone osservasse intensamente quell’unica foto rimasta de La vampira indiana – una scena in cui sua madre a cavallo in tenuta da pellirossa è attorniata da altri due indiani con tante piume folte sul capo, sullo sfondo d’un accampamento – quasi tentando di animare quel reperto immobile”. Codelli aggiunge che Leone “non si dava pace che tra i fortunosi ritrovamenti [delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone] non comparisse ancora quella mitica pellicola paterna”. E Vittorio Martinelli, ricordando i suoi incontri con Leone, in compagnia  di Aldo Bernardini durante la stesura di un saggio su Roberto Roberti, scrive: “Sergio Leone ci mostrò con molto orgoglio una fotografia di La vampira indiana, unica testimonianza rimasta di quell’impresa pionieristica e, a libro pubblicato, si meravigliò che avessimo trovato anche alcuni brani della critica del tempo” (Vittorio Martinelli, Laggiù nell’Arizona, in “Bianco & nero” n. 3, 1997).

Dunque nemmeno Sergio Leone possedeva altri materiali e documenti su quel film interpretato dai suoi genitori. Eppure era molto legato a La vampira indiana che vedeva quasi come un presagio del suo successo nel “western all’italiana” (in omaggio al padre firmò il suo primo film western, Per un pugno di dollari, con lo pseudonimo di Bob Robertson, cioè “figlio di Roberto”). Un fumetto dedicato nel 2019 alla vita del regista, intitolato Sergio Leone e pubblicato da Glénat (con disegni di Philan e testi di Noël Simsolo, amico di Leone e studioso del suo cinema), ritrae in una vignetta Sergio bambino che nel 1937 scopre la foto della madre in La vampira indiana.

Sergio Leone bambino guarda la foto della madre in La vampira indiana nel fumetto del 2019

Una vampira della notte

Le Vampire italiane dei primi anni del Novecento non finiscono con La vampira indiana. Nel 1914 la Aquila Films vende all’americana Greene’s Feature Photo Plays un film che viene distribuito come Vampires of the Night (paradossalmente è lo stesso titolo di lavorazione che nel 1935 sarà assegnato a Mark of the Vampire di Tod Browning). Si presume che il cast fosse simile a quello di La vampira indiana, perché i film Aquila di quel periodo erano quasi tutti realizzati con gli stessi attori.

Secondo la novelization del film, pubblicata da “Illustrated Film Monthly” (marzo-agosto 1914), la trama muove da uno scambio di neonati nella culla: Judith, la figlia di un criminale che è stato impiccato, viene sostituita alla piccola Edna, duchessa di Burville. Crescendo, Judith manifesta la stessa anima malvagia di suo padre e nonostante sia una duchessa guida una banda di delinquenti. Innamorata di un poeta “alla Byron”, Lord Norman, la malvagia Judith si vede portar via l’oggetto del suo amore proprio da Edna, ridotta a cantare in strada per sopravvivere. Quando la verità sulle sue origini viene svelata, Judith si uccide.

La novelization di Vampires of the Night su “Illustrated Film Monthly” (marzo-agosto 1914)

Si può ipotizzare, come fa Gary D. Rhodes, che Vampires of the Night fosse la versione americana di La belva di mezzanotte (o La belva della mezzanotte), uscito in Italia nel settembre 1913. Secondo Aldo Bernardini e Vittorio Martinelli (Il cinema muto italiano, 1905-1931, CSC-Nuova Eri, Roma-Torino, 1991-1996), La belva di mezzanotte era interpretato nel ruolo della duchessa da Claudia Gaffino Zambuto e nella parte del Lord dal marito Gero Zambuto (forse anche regista del film, suo esordio dietro la macchina da presa): entrambi erano stati da poco reclutati dalla Aquila Films. Viceversa “Illustrated Film Monthly” indica come protagonista femminile Antonietta Calderari, ponendo la sua foto in apertura della novelization di Vampires of the Night.

La similitudine tra le trame dei due film e l’assonanza dei titoli è tale da rendere quasi certo che La belva di mezzanotte sia Vampires of the Night. Comunque, i nomi dei personaggi in La belva di mezzanotte differiscono da quelli riportati dalla novelization americana di Vampires of the Night: almeno secondo quanto si evince da “La Vita Cinematografica” (15 ottobre 1913), i due protagonisti principali del film italiano si chiamavano duchessa di Burleigh e Lord Hashton. È possibile inoltre che una stessa attrice interpretasse entrambi i ruoli, Edna e Judith, dato che veniva sottolineata l’incredibile somiglianza tra le due donne.

Antonietta Calderari

Altre figure vampiresche del cinema muto in Italia

La presenza nel cinema italiano della Vampira di origine kiplinghiana si riduce dunque a due titoli. Inoltre, Dracula non era stato ancora tradotto nella nostra lingua e i film esteri che abbiamo citato nell’articolo precedente non arrivavano nelle sale italiane, già occupate dalla innumerevole produzione cinematografica nostrana. La critica, poi, stigmatizzava ogni incursione del cinema italiano nel macabro o nell’orrorifico, reputando inadatta al gusto “mediterraneo” ogni storia soprannaturale di vampiri o fantasmi.

Se il Decadentismo aveva offerto donne dominanti e disinibite che destabilizzavano l’uomo, il cinema muto italiano non sembra quindi assumere la figura della Vampira di Kipling. Ma l’immaginario non era certo impermeabile alle suggestioni della voga “straniera” delle donne fatali dai tratti vampireschi. Anzi, il nostro cinema muto aveva creato il fenomeno peculiare delle Dive, strette parenti delle Vampire, ma con significative differenze: “Le dive italiane non uccidono per pura crudeltà, ma perché i loro personaggi si ribellano contro molestia sessuale, stupro o adulterio. Sotto questo aspetto, la diva italiana non accoglie la vocazione omicida gratuita o egoistica della femme fatale. In altre parole, la diva non uccide per ottenere un avanzamento sociale” (Angela Dalle Vacche, Diva. Defiance and Passion in Early Italian Cinema, University of Texas Press, Austin 2008).

L’uomo esanime e la donna dominante in Il fuoco (1916)

Tra le attrici che per prime sono state caratterizzate come interpreti di donne fatali spicca Pina Menichelli, a partire da Il fuoco (1916), film che contiene un’immagine della perfida donna incombente su un uomo riverso molto evocativa del quadro The Vampire di Burne-Jones. Come in alcune pellicole americane sulla Vampira, i film italiani sulle Dive mettevano a volte in contrapposizione le figure della donna senza scrupoli che seduce e porta l’uomo alla distruzione e della Madre che tutela la famiglia e i figli. Molte erano le storie “in costume” che inscenavano donne crudeli o perverse sotto le spoglie di grandi personaggi femminili (reali o leggendari) dell’antichità, regine e seduttrici dell’Antica Roma o di secoli lontani.

Il nesso con la sottrazione di energia o di sangue, determinante nel successo della Vampira di Kipling, non pare presentarsi nel cinema muto italiano. L’uso stesso del termine “vampiro” è rarissimo, così come il riferimento ai vampiri soprannaturali nelle sceneggiature. Gli unici altri esempi (tutti perduti) di titoli che contengono quel termine, oltre a La vampira indiana, sono La torre dei vampiri (1914), Il vampiro (1915) e infine La carezza del vampiro (1918).

Prodotto dalla Ambrosia film e distribuito in America come The Vampire’s Tower, il film La torre dei vampiri era diretto da Gino Zaccaria e raccontava di una torre attorniata, secondo una leggenda, da pipistrelli vampiri in cui si sono incarnate le anime dei dannati: lì si nasconde  l’ex boia di Parigi (Oreste Grandi), scacciato dalla Rivoluzione, che si accanisce contro una coppia in procinto di matrimonio, la Fornarina (Lia Negro) e Raimondo (Alfredo Bertone). Il termine “vampiro” appare utilizzato quindi per descrivere personaggi criminali particolarmente spietati. Un delinquente è anche il protagonista di Il vampiro, prodotto dalla Film Artistica Gloria di Torino e diretto da Vittorio Rossi Pianelli, con Dante Cappelli e Lydia Quaranta. Uscito nel gennaio 1915, subì i tagli della censura per una scena cruenta. Anche se Bernardini e Martinelli nella loro storia del cinema muto italiano indicano Luigi Capuana come fonte letteraria del film, certo non traeva ispirazione dal suo racconto Un vampiro (1904) che aveva ben diverso contenuto. Così infatti è sintetizzata la trama del film su “La Vita Cinematografica” (22 febbraio1915): “Un cotale che vuole sposare per forza una ragazza che ama un giovane cugino. Un delitto che porta l’innocente in galera. Punizione del colpevole e trionfo della giustizia”.

Altrettanto metaforico sarà l’uso del termine per il titolo del film La carezza del vampiro, con visto della censura del novembre 1918, ma apparentemente distribuito prima all’estero che in Italia: anche in questo caso, il “vampiro” è un malfattore che agisce nel mondo dell’aristocrazia e finisce sconfitto niente meno che da Maciste.

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 7

La Vampira di Kipling invade il cinema

Quando nel 1897 Rudyard Kipling scrisse la poesia The Vampire per il quadro di Philip Burne-Jones, il cinema era ancora ai suoi primi passi. Nel giro di pochi anni, però, le produzioni cinematografiche e le sale per proiezioni erano aumentate: era inevitabile che l’ondata di interesse per la figura vampirica proposta da Kipling si presentasse anche sugli schermi.

Come abbiamo visto in un articolo precedente, l’unione tra vampiro leggendario e donna fatale ha una prima espressione al cinema nel 1905, grazie al corto Loie Fuller, prodotto dalla Pathé Frères.

Loie Fuller, della durata di un minuto e mezzo, colorizzato a mano, si avvia con le immagini di un pipistrello che vola su una terrazza e che un semplice effetto di montaggio fa tramutare in una donna dall’ampio abito. Alzando le braccia, la donna rende il costume simile ad ali di pipistrello e inizia una danza facendo vorticare il vestito, che cambia continuamente colore, nella tipica modalità delle rappresentazioni di Loïe Fuller. Dopo essersi completamente avvolta nell’abito, la donna scompare in una dissolvenza.

Il cortometraggio Loie Fuller (1905)

Non è certo che nel filmato sia ripresa proprio la Fuller o un’altra ballerina che esegue le sue tipiche danze, né c’è conferma che il regista fosse Segundo de Chomón, il cineasta spagnolo grande esperto di colorizzazione delle pellicole e di trucchi visivi. Secondo gli storici del cinema Loie Fuller si contende il ruolo di primo film sui vampiri con Le manoir du diable (1896) di Georges Méliès. Di certo entrambi condividono le immagini della trasformazione di un pipistrello in un essere umano, ma il corto di Méliès è incentrato su un tipico diavolo dal berretto piumato, non su un vampiro, per quanto arretri alla vista di una croce come i suoi colleghi succhiasangue.

Gary D. Rhodes (Vampires in Silent Cinema, Edinburgh University Press, Edinburgh 2024) assegna il primato a Loie Fuller, mentre David Annwn Jones (Vampires on the Silent Screen. Cinema’s First Age of Vampires 1897-1922, Palgrave Macmillan, London 2023) gli ha contestato che la caratteristica necessaria per definire un “vampiro” è il consumo di sangue, del tutto assente nel corto del 1905.

Loie Fuller si collega comunque a un immaginario che fonde il vampiro soprannaturale e la donna, sicuramente influenzato dalla Vampira sorta dalla duplice opera di Burne-Jones e Kipling che, come abbiamo visto, avrà di lì a poco un’affermazione decisiva proprio nella danza. A essere evocato dal corto Loie Fuller non è tanto il “vampirismo” (inteso come atto di succhiare il sangue da parte di un nonmorto), quanto un generico “vampiro” (figura soprannaturale e minacciosa) associato al pipistrello. La parentela tra vampiro e pipistrello era già ben radicata all’inizio del Novecento, grazie soprattutto alle arti grafiche che, ad esempio nelle illustrazioni di satira politica, mostravano da decenni il pipistrello come animale feroce e spesso gigantesco impegnato ad attaccare il collo di esseri umani per suggerne il sangue. Nel cinema, l’associazione tra pipistrello e vampiro in quello stesso 1905 era evidenziato dalle donne con ali da chirottero nel corto L’antre infernal di Gaston Velle.

La trasformazione da pipistrello a diavolo in Le manoir du diable (1896)

The Vampire (1910)

Loie Fuller non faceva alcun riferimento diretto alla figura della Vampira popolarizzata dalla poesia omonima di Rudyard Kipling. Ma dopo pochi anni, nel 1910, la Vampira di Kipling e Burne-Jones arriva sugli schermi del cinema in modo chiaro e diretto, in particolare dopo il successo a teatro di A Fool There Was e della “Vampire Dance”. Il produttore William Nicholas Selig si inserisce nella nuova moda vampiresca e a novembre 1910 porta nelle sale The Vampire, esplicitamente ispirato alla poesia di Kipling. “The Film Index” (29 ottobre 1910) rende più che evidente l’omaggio a Kipling e Burne-Jones illustrando una segnalazione del film con il celebre quadro e aggiungendo ampie citazioni dalla poesia.

Recensione per il film The Vampire su “The Film Index” (29 ottobre 1910)

Il regista di The Vampire è ignoto, mentre la direzione della fotografia era attribuita a William C. Foster. Secondo un commento dell’epoca (“Moving Picture World”, 26 novembre 1910) il film poteva essere capito solo da chi conosceva il quadro di Burne-Jones e la poesia di Kipling, mentre “non è abbastanza chiaro per lo spettatore medio”.

Guy Temple (Charles Clary) si sposa con Emily, ma dopo il matrimonio è attratto dalle arti seduttive di Loie (Margarita Fischer): per lei si rovina e le regala gioielli. John Temple, fratello di Guy, ricorda grazie a un sogno di aver già visto la perfida Loie: aveva distrutto la vita del padre di Emily, portandolo alla morte. John cerca invano di convincere Guy a lasciare la Vampira e le offre del denaro per abbandonare l’America. Tutto è inutile e Guy precipita nell’abisso della distruzione, mentre la Vampira festeggia sul suo corpo inanimato.

Pubblicità per The Vampire (1910) e un fotogramma dalla scena finale

The Vampire è un film perduto, ma nel febbraio 2013 il blogger doctor kiss annunciava su tapatalk.com di averne scoperto un brevissimo frammento, trovandolo in una scatola di vecchie pellicole di un disegnatore tedesco. È la scena finale, con la Vampira che incombe sul corpo della sua vittima. Il ritrovamento è importante perché permette di visualizzare il riferimento del film alle scenografie delle “danze della vampira” diventate popolari dal 1909, caratterizzate proprio da una scala ai cui piedi soccombe l’uomo vampirizzato.

L’onda lunga dei versi di Kipling sulla Vampira si riverbera anche in un film distribuito nell’ottobre 1911, A Woman’s Slave, probabilmente girato in Francia, dato che è una produzione Urban-Eclipse: il produttore angloamericano Charles Urban, infatti, era legato alla società parigina Eclipse, capace di realizzare 150 film all’anno. Il debito nei confronti di Kipling era dichiarato da “Moving Picture World” (11 novembre 1911): “Forse questo film può essere considerato una corretta rappresentazione della famosa poesia di Kipling, The Vampire. La donna è mostrata come un essere senza cuore che induce l’uomo al furto per ottenere gioielli con cui ornarsi. Lui si salva dalle sue grinfie grazie al costante amore della madre e alla benevolenza di un gioielliere. C’è qualcosa di sconvolgente nel freddo egoismo e nella crudeltà della donna”.

Alice Hollister

Alice Hollister, la prima diva vamp(ira)

Ormai il termine “Vampire”, applicato alla donna fatale, era garanzia di successo e nel 1913 si mise in cantiere un’altra pellicola con lo stesso titolo del film realizzato tre anni prima dalla Selig, The Vampire, prodotta dalla Kalem per la regia di Robert G. Vignola e di cui abbiamo parlato in un articolo precedente perché conteneva la celebre Vampire Dance del duo Eis-French. Il film lanciava anche la prima diva vamp(ira), Alice Hollister nel ruolo della donna che porta alla perdizione, cui si aggiungeva Alice Eis come “vera” vampira che uccide l’uomo dopo un ballo seduttivo.

Vista la buona accoglienza del loro The Vampire, la Kalem tornò a occuparsi di una Vampira con il corto di 26 minuti The Vampire’s Trail (1914), diretto ancora da Vignola in collaborazione con T. Hayes Hunter e di nuovo con Alice Hollister nel ruolo della donna fatale (alcune filmografie sui vampiri riportano un cortometraggio dallo stesso titolo datato 1910, ma non risulta alcuna informazione sulla sua esistenza).

Il giornalista americano dedito ai gossip John Dugan (Robert Walker) e una cantante spregiudicata, Rita Caselli (Alice Hollister), si alleano per compromettere un ricco uomo sposato, Horace Payne (Tom Moore). Rita fa amicizia con l’uomo e riesce a farsi invitare a casa sua, dove conosce la moglie Laura (Alice Joyce) e il loro figlio neonato. Il bambino si ammala di difterite e Rita deve restare in quarantena nella casa, tentando ancora di sedurre Horace. Laura scopre la tresca, il marito chiede perdono e Rita si pente.

La Vampira è qui sottoposta a un processo di “normalizzazione”, perché non trionfa come nella tradizione teatrale ispirata alla poesia di Kipling, ma viceversa giunge al pentimento in un classico happy end. Il nome italiano dato al personaggio della Vampira segnala inoltre che era arrivata oltreoceano l’influenza del sorgente fenomeno tricolore delle Dive, spesso simili alle donne fatali di Hollywood (della fugace presenza di Vampire nel cinema muto italiano tratteremo in un prossimo articolo).

Pubblicità per The Vampire’s Trail (1914)

Dopo il successivo boom delle Vamp/ire grazie a Theda Bara, la Kalem riproporrà ancora Alice Hollister in un ruolo vampiresco per The Lotus Woman, nel 1916, presentando l’attrice come “the original screen vampire”. Scriverà “The Moving Picture World” (24 giugno 1916): “Quando uno storico del cinema arriverà al capitolo dedicato alla mania per le vampire, dovrà assegnare una menzione speciale a Alice Hollister, in quanto ‘vampira originaria del cinema’. La star della Kalem sarà ricordata come ‘la’ vampira del cinema prima che quel tipo di personaggio diventasse una fonte comune di ispirazione per scrittori e produttori di film”. Sempre nel 1916 la casa produttrice Kalem prenderà in giro se stessa con una parodia della Vampira, An Innocent Vampire, un corto comico dell’allora famosa “Sis Hopkins” interpretata da Rose Melville: per una serie di equivoci, Sis appare a tutti come una cacciatrice di uomini che sottrae alle rispettive mogli e fidanzate, ma alla fine si scopre la sua buona fede.

Rose Melville in An Innocent Vampire (1916)

La Vampira attraversa l’Europa

Il personaggio della Vampira kiplinghiana e delle danze relative doveva presto varcare l’oceano e riverberarsi nel cinema europeo. Nell’ottobre 1911 una Vampira compare in Germania nel cortometraggio (218 metri) dal titolo Der Vampyr, grazie al produttore tedesco Oskar Messter. Distribuito in America nel gennaio 1912, per l’ennesima volta con il titolo The Vampire, il corto è così sintetizzato da “Moving Picture World” (20 gennaio 1912): “Un giovane milionario dopo l’incontro con una donna vampira sogna che lei entri nel suo appartamento e disprezzi i doni che le getta ai piedi. Il giovane si contorce per la sofferenza, fino a che cade sul pavimento e si sveglia rendendosi conto che è stato tutto un sogno. Allora si toglie dalla mente l’immagine di lei e torna a essere un uomo assennato”.

Qualche anno dopo Messter riproporrà il tema producendo il corto di 36 minuti Vampirette (1916), dove la perfida pianista Adele (Wanda Treumann) tenta il suicidio sdraiandosi sui binari del treno, ma è salvata dalla giovane Hertha (Claire Praetz): come ricompensa per il suo gesto generoso, Adele le seduce il marito (Viggo Larsen) e Hertha si uccide coricandosi a sua volta sui binari.

Clara Wieth in Vampyrdanserinden (1912)

Messter era un produttore che tentava di competere con le potenti ditte cinematografiche scandinave, a loro volta dedite a sfruttare l’interesse per le donne fatali vampiresche. Nel 1912 esce il film danese Vampyrdanserinden (Ballerina vampira), della casa produttrice Nordisk e con regia di August Blom, distribuito un anno dopo per il pubblico anglofono come Vampire Dancer – A Tragedy of the Stage. È uno dei pochi film della saga sulla Vampira di inizi secolo che non è perduto.

Silvia Lafont (Clara Wieth, vero cognome Pontoppidan) è una ballerina famosa per la sua “Danza della vampira”. Il suo nuovo compagno di ballo, Oscar Borch (Robert Dinesen), si innamora di lei, ma la giovane è fidanzata e lo respinge. Disperato per il rifiuto, Oscar si avvelena e muore mentre balla la “Danza della vampira” con Silvia.

Clara Wieth e Robert Dinesen in Vampyrdanserinden

Vampyrdanserinden fece scalpore soprattutto per la danza vampiresca, a conferma della popolarità di quel ballo in tutta Europa e non solo in America. Ed è importante notare che la raffigurazione cinematografica di quella danza, con la Vampira che strangola e poi morde la sua vittima, precede di un anno il film americano The Vampire della Kalem dove si reclutarono Eis e French per lo stesso ballo.

Va ricordato che la Danimarca aveva già proposto il tema della donna fatale nel 1910, con Afgrunden (L’abisso) dove Asta Nielsen si esibiva in una Apache dance (che il quotidiano “Nationaltidende” del 13 settembre 1910 definiva esplicitamente “vampyrdans”) e poi uccideva il suo compagno. Non a caso, Georges Sadoul si è spinto ad affermare che “la vamp è una creazione danese” (Histoire générale du cinéma, Tome III, primo volume, Denoël, Paris 1946).

Le suggestioni di Vampyrdanserinden sono state ribadite in anni recenti dallo scrittore svizzero di lingua tedesca Christian Kracht nel suo romanzo Die Toten (2016; trad. it. I morti, La nave di Teseo, Milano 2021). Il protagonista del libro, Nägeli, negli anni Trenta si reca alla sede della Nordisk per farsi mostrare il film Vampyrdanserinden, ma la pellicola durante la proiezione prende fuoco e si deve ricorrere a un estintore: “Nägeli ne rimase incantato, restò seduto profondamente toccato nell’animo dall’ipnotico caleidoscopio magenta, verde, blu, giallo, turchese sullo schermo davanti a lui, prodotto dal fascio di luce del proiettore che trapassava la schiuma antincendi”.

Il morso della vampira in Vampyrdanserinden

Anche la cinematografia rivale della Danimarca, quella svedese, mette in cantiere un film melodrammatico sulla Vampira. Nel febbraio 1913 esce in Svezia il film di 43 minuti Vampyren, noto anche con il sottotitolo En kvinnas slav (Lo schiavo di una donna), scritto e diretto da Mauritz Stiller, uno dei più prestigiosi registi svedesi. L’interprete principale era Victor Sjöström, in procinto di passare dietro la macchina da presa per diventare celebre con film come Körkarlen (Il carretto fantasma, 1921). L’attrice che interpretava la Vampira tentatrice di turno era la danese Lili Bech che un anno dopo si sposerà con Sjöström.

Il tenente Roberts (Victor Sjöström) si invaghisce di Theresa (Lili Bech), un’avventuriera senza scrupoli che lo deruba e lo costringe a falsificare una cambiale. Scoperto, Roberts è costretto a fuggire dalla polizia e lo scandalo fa morire di crepacuore sua madre (Anna Norrie). Roberts anni dopo trova impiego come lavorante in un teatro americano di varietà, dove si esibisce proprio Theresa. Respinto dalla donna, Roberts tenta di ucciderla. Quando Roberts cade rovinosamente durante il suo lavoro, Theresa lo soccorre e si pente.

Il pubblico parve gradire il film, affollando le sale, poi intervenne la censura per le implicazioni sessuali di alcune scene. I critici, da parte loro, dedicarono scarsa attenzione a Vampyren, pur lodando gli interpreti e in particolare Lili Bech. Vampyren è oggi un film perduto, ma nel 1980 sono riemersi 8 secondi di pellicola, il primo piano di un bacio tra Sjöström e la Bech.

Lili Bech e Victor Sjöström in Vampyren (1913)

Hiawatha, la danza della Vampira

Nel 1913 ancora la Germania offriva un riferimento alla “danza della vampira” con un film in due bobine della casa produttrice Colonia, Hiawatha, uscito in contemporanea con Der Student von Prag (Lo studente di Praga), il grande classico del cinema tedesco nato dalla collaborazione tra Hanns Heinz Ewers, Stellan Rye e Paul Wegener.

A interpretare Hiawatha erano Joe Biller e Hild Hadges, una coppia di ballerini piuttosto nota sulla scena europea per la “danza della vampira”: nel dicembre 1913, ad esempio, portano la loro  “vámpírtánc” a Budapest e nell’aprile 1915 saranno in Italia con le loro “danze acrobatiche” al teatro Fenice di Trieste. Si leggeva su “Il Piccolo”(22 aprile 1915): “Hild Hadges e Joe Biller, i bravissimi danzatori americani, ottennero anche ieri vivo successo e furono alla fine della suggestiva ‘Danza del Vampiro’ chiamati ripetutamente alla ribalta. Spettacolo davvero magnifico”. Il legame di Biller con l’Italia doveva durare a lungo, se nel novembre 1933 si esibiva ancora in un “trio di danze” al Rossini di Venezia.

Recensendo il film Hiawatha, il quotidiano “Metzer Zeitung” (7 marzo 1914) affermava che “lo stesso imperatore Francesco Giuseppe I e l’erede al trono l’arciduca Francesco Ferdinando d’Este hanno ammirato l’arte della coppia Joe Biller e Hild Hadges”. Secondo quanto si desume dalla stampa dell’epoca, il film presentava una Vampire dance dove la donna, per gelosia, durante il ballo bacia violentemente il partner e poi lo morde al collo, uccidendolo. Hiawatha fu vietato ai minori dalla polizia di Monaco e Berlino e poi censurato.

Pubblicità da “Lichtbild-Bühne” n. 33,1913

Il primo a segnalare Hiawatha come film di vampiri è probabilmente Denis Gifford nel suo Movie Monsters (Studio Vista, London 1969), ma non è stato preso in considerazione negli studi sul genere, anche a causa di un fraintendimento: il caso volle che nello stesso anno uscisse in America un film dall’identico titolo Hiawatha, ispirato a un noto poema di Henry Wadsworth Longfellow e incentrato sui nativi americani. Si è così creato un equivoco, testimoniato da innumerevoli filmografie, che ha “fuso” i due film e i loro interpreti a detrimento della pellicola tedesca. Il film americano diretto da Edgar Lewis, infatti, è rimasto celebre per essere il primo interpretato da veri nativi, oscurando così involontariamente l’esistenza dell’omonimo tedesco dal ben diverso contenuto.

Nel settembre 1913 anche in Gran Bretagna appare una Vampira cinematografica, nel cortometraggio della Searchlight Films dal solito titolo The Vampire, perduto e di cui si sa pochissimo. Ambientato in India, vedeva un esploratore uccidere la donna che aveva portato alla morte un suo amico, poi la femme fatale resuscitava, si trasformava in serpente ed eliminava anche l’esploratore. Il film ottenne persino un remake con Heba, the Snake Woman (1915), a sua volta perduto, imperniato su una principessa azteca con le stesse attitudini alla trasformazione in serpente. L’argomento era stato peraltro già affrontato nel 1912 nel film americano di 52 minuti The Reincarnation of Karma, diretto da Van Dyke Brooke, con la donna fatale interpretata da Rosemary Theby che sarà poi la fata Morgana in A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court (1921).

Il sacerdote indiano Karma (Courtenay Foote) resiste alle tentazioni sessuali messe in atto dall’incantatrice Quinetrea (Rosemary Theby), capace di trasformarsi in serpente. Secoli dopo Quinetrea riappare al giovane Leslie, che è la reincarnazione di Karma, e fa cadere in coma la sua fidanzata (Lillian Walker).

The Reincarnation of Karma (1912)

Altre Vampire kiplinghiane

Se gli scandinavi Vampyrdanserinden e Vampyren, l’inglese The Vampire e i tedeschi Der Vampyr e Hiawatha non dichiaravano il loro debito nei confronti di Kipling, in America il riferimento alla fonte letteraria era ancora efficace. Nel 1913, la Vitagraph produce The Vampire of the Desert (1913), cortometraggio in due bobine diretto da Charles L. Gaskill che la pubblicità definiva come “adattamento della ben nota poesia di Kipling” (“Moving Picture World”, 10 maggio 1913). La “vampira del deserto” aggiungeva ulteriori capacità sovversive alla figura della donna fatale: la distruzione della famiglia tradizionale da parte della Vampira comportava in questo caso la seduzione di padre e figlio.

The Vampire of the Desert è perduto, ma può essere dettagliatamente immaginato grazie a una novelization di Norman Bruce, basata su una copia del film inviata dai produttori e apparsa sulla rivista “Motion Picture Story” (giugno 1913).

La fascinosa Lispeth (Helen Gardner) vive in una capanna nel deserto con un uomo che la ama follemente, Ishmael (Harry T. Morey), e con la vecchia madre di lui, Hagar (Flora Finch). Il ricco banchiere William Corday (Tefft Johnson), in viaggio con la moglie (Leah Baird) e il giovane figlio Derrick (James Morrison) accompagnato dalla fidanzata Ethel (Norma Talmadge), si imbatte nella capanna durante una gita. William subisce subito il fascino di Lispeth che ne approfitta per unirsi al gruppo di turisti e sfuggire alla sua insoddisfacente vita nel deserto. Il banchiere è deciso a lasciare la sua famiglia per amore di Lispeth, ma il figlio scopre i suoi piani. Lispeth seduce anche il giovane Derrick e scatena la rivalità tra padre e figlio. Quando la situazione sta per precipitare, ecco apparire Ishmael che riporta di forza Lispeth nel deserto e la uccide.

La novelization di The Vampire of the Desert su “Motion Picture Story” (giugno 1913)

Poco prima di The Vampire of the Desert era uscito in America un altro film, Red and White Roses, che prendeva ispirazione non tanto da Kipling, ma dal testo teatrale e dal romanzo A Fool There Was di Porter Emerson Browne, associando come in quei due antecedenti la Vampira alle rose (ovviamente rosse, mentre quelle bianche sono riservate alle “donne per bene”). La trama era molto simile alle due opere di Browne e se in A Fool There Was il protagonista maschile era impegnato in importanti attività diplomatiche per il governo, qui c’è un politico in carriera, Morgan Andrews (William Humphrey), che si fa sedurre e portare alla distruzione da una donna.

Il personaggio della storia di Browne era felicemente sposato, così come Andrews ha una fidanzata di buona famiglia, Beth (Leah Baird), che lo adora. A sovvertire la situazione interviene l’attrice Lida de Jeanne (Julia Swayne Gordon, già Lady Godiva in un corto del 1911), capace di far perdere la testa a Andrews. In questo caso, però, la Vampira agisce in nome di un vero e proprio complotto politico, manovrata dal fratello che è un avversario di Andrews. La relazione tra Andrews e Lida finisce sui giornali e l’uomo perde le elezioni. Dopo lo scandalo, Andrews teme che la fidanzata lo lasci, rovinando anche la sua vita privata: quando vede Beth priva di sensi, ma in realtà solo addormentata, è sconvolto e il giorno dopo viene trovato morto.

Red and White Roses (1913)

Parodie di Vampire

La Vampira kiplighiana era ormai tanto famosa che poteva diventare oggetto di parodia, come dimostrano tre cortometraggi comici del 1914. A marzo esce A False Beauty, in una bobina, prodotto dalla Keystone di Mack Sennett, il “re della commedia” che era in procinto di lanciare il successo di Charlie Chaplin. Il film, diretto e interpretato da Ford Sterling, mette in ridicolo la donna fatale e sarà riproposto nelle sale nel 1918 con il più esplicito titolo A Faded Vampire. Una copia è conservata alla Library of Congress.

Un uomo (Ford Sterling) spasima per una fanciulla dai molti corteggiatori (Alice Davenport) e la copre di doni. Quando, spiandola dalla finestra, scopre che la ragazza ha una parrucca e i denti finti tenta di riprendersi i gioielli che le ha regalato.

Pubblicità e un fotogramma di A False Beauty / A Faded Vampire (1914)

A giugno 1914 è la volta di Universal Ike Jr. and the Vampire, uno dei corti comici di ambientazione western che avevano come protagonista il personaggio del cowboy Alkali Ike, talmente famoso che si produssero dei pupazzi con la sua immagine. L’attore che lo interpretava, Augustus Carney, era passato dalla casa di produzione Essanay alla Universal e così il personaggio cambiò nome, diventando Universal Ike Jr.

Nel corto Universal Ike Jr. and the Vampire, Ike contende ad altri pretendenti l’amore di una fanciulla, ma la Vampira lo depreda di tutti i suoi beni. Il ruolo della Vampira era affidato a Louise Glaum, presenza ricorrente nei film di Ike come tipica “ragazza del West”. In breve la Glaum si specializzerà in parti di vamp, tanto che quando nel 1916 interpreta una donna fatale in The Wolf Woman, è proclamata “the greatest vampire woman of all time.”

Louise Glaum, “the greatest vampire woman of all time” (da “Photoplay”, dicembre 1914)

Nel settembre 1914 esce poi un altro cortometraggio comico dal titolo A Fool There Was, scritto, diretto e interpretato da Frank C. Griffin. Era una presa in giro dei film sulla Vampira rovinauomini, qui interpretata da Mabel Paige, un’attrice che diventerà molto attiva nel cinema muto e continuerà la carriera fino alla tarda età con varie apparizioni televisive. In una parte minore recitava anche Oliver Hardy. Dopo l’uscita del film omonimo con Theda Bara si dovette cambiare il titolo, trasformandolo in She Wanted a Car.

George (Jerold T. Hevener) si innamora di una ragazza, Bess (Mabel Paige), che vuole a tutti i costi un’automobile. Per non perderla, l’uomo impegna tutti i suoi beni e acquista un’auto, ma investe un poliziotto (Oliver Hardy) e finisce in prigione. Assume poi un autista (Frank C. Griffin), sempre per accontentare la sua bella, e quello fa la corte a Bess fino a soppiantare George e a sposarla.

Apparentemente, la Vampira cinematografica partorita dalla poesia di Kipling stava arrivando alla sua fase finale, ormai stereotipo oggetto di parodie. Invece il 1915, a quasi vent’anni dalla poesia The Vampire, porterà una sorpresa sconvolgente, grazie al film con Theda Bara A Fool There Was che aprirà una lunga fase caratterizzata dalla immortale figura della vamp. Ne parleremo in un prossimo articolo.

Pubblicità per A Fool There Was (1915)

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 6

Il Vampiro psichico di George Sylvester Viereck

Abbiamo visto negli articoli precedenti che il 1909, a dodici anni di distanza dalla poesia The Vampire di Rudyard Kipling, ha ospitato un’ondata senza precedenza di vampiri, soprattutto a teatro. Quell’anno si era aperto con uno spettacolo teatrale, The Vampire, tratto non da Kipling, ma dal romanzo breve The House of the Vampire di un autore interessante e controverso: George Sylvester Viereck, nato in Germania nel 1884. Il padre, che si diceva fosse figlio illegittimo del Kaiser Guglielmo I, era un attivista marxista che emigrò negli Stati Uniti nel 1896. Qui George Sylvester fin da giovanissimo si dedica alla poesia. A 17 anni aveva stretto amicizia con Lord Alfred Douglas, il poeta che era stato compagno di Oscar Wilde, e nel suo Youthful Diary 1899-1903 affermava: “Amo tutto ciò che è malvagio! Amo lo splendore della decadenza, la ripugnante bellezza della corruzione. Ciò che odio sono gli inquisitori, freddi, gelidi raggi del sole. Il giorno è nausea, il giorno è noia, il giorno è prosa. La notte bellezza, amore, splendore, poesia, vino, aggressione, violazione, vizio e torpore. Io amo la notte”.

Nel 1905, Viereck fece girare la notizia, da lui inventata, che Wilde non era morto, ma si era nascosto in attesa di un ritorno spettacolare quando le leggi britanniche sulla sodomia fossero cambiate. Dopo aver pubblicato apprezzate poesie, Viereck a ventidue anni scrive The House of the Vampire (Moffat, Yard, New York 1907), dove il Vampiro non sottrae sangue alle sue vittime, ma idee.

Il Vampiro del titolo è un divo del mondo letterario, Reginald Clarke, ispirato chiaramente a Oscar Wilde. Noto a New York per l’oratoria affascinante, Clarke attrae nella sua casa giovani intellettuali che sono sedotti dalla sua forte personalità. La lussuosa “casa del vampiro” si trova a Riverside Drive, elegante strada alberata sul fiume Hudson. È una sorta di tipica casa del decadentismo, nello stile (in Italia) delle abitazioni di Gabriele D’Annunzio o di Mario Praz. Tra pesanti drappeggi che mantengono nelle stanze una parziale oscurità, sul camino c’è un satiro con Santa Cecilia, poi ci sono fauni, sfingi, busti di Shakespeare e Balzac ai quali Clarke si paragona, ritratti di Napoleone e damine rococo.

Il giovane poeta Ernest Fielding va a vivere nella casa di Clarke, ma presto si rende conto che alcuni personaggi e situazioni da lui creati compaiono nelle opere del suo ospite. Clarke gli spiega che il genio è caratterizzato dalla capacità di “assorbire” dalla vita: “ri-creare”, dice, è la prerogativa del poeta. Un amico scultore confida a Ernest di aver perso improvvisamente l’idea di una statua che voleva scolpire, “come se un soffio di vento l’avesse portata via”. E anche la bella artista Ethel Brandenbourg ha la sensazione di essere derubata della sua creatività e mette in guardia Ernest, innamorato di lei: “Di certo sai che nelle leggende di ogni nazione si legge di uomini e donne chiamati vampiri. Sono esseri, non sempre del tutto malvagi, che ogni notte un impulso misterioso spinge a introdursi nelle camere da letto incustodite per succhiare il sangue di chi dorme e poi, rinvigoriti dalla vita delle loro vittime, si ritirano con cautela. Per questo motivo hanno le labbra molto rosse. Si è detto anche che non possano trovare riposo nella tomba, ma tornino nei loro luoghi precedenti dopo che sono stati ritenuti morti. Coloro ai quali fanno visita, comunque, languiscono senza una ragione apparente. I medici scuotono le teste sapienti e parlano di consunzione. Ma a volte, ci garantiscono antiche cronache, nella gente sorgevano dei dubbi e sotto la guida di un buon prete andavano in solenne processione alle tombe delle persone sospettate. E aprendo le tombe si scopriva che le bare erano marcite e i fiori nei capelli erano neri. Ma i loro corpi erano intatti, non c’erano orbite vuote dove strisciassero vermi e le labbra con cui succhiavano erano ancora inumidite da un po’ di sangue”.

Il nesso con il vampiro soprannaturale è quindi dichiarato. Del resto, come il vampiro leggendario Clarke si introduce nascostamente nelle camere da letto delle proprie vittime, per sottrarre le idee durante il sonno. Invece del morso, usa le mani per trasmettere a sé stesso le idee degli altri o, di giorno, fissa intensamente negli occhi le sue prede. Espropriate delle loro idee, le vittime del Vampiro sentono estinguersi la fiamma artistica. A loro è sottratto lo spirito e sono assorbite non solo le idee, ma tutte le energie mentali delle prede, svuotate dei migliori pensieri, della forza vitale, fino a precipitare in una catastrofe fisica e psichica.

Come la Vampira di A Fool There Was, anche Clarke trionfa alla conclusione del romanzo, senza lieto fine. Nelle ultime righe Ernest è ridotto a una larva, gli occhi ormai privi di qualsiasi scintilla, “senza presente e senza passato”, un idiota che farfuglia e inciampa scendendo una scala. Si noti che una scala era anche lo sfondo scenografico dei vari balletti ispirati alla poesia di Kipling The Vampire, che abbiamo descritto in articoli precedenti.


La copertina originale del romanzo e, accanto, un’edizione francese del 2003, tradotta e introdotta da Jean Marigny, esperto di vampiri letterari

Al contrario di altri scrittori vittoriani e degli inizi del secolo, Viereck non ritrae negativamente il Vampiro, ma implicitamente lo assolve e anzi parteggia per lui, spiegando così la sua interpretazione del vampirismo: “Nel trattare questo argomento ho fatto ciò che altri scrittori non hanno fatto: cioè, l’ho reso psichico. Il mio Vampiro è il Superuomo di Nietzsche. È giustificato nel rubare dalle menti degli altri. È una figura peculiare della letteratura e del teatro nel mondo” (“New York Times”, 30 gennaio 1909).

Il vampirismo spirituale proposto da Viereck è attuato da geni con la statura di giganti che fanno avanzare la cultura e la società, depredando gli inferiori. Nina Auerbach sostiene che in Viereck “il potere del vampiro non è solo perverso, ma progressista: i vampiri di Stoker sono atavici nemici del progresso, i vampiri psichici di Viereck sono motori dell’avanzamento umano” (Our Vampires, Ourselves, The University Press of Chicago, Chicago 1995).

Oltre a essere una lode del Superuomo,The House of the Vampire è una sorta di celebrazione del plagio (su questo aspetto è imprescindibile Paul K. Saint-Amour, The Copywrights: Intellectual Property and the Literary Imagination, Cornell University Press, Ithaca 2011). Da poco le legislazioni europee avevano esteso il copyright anche dopo la morte degli autori e Viereck di fatto si oppone al concetto stesso di “diritto d’autore”, soprattutto nei confronti di opere non pubblicate: i “geni” sono autorizzati ad appropriarsi delle idee da creatori incapaci o senza doti straordinarie e per un “Superuomo” è lecito impadronirsi delle creazioni di autori “inferiori”.

Tra Clarke, uomo maturo, e la giovane vittima Ernest c’è un’attrazione omosessuale, tanto che il romanzo è convenzionalmente definito “gay vampire novel” e indicato come una delle prime rielaborazioni omoerotiche del vampirismo. Viereck, del resto, nelle sue prime poesie trattava spesso di amori tra uomini, ma in realtà i due protagonisti principali del romanzo sono bisessuali, perché entrambi amano o hanno amato delle donne.

George Sylvester Viereck

Dal romanzo al teatro

A due anni dall’uscita di The House of the Vampire, la permanente popolarità del vampiro in versione kiplinghiana induce Viereck a trasporre il romanzo in un testo teatrale in tre atti, scritto con il suo compagno di studi Edgar Allen Woolf che molti anni dopo sarà tra gli sceneggiatori del film The Wizard of Oz (Il mago di Oz, 1939). Per il teatro si sceglie di intitolare l’opera soltanto The Vampire, proprio come la poesia di Kipling e il quadro di Burne-Jones.

Prodotto dai celebri manager teatrali Jacob J. Shubert e Lee Shubert, The Vampire dopo un’anteprima a Albany fa il suo esordio all’Hackett Theatre di Broadway il 18 gennaio 1909 e chiude dopo 24 repliche, per spostarsi poi alla Grand Opera House di Chicago. Il ruolo del Vampiro era interpretato da John E. Kellerd, la vittima da John Westley e nello spettacolo recitava nella parte di un’altra delle vittime anche Warner Oland, futuro Fu Manchu e Charlie Chan sugli schermi. In occasione delle rappresentazioni si stampò un volantino con la domanda: “Credete nei Vampiri?”. Distribuito in un centinaio di copie, ottenne il 97 % di risposte “Sì”.

Il testo teatrale non è stato pubblicato e si possono desumerne i contenuti solo dalle recensioni di allora. La revisione del romanzo firmata da Viereck e Woolf cambia il finale, con la protagonista femminile che salva il giovane poeta, ma lascia intatte le riflessioni sul “vampirismo letterario”. Cambiano anche i nomi dei personaggi. Reginald Clarke diventa Paul Hartleigh, Ernest diventa Caryl e Ethel Brandenbourg si trasforma in Allene Arden modificandone inoltre la biografia: nel romanzo Ethel era un’ex amante di Clarke, mentre nel testo teatrale Allene è figlia di una passata amante dello scrittore e lo chiama “papà”. Nella conclusione dello spettacolo, Allene resta di notte nella camera da letto di Caryl e sorprende il Vampiro che sta per rubare dalla mente del giovane le idee di un suo romanzo non ancora scritto: gettandosi tra Caryl e il Vampiro, Allene impedisce l’estrema sottrazione di idee e vitalità. L’atto di vampirizzazione era visualizzato mostrando Hartleigh che pone le mani sulle teste delle sue vittime, mentre dormono, per assorbirne i pensieri.

Per quanto alcune critiche lo reputassero debole e “caotico” (“The Billboard”, 13 febbraio 1909), “freddo” e incapace di suscitare simpatia nel pubblico (“The New York Press”, 22 gennaio 1909), The Vampire suscitò più ancora del romanzo grande attenzione (anche per il tema della “proprietà letteraria” rubata), tanto che il fratello di Woolf, lo stimato pittore Samuel Johnson Woolf, scrisse a Mark Twain pregandolo di vedere The Vampire all’Hackett Theatre e mettendogli a disposizione un palco. Lo spettacolo restò in tournée per due anni sotto le cure dei fratelli Shubert e l’attore italiano Amleto Novelli voleva portare The Vampire in Europa, ma il progetto pare non si sia concretizzato.

Paradossalmente Viereck e Woolf, che avevano scritto quel testo fantasticando sul plagio, finirono accusati di plagio. Uno scrittore, Arthur Stringer, sosteneva di aver trovato interi passaggi di un suo romanzo nell’opera teatrale. Il commediografo Maurice Lyons intentò una causa affermando di avere scritto nel 1907 un testo dallo stesso titolo The Vampire. Analogamente Madame Fuji-ko (della quale abbiamo scritto qui) rivendicava il copyright sui titoli The Vampire, The Vampire Cat e The Vampire Cat of Nabeshima, accusando Viereck e Woolf di essersi appropriati indebitamente di quel titolo.

I due protagonisti principali di The Vampire in una vignetta da “The Evening World” (19 gennaio 1909)

Viereck dopo The Vampire

Considerato ormai un giovane prodigio, Viereck proseguì la sua scalata nel mondo giornalistico e letterario. Non nascondeva le sue posizioni reazionarie, opposte a quelle del padre, che lo porteranno a subire il fascino di Hitler e diventare un propagandista del nazismo in terra americana. Godeva tra l’altro dell’amicizia e della protezione di grandi intellettuali non certo di destra come H.G. Wells e George Bernard Shaw (vedi John V. Antinori, Androcles and The Lion Hunter: G.B.S., George Sylvester Viereck, and the Politics of Personality, “Shaw”, vol. 11, 1991). Con Shaw l’amicizia non tramontò mai, anche se tra i due si intromise un episodio che si potrebbe definire di “vampirismo”: Shaw accusò Viereck di avergli attribuito, facendogli un’intervista, considerazioni che erano solo sue. In una lettera del 6 dicembre 1929, Shaw protesta duramente con Viereck per quell’intervista che non conteneva nulla di autentico e lo accusa di “guadagnarsi da vivere” attribuendo a lui le sue opinioni personali, facendogli dire cose che non ha detto. Insomma, Viereck avrebbe approfittato dell’intervista per vampirizzare Shaw e veicolare le proprie opinioni (“ti limiti a riportare tue nozioni che sono suggerite dagli argomenti che io menziono”, si legge nella lettera).

Oltre a Wells e Shaw, tra le amicizie di Viereck si annoverava anche Nikola Tesla, mentre con Aleister Crowley collaborò per la rivista “The International”. Alla ricerca di “geni” che avvalorassero le sue teorie superomistiche, Viereck intervistò Sigmund Freud e Albert Einstein, incontrò Benito Mussolini, ma rimane negli annali soprattutto la sua intervista a Adolf Hitler dell’ottobre 1923 pubblicata su The American Monthly”, periodico diretto dallo stesso Viereck (significativo, per i tempi odierni, lo slogan “America First” che campeggiava accanto alla testata). Hitler, non ancora Führer, delineava il suo progetto politico e proclamava soprattutto il suo odio per i comunisti e il marxismo. Quando anni dopo è ristampata in forma modificata daLiberty” (9 luglio 1932), l’intervista si apre con una frase dalle assonanze vampiresche. Descrivendo il colloquio con il capo dei nazionalsocialisti, avvenuto sorseggiando del tè, Viereck commenta: “Adolf Hitler svuotò la sua tazza come se non contenesse tè, ma il vivo sangue del bolscevismo”.

Fervente anticomunista, Viereck era stato già al centro di polemiche per la sua propaganda filotedesca durante la Grande Guerra, tanto che la sua casa nel 1918 fu protetta dalla polizia per timore di attacchi. Negli anni Trenta è un sostenitore di Hitler e continua a promuovere le politiche naziste anche durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1941 per il suo collaborazionismo subì un processo che fece scalpore e lo portò a trascorrere quasi quattro anni in prigione. Viereck ottenne comunque un trattamento privilegiato, in una cella dotata di libreria e dove aveva potuto portare preziosi oggetti personali. Dopo la scarcerazione pubblica un libro di memorie sulla condizione di vita in prigione e un ultimo romanzo, The Nude in the Mirror  (Woodford Press, New York 1953). Muore nel 1962, a 77 anni.

L’intervista di Viereck a Hitler (da “Liberty”, 9 luglio 1932)

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 5

Vampire che danzano

Il 1909 è stato anno di vampiri sui palcoscenici. Lo spettacolo teatrale A Fool There Was, diventato in seguito romanzo sempre per la penna di Porter Emerson Browne, ispirato alla poesia The Vampire di Rudyard Kipling e al quadro omonimo di Philip Burne-Jones, va in scena a marzo. Contemporaneamente si rappresenta a New York una brevissima commedia musicale, The Vampire, scritta e interpretata da Walter Shannon con diretto riferimento alla poesia omonima. Non aveva nulla a che fare con Kipling, invece, il testo teatrale The Vampire messo in scena all’Hackett Theatre di New York già nel gennaio dello stesso anno e tratto da un romanzo di George Sylvester Viereck (dove il vampiro del titolo è ancora una volta “psichico”, ma in questo caso è un uomo che ruba le idee agli scrittori: ne tratteremo dettagliatamente in un futuro articolo).

Il 1909 è anche, e forse soprattutto, l’anno della vampire dance, da tradurre per la precisione come “danza della vampira” dato che a portare distruzione dopo un ballo seduttivo era sempre una donna. Si tratta di un vero e proprio filone che si prolungherà per oltre un quinquennio. La vampire dance si ispirava dichiaratamente alla poesia di Kipling, al quadro di Burne-Jones e al testo teatrale A Fool There Was, quando la Vampira dice alla sua vittima “Before we part, kiss me, my fool!” e l’uomo cade a terra morto, mentre lei ride lasciando piovere petali di rosa sul cadavere.

La danza contribuisce in modo decisivo al cambiamento semantico del termine “vampiro” nel mondo anglosassone di inizio Novecento: più che creatura soprannaturale di ritorno dalla tomba, una donna fatale che prosciuga i maschi di beni e vita. Nei balletti sui palcoscenici le antiche “danze macabre” (o le danze delle streghe e degli scheletri) si univano così alla figura della femmina seduttiva che agli inizi del nuovo secolo ballava sotto le spoglie di Cleopatra e Salomè o nelle danze tentatrici di Mata Hari.

Non era un fenomeno del tutto nuovo. Come sottolinea Gary D. Rhodes (The First Vampire Films in America, Palgrave Communications, nature.com, 2017), la vampire dance era popolare almeno dal 1890, quando una compagnia americana di “minstrel” (commedie musicali interpretate da bianchi con il volto truccato di nero o da afroamericani) presentava la “Great Vampire Transformation Dance” e nel 1896 un’altra vampire dance si registra nel Massachusetts. Si trattava però di balli ispirati al vampiro soprannaturale e non alle vampiresche donne fatali che si affermano solo nel 1897 con Burne-Jones e Kipling.

Da pipistrello a danzatrice nel cortometraggio Loie Fuller (1905)

Una sorta di “danza della vampira” può rintracciarsi nella Serpentine dance e in altre esibizioni dell’artista americana Loïe Fuller che ebbero grande influenza sui simbolisti e sull’art nouveau. Danzatrice autodidatta, Loïe Fuller dopo aver lavorato nel 1892 alle Folies Bergère diventò manager, autrice teatrale e coreografa, a Parigi, Londra e New York, contribuendo alla nascita della danza moderna. Le sue rappresentazioni erano spesso caratterizzate dalle tuniche che faceva roteare creando effetti straordinari. Un cortometraggio del 1905, intitolato semplicemente Loie Fuller, mostra un pipistrello che si trasforma in donna e avvia una danza, muovendo vorticosamente un abito che simula le ali del chirottero. Si univa così il vampiro soprannaturale, evocato dal pipistrello, alla seduzione della vampira kiplinghiana grazie alla danza affascinante e ipnotica. Va ricordato che Loïe Fuller pagò un prezzo piuttosto alto per le sue rappresentazioni artistiche: il radio che utilizzava per rendere fluorescenti le “ali” dei suoi abiti di scena le provocò un tumore.

Il riferimento della danza di Loïe Fuller al vampirismo era comunque solo allusivo. La prima, esplicita “danza della vampira” va attribuita all’artista Fuji-Ko. Nata a Tokio, ma cresciuta a Londra, si esibiva in America e in Sud Africa con brevi rappresentazioni in cui univa ballo e pantomima (su Fuji-Ko vedi una breve biografia in Dixie Hines, Harry Prescott Hanaford,Who’s who in Music and Drama, Hanaford, New York 1914). Il 19 novembre 1908 presenta al Neues Deutsches Theater di New York lo spettacolo The Vampire Cat of Nabeshima, pantomima con accompagnamento musicale di un’orchestra. Un gatto soprannaturale, tipico delle leggende giapponesi, dissangua Sakura-Ko, la favorita di un principe, e ne assume l’aspetto. Sakura-Ko usa il suo fascino vampiresco per distruggere il principe e lo fa ammalare gravemente. Un giovane samurai affronta la vampira per vendicare il suo signore, ma lei tenta di sedurlo. Il samurai riesce a resistere ai suoi sguardi ammaliatori piantandosi la spada in una gamba e uccide la vampira: al posto di Sakura-Ko c’è il cadavere di un enorme gatto (il testo integrale di The Vampire Cat of Nabeshima è stato pubblicato in “The Smart Set” n. 1, 1910).

Per quanto sovrappeso, Fuji-Ko con i lunghi capelli sciolti riusciva a essere emozionante nelle sue danze da vampira attorno alle due vittime, il principe e il samurai, tra suggestive melodie orientali. Secondo “The Kansas City Star” (22 novembre 1908) “la sua abile seduzione, i suoi trucchi di sensualità provocante e il suo balzo finale sull’uomo prostrato erano una meravigliosa combinazione tra una donna diabolica e il gioco di un gatto con una vittima senza scampo”. L’articolista dichiarava di aver avuto un brivido quando la vampira protendeva le dita ad artiglio, avanzando a piedi nudi verso la sua preda, e cambiava improvvisamente espressione passando “dalle astuzie di una sirena alla ferocia di una bestia”.

Fuji-Ko, autrice e interprete di The Vampire Cat of Nabeshima (1908)

Nasce la Vampire Dance

Fuller e Fuji-ko non prendevano ispirazione dalla vampira predatrice di uomini creata da Kipling e Burne-Jones. Il fenomeno Vampire Dance nasce solo quando si diffondono spettacoli esplicitamente derivati dal quadro e dalla poesia The Vampire. Uno dei grandi artefici della prosecuzione in forma di danza del successo di The Vampire è senz’altro Joseph C. Smith. Dopo aver ballato, tra l’altro, alla Scala di Milano, diventa coreografo a Broadway e dal 1909, in coincidenza con lo spettacolo teatrale A Fool There Was, sceglie di trasformare in balletto la scena finale vista a teatro, inserendo citazioni dalla poesia di Kipling e allusioni al quadro di Burne-Jones.

Cronologicamente, sembra proprio Smith il primo a inventare la vampire dance, che nella sua versione da vaudeville diventa presto nota anche come temptation dance e flirtation dance. Smith ha inizialmente come partner artistica Louise Alexander, che veniva dalle Ziegfeld Follies. Con lei nel dicembre 1908 aveva già eseguito la Apache dance nel musical The Queen of the Moulin Rouge, a New York. La Apache dance era nata a Parigi nel 1908, al Moulin Rouge, ed era caratterizzata dai modi brutali del ballerino verso la sua partner femminile, una sorta di lite violenta tra amanti che si concludeva con una riconciliazione e la resa della donna. La lotta tra una donna e un uomo trasformata in balletto è analoga nella Vampire Dance, però a ruoli ribaltati e con un finale tragico che vede la supremazia della donna. La vampira non usa la violenza per ottenere quello che vuole dall’uomo, ma la seduzione ipnotica.

Smith e Alexander portano la danza vampiresca a Baltimora nel giugno 1909, ma dopo la prima rappresentazione devono cancellarla dal repertorio per volontà del direttore del teatro di vaudeville dove andava in scena lo spettacolo, a causa della “volgarità” del tema. Il duo Smith-Alexander si separa ed entrambi continuano a interpretare la vampire dance con altri partner. Smith sceglie Ethel Donaldson per presentare, nel settembre 1909, una “original conception” della danza vampiresca al teatro American di New York. In questo caso l’azione si svolge in un salottino: lui è in abito da sera (il caratteristico abbigliamento di Smith come ballerino), lei in succinto vestito nero con le spalle nude. Nel frattempo, come vedremo tra poco, nel corso dell’estate 1909 si era affermata nei teatri un’altra vampire dance, molto simile, eseguita dal duo Bert French-Alice Eis. Inevitabilmente i giornali fecero dei paragoni tra le due versioni, ritenendo quella di Smith-Donaldson inferiore a quella di French-Eis, soprattutto per il minor temperamento e abilità della ballerina. Anche queste rappresentazioni sollevarono l’indignazione dei commentatori “benpensanti” che ne stigmatizzavano il “cattivo gusto”.

Joseph C. Smith e Violet Dale nella Vampire Dance (1909)

Indifferente alle critiche, Smith continuò a promuovere la sua danza vampiresca. In particolare, cura il segmento The Vampire Dance alla chiusura del primo atto di una commedia musicale che ospitava al suo interno dei numeri di danza, The Flirting Princess, imperniata su una bella egiziana che scappa in America per evitare un matrimonio combinato. Nell’ottobre e novembre 1909 Smith esegue la Vampire Dance in un tour americano della commedia, con Violet Dale (che dopo la recita faceva sensazione baciando tutta la troupe) e il danzatore/attore Harry Pilcer. In occasione dello spettacolo al La Salle Theater di Chicago, “The Show World” (6 novembre 1909) dava una breve descrizione del ballo: “Harry Pilcer appoggia il viso alla spalla di Violet Dale e sussurra un paio di strofe della poesia di Kipling, poi entra Mr. Smith in abito da sera per finire vampirizzato. Miss Dale ha un vestito verde brillante, con in rilievo sul seno la testa di un grande serpente che le si avvolge luccicante lungo il corpo. Ondeggia intorno all’uomo, lo afferra ansimante e lo bacia, fino a che lui crolla irrigidito. Allora, con un sorriso malvagio, lei lascia cadere petali di rosa rossa sul corpo esanime e cala il sipario”.

Nella primavera del 1910, sempre a Chicago, la partner di Smith nella danza della vampira è Vera Michelena, attrice e cantante oltre che ballerina. Un ulteriore allestimento di The Flirting Princess si ha nel marzo 1911, dove però la Vampire Dance sarà eseguita da Maude Emery e Charles Morgan.

Alice Eis e Bert French nella Vampire Dance (da “The Sketch”, 15 dicembre 1909)

La “danza della vampira” conquista New York e Londra

Quello che mancava alla vampire dance di Smith e delle sue partner era l’audacia, il coraggio di portare all’estremo possibile in quei tempi il contenuto erotico della “danza della vampira”. Quel coraggio lo dimostrarono viceversa nell’estate del 1909 Alice Eis e Bert French, lei diciannovenne, lui poco più che ventenne, con il loro spettacolo The Vampire Dance. Da tre anni French e Eis si esibivano come mimi e Bert si era preso cura di insegnare la danza ad Alice. Lavorando insieme diventano noti come il primo duo a eseguire la Apache dance sui palcoscenici americani.

Dopo il successo a New York della loro Apache dance, French cercava un nuovo tema per un balletto ed ebbe l’illuminazione quando un amico gli inviò una cartolina che riproduceva il quadro di Burne-Jones. Nacque così The Vampire Dance, uno spettacolo della durata di 17 minuti che fa il suo esordio al teatro Fifth Avenue nel luglio 1909.

La rappresentazione si apriva con una Apache dance, in ambientazione vagamente parigina, dove French abbordava una donna per strada e la maltrattava senza pietà. Poi si passava alla danza vampiresca. Dalle recensioni di allora si possono immaginare i tratti essenziali dello spettacolo.

Alice Eis e Bert French nella “danza della vampira” (1909)

La scenografia è dominata da una scala, tra pesanti drappeggi, in quella che sembra una caverna su una spiaggia. Sul palcoscenico, tra suggestivi effetti di luce, c’è un giovane in abiti semplici. Si china per prendere una rosa rossa e se la porta alle labbra. In quel momento il sole svanisce e dalle tenebre emerge una luce rossa che illumina la scena, rivelando a poco a poco la presenza di una donna addormentata, al centro del palco, avvolta in un velo rosso. Una dolce musica sfuma mentre la donna si risveglia e, accucciata, resta intenta a osservare il giovane. Rimosso il velo, mostra un lungo abito d’oro e argento di foggia orientale, attillato, che le lascia scoperte le spalle e le braccia. Si avvicina al giovane. Scivola sinuosa intorno alla sua preda. L’uomo si ritrae, con un atteggiamento “femminile” che qualche giornale accostò alla ritrosia delle eroine perseguitate nei melodrammi, poi cede alla seduzione e la abbraccia. Mentre la bacia sulla bocca, la vampira tenta di morderlo al collo. Inorridito, il giovane la allontana da sé e lei cade a terra apparentemente esanime. Ma improvvisamente comincia a strisciare come un serpente verso l’uomo che tenta di fuggire. Inizia la lotta contro la seduttrice che cerca di raggiungergli la gola. Lui la respinge con brutalità e, come nella Apache dance, la getta più volte a terra, ma lei si rialza e continua a muoversi intorno a lui e a tentare di abbracciarlo. Alla fine lo avvolge nelle sue spire, di nuovo lui la bacia, ma cade di schiena e la vampira lo morde alla gola. Resta morente a terra, mentre lei lo osserva trionfante. In un ultimo tentativo di resistenza rotola via dalla vampira, ma è ancora morso al collo e muore. Quando il giovane giace immobile è inscenata una sorta di replica del quadro di Burne-Jones, con la donna che si erge sulla vittima.

La pubblicità metteva in diretta relazione lo spettacolo e il testo di Kipling (“La sensazionale poesia di Rudyard Kipling The Vampire illustrata in forma di danza da Bert French & Alice Eis”), sostenendo che “ogni frase della poesia può esser compresa dal pubblico con la stessa chiarezza che se la si leggesse”. Ad avvalorare lo stretto legame anche con il quadro di Burne-Jones contribuiva una foto promozionale di Alice Eis in sottoveste bianca e lunghi capelli scuri che evocava chiaramente la vampira del dipinto.

Alice Eis

La reazione al fenomeno della vampire dance, avviato da Smith e quasi contemporaneamente consacrato da French-Eis, fu di definirla “rivoltante” e “decadente”. Esemplari le parole di “Variety” (31 luglio 1909): “Quando ci hanno rappresentato la Apache Dance credevamo che New York avesse assistito al culmine estremo della danza sensazionalistica. La Vampire Dance va ben oltre (o sotto, se vogliamo) quella esibizione scellerata”. Il periodico continuava definendo lo spettacolo “un numero sgradevole con un grado di vividi dettagli quasi da visita medica”. Per “Variety” la Eis poteva fare la contorsionista e sapeva cadere bene a terra, ma non era certo una ballerina. La sentenza finale era senza appello: si trattava di una “esibizione assolutamente indecente”, messa in scena solo per fare cassa. Non meno severo il “New York Dramatic Mirror” (7 agosto 1909) che considerava la Vampire Dance “volgare”, uno spettacolo che “getta vergogna e discredito sui gestori del teatro” (il proprietario del Fifth Avenue, Benjamin Franklin Keith, era un’autorità nel mondo del varietà e del vaudeville) e “chiamarla danza è una diffamazione per la parola arte”. Il giornale aggiunge un “povero Kipling!” e si augura che lo spettacolo non vada oltre la prima settimana di rappresentazioni. Invece The Vampire Dance ebbe un successo clamoroso, nonostante la stagione estiva, con applausi a scena aperta e teatri pieni. Dopo due mesi a New York lo spettacolo va in tour ed è rappresentato tra l’altro al Grand di Syracuse e all’Orpheum di Atlanta. In provincia l’accoglienza della stampa è meno ostile e “The Constitution” (3 ottobre 1909) arriva a definire lo spettacolo “una vetta artistica” e “una perfezione di grazia”. Il successo fu tale che Alice Eis divenne tanto famosa da dover uscire con la testa coperta da un velo per non farsi riconoscere dalle innumerevoli persone pronte a seguirla ovunque.

Nell’ottobre 1909 Eis e French eseguono la Vampire Dance all’Hammerstein’s di New York, durante uno spettacolo che vede anche un numero di Buster Keaton, poi il loro balletto varca l’oceano. Lunedì pomeriggio 29 novembre 1909 Alice Eis e Bert French presentano The Vampire Dance all’Hippodrome di Londra e la stessa sera un’analoga “danza della vampira” è eseguita da Mildred Deverez e Tom Terriss al Tivoli. Questi ultimi, per quanto chiaramente imitatori, affermavano che la loro versione era la migliore.

A sinistra la Vampire Dance di Bert French e Alice Eis, a destra quella di Tom Terriss e Mildred Deverez (da “The Constitution”, 3 ottobre 1909; “The London Magazine”, marzo 1910)

Il duo danzante French-Eis fa di nuovo scandalo. “The London Magazine” (marzo 1910) liquida sia lo spettacolo di Terris-Deverez che quello di French-Eis come “realismo ripugnante”, dove l’arte del ballo sarebbe tramutata in mera “diavoleria”: “La Vampire Dance è chiamata danza per cortesia. In realtà non è una danza, ma una sorta di dramma in movimento, nel quale l’azione consiste in una serie di corse selvagge e demoniache su e giù per il palcoscenico, intervallate da brutali abbracci, avvinghiarsi da serpente e seduzioni da sirena”.

Fuori dal coro era invece il periodico populista inglese “John Bull”: “Per la grazia delle pose, per le forme sinuose, per la bellezza del corpo e l’avvenenza del viso, non ho mai visto niente di più incantevole di Alice Eis che, con i suoi poteri affascinanti e i movimenti da pantera, può portare alla dannazione qualsiasi essere umano” (18 dicembre 1909).

Il clamore londinese dello spettacolo fa cambiare orientamento anche alla stampa americana: “Da molti anni non si assiste a qualcosa di così nuovo e sensazionale, per quanto terribile”, scrive il “New York Herald” (26 dicembre 1909).

Il successo di pubblico della Vampire Dance a Londra è comunque strepitoso, French riceveva continue telefonate di ammiratori che volevano incontrare il duo e lettere che lodavano la “lezione morale” contenuta nel balletto. La vampire dance, infatti, prolungava in forma di balletto il contenuto “ideologico” della poesia di Kipling: la donna come pericolo, una minaccia per lo status quo a guida maschile, insidiato dalla richiesta di suffragio universale e dal femminismo. La “lezione morale”, semplificando, era di mettere in guardia l’uomo, indicando che cedere alle lusinghe di donne lascive e prive di sentimenti porta distruzione e morte.

Da “Show World”, 18 dicembre 1909

La Vampire Dance arriva al cinema

Dopo Londra, Eis e French portano il loro spettacolo a Vienna, nel luglio 1910, poi in Francia nel 1911, dove è definito “mimodrame sensuel”. Quando si esibiscono nella Vampire Dance all’Olympia, “Le Figaro” (18 aprile 1911) parla di un “trionfale successo”. Ancora a dicembre di quell’anno la Vampire Dance di Eis e French girava nelle sale francesi della provincia.

Nonostante i risultati trionfali in Europa, al ritorno in patria il duo dovette fronteggiare i rigori della censura. Per il loro spettacolo Le Rouge et Noir, nel febbraio 1913, Eis e French finirono in carcere a New York insieme al direttore del teatro. La Eis interpretava la Fortuna, una figura resa simile alla Vampira che qui illudeva un giocatore e poi gli consegnava il coltello con cui uccidersi. A far scattare le manette erano i costumi della danzatrice e alcune posture nel ballo.

Eis e French sono presto liberati, le scene incriminate sono sostituite e il duo può continuare le sue danze, riproponendo ancora la Vampire Dance a New York nel corso del 1913. Il loro successo doveva moltiplicarsi proprio in quell’anno con l’arrivo della Vampire Dance sugli schermi cinematografici. Nell’ottobre 1913, infatti, esce nelle sale un film di 38 minuti prodotto dalla Kalem, The Vampire, dove il duo si esibisce nella famosa danza vampiresca (ottennero un notevole compenso per la partecipazione al film: 2000 dollari). La regia era di Robert G. Vignola (nato in Basilicata, ma vissuto fin da bambino in America), su sceneggiatura di T. Hayes Hunter “da Rudyard Kipling”. Il direttore della fotografia era George K. Hollister, marito dell’attrice protagonista principale del film e operatore anni dopo per The Thing from Another World (La cosa da un altro mondo, 1951).

Il duo Eis-French nel film The Vampire (1913)

The Vampire raccontava la storia del giovane Harold Brentwell (Harry Millarde) che cade vittima di Sybil (Alice Hollister), una “vampira”, avventuriera spregiudicata e peccaminosa. Nelle spire della Vampira, Harold perde il lavoro e la fidanzata. Quando Harold non ha più soldi, Sybil lo abbandona e il giovane diventa alcolizzato. In un teatro assiste a una “Vampire Dance”, interpretata proprio da Alice Eis e Bert French, restandone talmente turbato che comprende i suoi errori e torna dalla fidanzata.

La visione della “danza della vampira”, dunque, porta alla redenzione. Anche se nel film Harold assiste alla Vampire Dance in uno spettacolo teatrale, le scene con Eis e French furono girate in esterni, nei boschi del New Jersey, perché le produzioni Kalem preferivano la luce naturale per le riprese. “The New York Dramatic Mirror” (1 ottobre 1913) scriveva che, dopo una proiezione privata in anteprima, gli spettatori che avevano visto in precedenza la danza di Eis e French sui palcoscenici espressero “l’opinione unanime che la Vampire Dance nella versione per lo schermo primeggiava su qualsiasi sua rappresentazione a teatro”.

Il segmento della danza è forse la prima visualizzazione in assoluto, al cinema, del morso di un vampiro. Come si nota nelle fotografie superstiti, infatti, la gola della vittima è imbrattata di sangue dopo l’attacco della vampira: la donna fatale, ma realistica, di Kipling si unisce finalmente ed esplicitamente alla creatura leggendaria bevitrice di sangue.

The Vampire creò anche problemi di ordine pubblico. Ad Atlanta la scena della danza era stata censurata, ma ne arrivò una copia integrale in un “negro theater” (una delle sale riservate agli afroamericani). Si accalcò una grande folla, composta anche da numerosi bianchi, tanto che intervenne la polizia (lo riporta “The Constitution”, 22ottobre 1913).

Il film The Vampire era considerato perduto, ma una copia è custodita all’Eastman Museum di Rochester e periodicamente viene proiettato, anche se non è disponibile su nessun supporto per l’home video (la prossima proiezione è prevista il 4 marzo 2024 al Sie Film Center di Denver).

Nel 1917 Alice Eis e Bert French si sono sposati.

La danza della vampira in The Vampire (1913)

Ascesa e declino della danza vampiresca

La moda della vampire dance si estingue a poco a poco con il diffondersi al cinema della vampirica donna fatale, grazie a una serie di pellicole che culmineranno nel successo di Theda Bara e nella proliferazione della “vamp” . Ma tra il 1909 e il 1915 la vampire dance è il fenomeno principale che cattura l’attenzione sui vampiri, nell’immaginario dell’epoca. Era tanto popolare che poteva diventare oggetto di parodie, come nella rivista Hello… London, all’Empire di Londra dal febbraio 1910, che vedeva un numero dedicato alla “danza della vampira”, di nome Julia, in questo caso impegnata a sedurre un anziano e un giovane musicista.

I perbenisti ancora nel 1912 temevano le nefaste influenze di quel ballo: “The Catholic Telegraph” di Cincinnati (16 maggio 1912) invocava in prima pagina la censura per “temi orribili e malsani come ‘La danza dei vampiri'”.

La vampira Julia in Hello… London (da “The Sketch”, 2 marzo 1910)

Ma in quegli anni non è solo l’America (o l’Inghilterra) a scandalizzarsi per la “danza della vampira” e contemporaneamente a riempire le sale per uno spettacolo che faceva il tutto esaurito ogni sera. A Parigi il 23 novembre 1909 la Vampire Dance è presentata all’Olympia con l’interpretazione di Théodora Girard (alias Teddie Gerard), appena arrivata da New York, e Harry Watt. Secondo “Variety” (4 dicembre 1909) lo spettacolo era in costumi dell’antica Grecia ed era stato subito dopo riproposto con Harry Agoust nel ruolo maschile.

L’anno successivo, sempre a Parigi, va in scena alle Folies Bergère La Vampire, pantomima ispirata alla poesia di Kipling con la danzatrice Natacha Trouhanowa, famosa per le sue interpretazioni di Salomè, e con Robert Quinault, in futuro celeberrimo ballerino. Lo spettacolo si protrae dal 15 febbraio al 30 aprile 1910, di fronte a un folto pubblico che chiedeva spesso il bis. La Vampire sarà riallestito dal primo al 27 ottobre 1913 con Miss Monor nel ruolo femminile.

Nella primavera del 1910 si rappresenta in Germania Der Vampir-Tanz, spettacolo che dichiara di ispirarsi alla poesia The Vampire e al quadro di Burne-Jones. Si tratta chiaramente della stessa pantomima di French e Eis, qui proposta con la ballerina Violet Hope nel ruolo della vampira e Fred Lesly in quello della vittima. Così la pubblicità descriveva la rappresentazione: “Una vampira vive in una grotta vicino a una palude. Tentato da un fuoco fatuo e incantato dal profumo di una rosa avvelenata, un giovane artista si avvicina alla grotta, ma fugge spaventato alla vista della vampira. Lei esce dalla grotta ed esegue una danza che eccita i sensi, finché l’artista non trova il coraggio per avvicinarsi di nuovo. La figura demoniaca lo ammalia e alla fine gli si avventa addosso e lo soffoca. Lui si libera e la allontana, ma lei alla fine riesce ad attirarlo nella grotta usando il suo velo magico. La scena, che per un momento diventa buia, mostra poi un’immagine emozionante. Immersa nella luce della luna, la vampira si china sull’artista immobile, gli succhia la vita con un bacio appassionato e poi lo getta negli abissi” (“Leipziger Tageblatt”,  16 aprile 1910).

La danza della vampira in Germania: poster per lo spettacolo del 1910

La vampire dance arriva anche in Australia, dove i giornali avevano dato ampio risalto alle prime rappresentazioni americane e londinesi, descrivendo lo spettacolo con indignazione per la decadenza, la nudità e l’assenza di vergogna. Secondo l’“Express and Telegraph” di Adelaide (8 gennaio 1910), il momento della seduzione nel corso del balletto “ha tanto a che vedere con la danza, quanto il Vesuvio con il Polo Nord”. “The Bulletin” (27 gennaio 1910) dava anche una colorita descrizione della danza: “È l’ultima importazione dagli Stati Uniti e la sua caratteristica principale è una donna che volteggia in costume succinto e trasparente, scarlatto e nero. Ruota con sinuosi e vibranti volteggi da serpente attorno a un personaggio maschile che è troppo affascinato per andarsene o resistere. Può solo fissare quella forma vorticosa che sembra un’alta fiamma dissipata e piegata dal vento. Il turbine si fa sempre più veloce, fino a che la vampira si avvicina abbastanza da avviluppare la vittima. Lei lo morde con il suo morso fatale e lui crolla lasciando le sue spoglie mortali”.

Agli spettatori australiani, la “danza della vampira” non doveva dispiacere, se qualche mese dopo, nell’aprile 1910, la Edison Records incise un disco di due minuti con un brano intitolato Dance of the Vampires, eseguito dallaNational Military Band. Nel 1911 la Clarke and Meynell’s Dramatic Company portò in tour per l’Australia A Fool There Was di Porter Emerson Browne e alla fine anche la vampire dance approdò nel Nuovissimo Continente. Nina Speight, nata in Australia, diventa nota in patria come modella e intorno al 1915 ha un grande successo con la sua The Vampire Dance nei teatri di vaudeville, identica alla versione di Eis e French. Secondo il giornale australiano “The Lone Hand” (1 ottobre 1917) la “danza della vampira” minò l’equilibrio psicofisico della Speight: “La tensione che provava per la sua potente interpretazione si dimostrò troppo grande per la sua salute”, tanto che per quel motivo nel 1916 abbandonò le scene e si trasferì in America per cercare fortuna nel cinema (ha recitato in vari film di Harold Lloyd).

La vampira di Nina Speight (da “The Lone Hand”, 1 maggio 1916)

La Vampire Dance, dunque, aveva varcato i continenti, ma a poco a poco perdeva le sue attrattive, abdicando in favore delle vamp cinematografiche. Ciò non toglie che anche in America il fenomeno proseguisse con vari interpreti. Si ha notizia, ad esempio, di una Vampire Dance con Mae Murray, in procinto di diventare una star del cinema muto, sotto la guida di Julian Mitchell, nome di punta delle Ziegfeld’s Follies e già vittima della vampira Louise Alexander nelle rappresentazioni del 1910. Nel 1919 Vera Michelena, che nove anni prima era stata partner di Joseph C. Smith nello stesso ballo, si esibisce in una Vampire Dance con Fred Hillebrand nel musical Take It From Me. Lei interpreta una regina del cinema che seduce un giovanotto, come le “vampire” del grande schermo. Sono gli ultimi fuochi della “danza della vampira”, soppiantata dal cinema e dalle sue vamp dopo il successo di Theda Bara. Qualche spettacolo di varietà continuò a presentare la Vampire Dance, fino all’ultima propaggine negli anni Cinquanta come intrattenimento nei locali, spesso ridotta alla sola protagonista femminile in abiti succinti.

Vera Michelena “vampira” in Take It From Me (1919)

Due “vere” vampire

Due interpreti della vampire dance nei teatri di inizio Novecento si sono rivelate molto simili, per certi aspetti, al personaggio della Vampira che interpretavano nei balletti. Sono Louise Alexander e Teddie Gerard, entrambe note come “vampire” delle danze da vaudeville.

Esattamente un anno dopo la sua vampire dance con Joseph C. Smith, nel giugno 1910 Louise Alexander è in Ziegfeld’s Follies of 1910, dove il balletto ha titolo A Fool There Was, richiamando esplicitamente tanto la poesia di Kipling quanto lo spettacolo teatrale di Browne. Il partner della Alexander è Julian Mitchell che già aveva curato le coreografie per le danze di Louise in Miss Innocence, a Chicago.

La Alexander, vero nome Jeanne L. Spaulding, si era sposata nel 1908 con Lewis Strang, celebre pilota automobilistico, promettendogli di lasciare il palcoscenico. Ovviamente la promessa non fu mantenuta e Louise si dedicò alla vampire dance. Ne seguì la separazione, ma soprattutto un evento giudiziario che nel 1910 occupò varie pagine di cronaca sui giornali. La moglie di Julian Mitchell, anche lei ballerina, aveva chiesto il divorzio e in tribunale fece il nome proprio della Alexander come una delle amanti di suo marito. La stampa non perse la ghiotta occasione di ricordare l’identificazione tra la Alexander e la Vampira.

Pochi mesi dopo, nel 1911, Strang muore in un incidente stradale che il gossip interpretò come suicidio. Insomma, la vampira Louise aveva distrutto il matrimonio del suo partner sulla scena (anche se in seguito Mitchell e la moglie si riappacificarono) e il suo ex marito era andato incontro a una fine tragica.

Louise Alexander (da “Minneapolis Star-Tribune”, 17 luglio 1910)

Ancora più vampiresca la biografia di Teddie Gerard, nata in Argentina nel 1892. Si chiamava in realtà Thérése Théodora Gerard Cabrié e diventò nota sulle scene anche come Teddy Gerard, Terrie Gerrard, Theodora Gerard o Girard. Negli anni della sua popolarità nei teatri era soprannominata “La Belle Théodora” a Parigi e “Teddie the Great” a Londra.

Da giovanissima, come racconta Alva Johnston (The Legendary Mizners, Farrar, Straus and Young, New York 1953), era entrata nelle grazie dei commediografi George Bronson-Howard e Wilson Mizner, oltre che di un innominato scrittore di famosi polizieschi. I tre pigmalioni “istruirono la ragazza, ne corressero la dizione, ne raffinarono la personalità e la avviarono alla carriera teatrale”. Mizner e Bronson-Howard, con la passione per l’oppio, la incaricavano di preparare la sostanza per poterla fumare. Quando la ragazza lasciò il trio di uomini per calcare le scene, Bronson-Howard non prese bene l’abbandono. Nell’agosto 1909, mentre l’attrice era impegnata a Broadway nella commedia musicale Havana, Bronson-Howard si presentò a casa sua per riprendersi un anello con diamante che le aveva regalato e la minacciò con un coltello. Per tutta risposta, Teddie lo fece arrestare. Quando Bronson-Howard fu perquisito alla stazione di polizia si scoprì che nascondeva un lungo pugnale: lui sostenne che era di Teddie e che lo aveva preso perché l’attrice minacciava di usarlo per uccidersi. Mizner pagò la cauzione e Bronson-Howard tornò libero.

Al processo, Miss Gerard si presentò in tribunale con un vestito da sera nero ornato di piume e una preziosa collana di diamanti con pendant a forma di cuore, senza però riuscire a convincere i giudici. Bronson-Howard fu scagionato per il furto dell’anello, ma le sue disavventure non finirono. Restò sotto accusa per il coltello che portava con sé al momento dell’arresto e nel maggio 1910 fu nuovamente arrestato a Baltimora per decadenza della cauzione. Inoltre per vendicarsi del giudice aveva dato lo stesso nome del magistrato a un personaggio negativo di un suo romanzo, ottenendo così una querela. Caduto in depressione durante la Prima guerra mondiale, Bronson-Howard nel 1922 si uccide con il gas.

Teddie, invece, dopo la vicenda giudiziaria proseguì la sua carriera, interpretando la Vampire Dance a Parigi nel novembre 1909. Proprio nei giorni in cui ballava la danza della vampira, una sera da Maxim’s si sentì disturbata dagli sguardi di un russo e gli spaccò un bicchiere in faccia.

Teddie Gerard in posa da donna fatale e un articolo del “Los Angeles Times” (15 luglio 1912)

Nel 1910. a Londra, Teddie Gerard diventò amante dell’estroso milionario Edward Russell Thomas e quando l’anno dopo tornò in America sostenne nelle interviste di essere stata “la prima a presentare la Vampire Dance che appassionò l’Europa diversi mesi fa” (“The New York Press”, 6 marzo 1911). La attendeva però una vicenda quasi identica a quella che coinvolse Louise Alexander: nel 1912 la moglie di Thomas chiese il divorzio puntando il dito sulla “vampira” che a suo dire aveva distrutto il loro matrimonio. I giornali potevano così replicare, come per la Alexander, gli accostamenti tra il personaggio vampiresco sulla scena e la realtà: Il milionario, la moglie e la ballerina “vampira” titolò ad esempio “The Evening World” (20 marzo 1912).

Negli anni successivi la Gerard fu una star minore di Broadway, molto seguita dalla stampa scandalistica per le innumerevoli avventure amorose con aristocratici russi, ungheresi e britannici. Teddie Gerard recitò anche nel cinema muto ed ebbe l’opportunità di apparire con Boris Karloff in The Cave Girl (1921), nel ruolo del titolo.  Ancora nel 1926 rallegrava i party più chic, tra alcol e battute salaci, come ricorda nei suoi diari il grande fotografo Cecil Beaton (The Wandering Years: 1922-39, Weidenfeld & Nicolson, London 1961).

VAMPIRI A SMOLENSK

Quanti sanno che la serie tv più amata e popolare in Russia negli ultimi anni (tra pandemia e guerra) è una serie sui vampiri? Si intitola Vampiry sredney polosy, traducibile come “Vampiri dei territori centrali”: i “territori centrali” sono quelli di Smolensk e dintorni, dove si ambienta la serie.

Commedia horror unita a dramma, a storie d’amore e a meccanismi del poliziesco, Vampiry sredney polosy si incentra su una “famiglia” di vampiri, guidata da un anziano. Ibrido tra What We Do in the Shadows e La famiglia Addams (con suggestioni anche dalle saghe occidentali sui supereroi: ogni vampiro ha un suo personale superpotere), è stata veicolata dall’azienda russa di streaming Start dal marzo 2021 e poi dalla rete TNT.

Nell’episodio d’apertura della prima stagione, diretta da Anton Maslov, facciamo subito la conoscenza con il giovanissimo Zhenya (Gleb Kalyuzhny), diventato vampiro da poco tempo, che si dedica a dissanguare umani senza arrivare a ucciderli, portando fiale piene di sangue alla sua “famiglia”.

Il protagonista principale è Svyatoslav Vernidubovich (Yuri Stojanov), detto Nonno Slava, vampiro dalla notte dei tempi con un suo precipuo superpotere: può volare, anche se con difficoltà data l’età avanzata, e si trasforma in mostruoso pipistrello. È lui il capofamiglia: nel corso dei secoli ha reso vampiri tre persone che si trovavano in pericolo di morte e poi le ha riunite per creare una “famiglia”. Oltre a Zhenya, vivono con lui Jean (Artem Tkachenko) e Anna (interpretata da Ekaterina Kuznetsova nella prima stagione, Anastasiya Stezhko nella seconda).

Jean è un francese, medico in epoca napoleonica quando venne reso vampiro da Slava. Oggi lavora in un ospedale di Smolensk, sempre pronto a sedurre giovani infermiere. Grazie al suo lavoro fornisce alla “famiglia” sacche di sangue. Come superpotere, assaggiando il sangue può sapere tutto sul donatore.

Anna è stata vampirizzata da Slava nell’immediato dopoguerra, quando era agente della milizia sovietica. Anche ai giorni nostri fa la poliziotta, rivelando un carattere duro e femminista. Proprio a lei è affidata l’indagine che coinvolge i vampiri e quindi i suoi “familiari”. Grazie al suo superpotere può leggere i pensieri di una persona toccandola.

Zhenya gestisce un blog sui vampiri e organizza feste vampiresche. Ignora quale sia il suo superpotere, ma scopre la telecinesi e l’incredibile capacità di rigenerazione del suo corpo (Nonno Slava gli trafigge una mano con un coltello e la ferita si rimargina immediatamente).

I succhiasangue di Vampiry sredney polosy non temono la luce del sole e si riflettono negli specchi. Nonno Slava è l’unico che vuole dormire in una bara, per rispetto di antiche tradizioni. Questa piccola comunità vive come una tranquilla famiglia di provincia, cibandosi di sangue senza uccidere nessuno per seguire le precise regole della comunità vampirica, controllata da severi Guardiani, che vietano di togliere la vita agli umani così da non suscitare ostilità.

La famiglia dei vampiri di Smolensk: dall’alto Jean, Anna e Zhenya

La vita della famiglia di vampiri è turbata quando la polizia trova vari cadaveri senza sangue in un boschetto di betulle vicino a Smolensk. Tutti i vampiri della zona sono in pericolo, perché la loro esistenza può essere rivelata, e la famiglia di Nonno Slava deve allontanare ogni sospetto e scoprire i veri responsabili.

La seconda stagione ripete alcuni cliché della prima, con altri omicidi, un altro capo dei Guardiani e alcune novità: una misteriosa bambina testimone di delitti che viene ospitata dalla famiglia dei vampiri, l’arrivo in città di una violenta banda di vampiri e la prigionia di Olga, catturata dai Guardiani perché aspetta un figlio da un umano.

Vampiry sredney polosy è un prodotto per tanti versi di grande raffinatezza, sia nella cura delle immagini (il cinema e la tv della Russia si avvalgono di ottimi professionisti) che nei sottotesti, come le riflessioni sull’umanità in contrapposizione al vampirismo (“essere umani è difficile” dice Nonno Slava). La serie, tra l’altro, non è indirizzata a un pubblico esclusivamente giovanile, sia perché il protagonista principale è un anziano, sia perché evita di concentrarsi (al contrario delle saghe di Buffy l’Ammazzavampiri o di Twilight) su personaggi teenager, ma privilegia gli adulti se si esclude il blogger Zhenya.

Nonno Slava si trasforma

Gli ingredienti che hanno permesso alla serie di ottenere un vasto successo in Russia sono molteplici. I personaggi femminili sono tutti delineati come donne forti e indipendenti, ogni vampiro della “famiglia” attrae l’attenzione degli spettatori con la propria vita individuale, appassionando il pubblico che si affeziona alle loro vicissitudini, in gran parte sentimentali. La serie ospita una delle più intense storie d’amore tra vampiri, quella tra il francese Jean e la contessa Olga Vorontsova (Olga Medynich). È una storia d’amore tempestosa, tra reciproci tradimenti. Jean sposò Olga e poi la lasciò 80 anni prima. Ancora innamorato, oggi Jean si reca a prendersi cura della tomba di lei al cimitero, anche se sa che Olga non è lì. Olga, attrice di mestiere, come tutti i vampiri della serie ha un superpotere: ipnotizza con lo sguardo fascinoso.

Altra storia d’amore è quella tra Anna e il tenace investigatore moscovita Ivan Zhalinsky (Michail Gavrilov) che deve indagare sulle strane morti di Smolensk. Scapolo e donnaiolo, Ivan si innamora presto della collega e ne scopre il vampirismo durante un rapporto sessuale. Nella seconda stagione viene fatto subito morire, a sorpresa, gettando Anna nella disperazione.

La vampira Olga

Vampiry sredney polosy sfrutta la possibilità, tipica delle serie dei film sui vampiri, di ambientare flashback in epoche storiche lontane. Grazie alla sua lunga esistenza, Nonno Slava ha conosciuto tutta la storia della Russia e commenta sarcasticamente vari personaggi, da Stalin a Yuri Gagarin. Non mancano le critiche satiriche all’amministrazione pubblica russa. Irina Vitalievna (Tatiana Dogileva) è una funzionaria statale, ma è anche alla guida dei temuti Guardiani, e Nonno Slava farà capire che i funzionari di Stato, in Russia, possono fare più paura dei vampiri. Implicitamente la serie ci dice qualcosa sulla Russia di oggi e sulla sua cultura: quelle creature trasgressive per antonomasia che sono i vampiri qui sono integrati nella società. Insomma, nella Russia odierna anche i vampiri collaborano al bene del paese.

Vampiry sredney polosy attualmente consta di due stagioni (la prima del 2021 e la seconda del 2022) con 8 episodi ciascuna, più uno speciale natalizio che vede la famiglia di vampiri prepararsi al nuovo anno, ed è stata annunciata la produzione di una terza stagione. Nel 2018 era stato girato un episodio pilota, con alcuni interpreti e il regista differenti da quelli della serie definitiva.

Fin dall’inizio il ruolo cruciale di Nonno Slava doveva andare all’attore Yuri Stojanov che però rinunciò per altri impegni. La parte passò a Mikhail Yeframov, rimasto poi coinvolto in un processo che in Russia ha fatto scalpore, per un tragico incidente automobilistico: a quel punto il ruolo tornò a Stojanov. Un’altra sostituzione fu necessaria per la seconda stagione, dato che l’interprete della vampira-poliziotta Anna, Ekaterina Kuznetsova, aveva lasciato la Russia per dissensi politici.

La serie Vampiry sredney polosy può essere visionata nei servizi a pagamento start.ru e sovietmoviesonline.com (con sottotitoli in inglese).

A questo link https://www.facebook.com/ivo.scanner/videos/1116506389503010/ l’inizio del primo episodio, sottotitolato in italiano, con interessante colpo di scena finale.

Immagine dai titoli di testa della serie

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 4

Le Vampire di de Vylars e Souvestre

Tra le pagine di uno dei primi testi di moderna vampirologia, The Vampire: His Kith and Kin (K. Paul, Trench and Trubner, London, 1928), il reverendo Montague Summers citava uno spettacolo che pochissimi studiosi dell’argomento hanno preso in considerazione: The Vampire, rappresentato al Paragon Theatre di Londra lunedì 27 settembre 1909.

Summers segnalava che lo spettacolo “era stato accolto molto bene” e riportava il commento di “The Stage” (30 settembre 1909): “È una piccola opera teatrale scritta magistralmente e concepita alla maniera del Grand Guignol”. Il riferimento al Grand Guignol, il teatro parigino specializzato in spettacoli violenti e macabri, non era casuale perché The Vampire era in realtà l’adattamento in inglese di un’opera teatrale andata in scena un anno prima a Parigi: Le Vampire, dramma in due atti di Mme. C. de Vylars e Pierre Souvestre. Dell’autrice de Vylars daremo conto più avanti, mentre Souvestre era uno scrittore destinato a grande popolarità e che presto diventerà celebre per il suo personaggio Fantômas, creato con Marcel Allain.

Il cast di The Vampire (da The Era Almanack and Annual 1910)

Il testo risulta perduto, ma la trama di Le Vampire può essere ricostruita grazie alle recensioni di allora (in particolare una estesa sintesi su “Comoedia”, 5 agosto 1908).

Atto primo. Christian è inconsolabile, perché convinto di aver provocato la morte della sua amante Sonia, abbandonandola: la donna, infatti, si è suicidata. Su indicazione di uno strano medico, Christian chiede allo spiritista indù Suratshin di evocare lo spirito della defunta. Suratshin acconsente, ignorando che si tratti di una suicida, dato che le regole dell’occultismo vietano di evocare chi si è tolto la vita. Una seduta spiritica evoca così lo spettro di Sonia: lo spirito predice a Christian che diventerà pazzo. Christian è ossessionato dalle parole di Sonia, perde vitalità e ragione. Jacques, un avvocato che si sente in parte responsabile per la morte di Sonia, dato che Christian l’aveva lasciata su suo consiglio, vuole salvare l’amico e liberarlo dal terrore che lo attanaglia. Si rivolge quindi a Suratshin per inscenare una nuova seduta spiritica.

Atto secondo. Jacques chiede alla giovane attrice Nelly, sua fidanzata, ma che Christian non conosce, di prestarsi a un piano per far rinsavire l’amico: durante la seduta spiritica deve indossare veli per sembrare un fantasma e apparire a un segnale di Jacques, facendo credere di essere la reincarnazione di Sonia, perdonando Christian e garantendogli che non impazzirà. Il piano è messo in atto e Christian crede davvero di avere di fronte la reincarnazione di Sonia. Colto da una folle rabbia nei confronti della donna che tanto lo ha fatto soffrire, spara un colpo di pistola a bruciapelo uccidendo Nelly, convinto che sia lo spettro di Sonia.

Come nella poesia The Vampire di Kipling, non ci sono riferimenti diretti alla sottrazione di sangue ai vivi da parte di un nonmorto. Il significato prevalente della parola “vampiro” in quegli anni si conferma quello metaforico e allusivo, lontano dalle creature leggendarie succhiatrici di sangue. Il fatto che il “vampiro” della vicenda sia di sesso femminile si inserisce certamente nella moda delle donne fatali lanciata dalla poesia The Vampire, ma si accentuano gli elementi soprannaturali, sostanzialmente assenti in Kipling, perché la donna che porta alla rovina un uomo è una defunta tornata dalla morte grazie a una seduta spiritica. La caratteristica più originale del testo teatrale era di unire spiritismo e vampirismo, con la figura di un medium che mette in contatto con i morti. Come vedremo tra poco, il connubio spiritismo-vampirismo si deve alla coautrice de Vylars, direttamente interessata alle teorie spiritiste, ma non va dimenticato che il testo teatrale prendeva origine da un breve racconto dell’altro autore, Souvestre, intitolato Soirée dans le Monde e apparso su “Comoedia” il 10 febbraio 1908. Il racconto contiene alcuni dei personaggi e delle situazioni di Le Vampire, senza la figura dello spiritista indù. Il russo Dimitri soffre di allucinazioni in cui gli appare la fidanzata Sonia da poco defunta: “La rivide una sera, minacciosa, vendicatrice e si immaginò che gli dicesse: ‘Infame Dimitri, tu mi hai tradita!’. (…) Ormai la vedeva ogni notte, non importa dove, al ristorante, al ballo, a casa…”. Nel racconto, è il fratello di Dimitri a reclutare l’attricetta Nelly Roval per fingersi il fantasma di Sonia, ma la conclusione è simile a quella del testo teatrale: Dimitri crede di avere di fronte lo spettro e uccide Nelly con un coltello.

Si può aggiungere che Souvestre all’epoca era in procinto di pubblicare il suo primo romanzo, scritto con Marcel Allain, Le Rour (uscirà come feuilleton tra gennaio e marzo 1909 e in volume a maggio), che contiene alcune suggestioni vampiresche: il diabolico dottor Wumpt ha inventato ali da pipistrello che gli permettono di volare (si notano nell’illustrazione della copertina originale) e vuole creare un essere femminile artificiale dotato di immortalità.

La copertina di Le Rour e una recensione di Le Vampire su “Comoedia” (2 agosto 1908)

Se oggi Le Vampire pare completamente dimenticato, oltre che ignorato dalla saggistica recente sui vampiri, alla sua comparsa sui palcoscenici fece sensazione e la sua notorietà si prolungò per anni, tanto che Ernest Jones, nel suo fondamentale On the Nightmare (Hogarth Press, London 1931; trad.it. Psicoanalisi dell’incubo, Newton Compton, Roma 1978), citava Le Vampire di de Vylars e Souvestre tra i testi fondamentali a tema “necrofilo”, accanto a Justine di D.A.F. de Sade e Le Vampire di Charles Baudelaire.

Quando lo spettacolo Le Vampire fece il suo esordio al teatro parigino Little-Palace nell’agosto 1908 suscitò grandi emozioni. “Nonostante il periodo e le numerose partenze per le località marittime, una folla elegante si è accalcata, ieri sera, nella graziosa sala di rue de Douai”, scriveva “L’Auto-vélo”, giornale al quale collaborava Souvestre, appassionato di automobilismo. Lo spettacolo era definito “tra i più eclettici” e “degno di lodi”, un “dramma occulto” che si era rivelato il grande evento della serata: “I due atti toccanti del Vampire hanno fatto rabbrividire a volontà il pubblico. Tutta Parigi vorrà vedere quest’opera che provoca emozioni supreme” (2 agosto 1908). Aggiungeva “Le Triboulet” (9 agosto 1908): “Questo dramma ben strutturato ed efficace ci ha fatto passare qualche momento pieno d’angoscia”. Il giornale radical-socialista “Le Radical” (7 agosto 1908) si sperticava in elogi, affermando che lo spettacolo “ha ottenuto il massimo successo che si possa immaginare, perché era contemporaneamente un successo di curiosità, un successo di emozione e un successo d’arte”. Gli interpreti, raccontava il giornale, sono stati applauditi a lungo alla fine di ogni atto e l’attrice Magda Maguéra nella parte di Nelly “ha fatto attraversare la sala da un immenso brivido di spavento quando, colpita in pieno cuore da un proiettile sparato dall’infelice impazzito, crolla all’improvviso: non si potrebbe unire meglio la cura per il verosimile con quella per l’estetica”. Non mancavano gli apprezzamenti per la coautrice: “Mme de Vylars ha messo la sua conoscenza approfondita delle scienze occulte al servizio del dato pittoresco fornito da quell’eccellente narratore che è Pierre Souvestre”.

Anche la versione inglese del 1909, The Vampire, ebbe successo, tanto che tornò sul palcoscenico sei anni dopo, il 16 agosto 1915, al Garrick Theatre di Londra durante una affollata rassegna estiva di Grand Guignol. Dalle recensioni dell’epoca, parrebbe che nell’adattamento per il pubblico inglese sia stato modificato il finale. Nell’originale francese tutto si conclude con la morte della giovane attrice, mentre nella versione londinese l’assassino è a sua volta ucciso dall’amico. Nell’allestimento londinese cambiano anche alcuni nomi dei personaggi: Christian diventa Harry Le Strange, Jacques diventa Jack Harringer, Nelly diventa Olga, solo Sonia e Suratshin mantengono lo stesso nome.

L’adattamento e la traduzione per il pubblico britannico erano di un uomo di teatro che dedicò molti anni al progetto di importare in Inghilterra il successo del Grand Guignol. Si tratta di José G. Levy che inizialmente riuscì a rappresentare opere grandguignolesche in varie sale, gestendo poi dal 1920 il Little Theatre di Londra e trasformandolo in un punto di riferimento per gli appassionati del Grand Guignol. Era stato lo stesso Levy ad adattare in lingua inglese L’Angoisse, altra opera macabra di Mme C. de Vylars, e proprio a Levy si dovrà l’allestimento teatrale, nel 1927, del Dracula di Hamilton Deane con Raymond Huntley nel ruolo del vampiro e lo stesso Deane come Van Helsing. Fu proprio quell’allestimento prodotto da Levy che fu visto da Horace Liveright, talmente entusiasta da realizzarne immediatamente una versione per Broadway, con Bela Lugosi nella parte di Dracula, aprendo un altro capitolo decisivo nella storia del vampiro moderno.

Rare immagini dall’allestimento parigino di Le Vampire

Alla scoperta della misteriosa Cilia de Vylars

Chi era Mme C. de Vylars, coautrice con Souvestre di Le Vampire? Di lei è molto difficile trovare notizie. Dietro quella C. non è chiaro quale nome si celasse. Sulla stampa dell’epoca il suo nome è riportato in svariate forme: Célia, Céline, Célier, Coelia, Ceylia, Cilia, Cilla, Cylia, Lilia, Ciliade… Nei testi che scriveva per i giornali si firmava sempre Cilia e qui così la chiameremo.

Quale sia il suo vero nome è difficile stabilire, così come la sua data di nascita. Si può presumere che fosse ventenne nei primi anni del Novecento e il suo cognome fosse Ikelheimer, dato che risulta sorella di Marc Ikel, direttore di “Echos Parisiens” e membro della Association de la presse judiciaire parisienne, il cui vero nome era Marcel-Anatole Ikelheimer, nato nel 1879. Marc Ikel compare nell’elenco di ebrei attivi nelle professioni e nell’amministrazione statale (Etat Statistique des Juifs en 1914, a cura di G. de Lafont de Savines, Revue Antimassonnique, Paris 1914) e la carriera di Cilia si avviava in anni difficili per gli ebrei francesi, in un paese scosso dal caso Dreyfus, quindi si può supporre che come il fratello avesse optato per un “nome d’arte”. La scelta del cognome de Vylars rimanda a una vera famiglia di ascendenze nobiliari che a sua volta ha infinite varianti ortografiche, spesso inopinatamente applicate a Cilia dai giornali: Villar, Viller, Villier, Villiers, Villers, Villis, Villars e, appunto, Vylars. I de Vylars, in particolare, erano una nobile famiglia britannica nota almeno dal Duecento (un Nicholas de Vylars si registra in Sussex nel 1327). A quella famiglia dai tanti nomi, originati da un riferimento a località francesi, risalgono anche gli antichi nobili normanni dei Villiers de L’Isle-Adam e non si può escludere che Cilia abbia scelto il suo pseudonimo in omaggio allo scrittore simbolista Auguste de Villiers de L’Isle-Adam, autore dei Racconti crudeli (Contes cruels, 1883) e del romanzo Eva futura (L’Ève future, 1886).

Con un’attenta indagine nelle emeroteche si scopre, non senza fatica, il percorso intellettuale di Cilia, dal 1902 alla sua morte nel 1911, l’unico periodo che pare documentabile attraverso articoli e citazioni.

Le prime apparizioni del suo nome risalgono ad alcune recensioni teatrali che firma nel corso del 1902 per “La Lanterne de Boquillon”. Escono anche i suoi primi racconti, come la novella Superstition per la rivista “La Famille” e la triste favola macabra Rose fanée; coeur brisé per “Gil Blas illustré”. Avvia nello stesso periodo la sua attività di autrice teatrale con la commedia Le Suiveur, in scena al teatro Tour Eiffel da giugno a dicembre 1902, scritta con l’allora sessantenne Henri Le Verdier, prolifico autore di romanzi ambientati nel mondo vizioso di Parigi. Per l’occasione, proprio “La Lanterne de Boquillon” scrive che quella “curiosa fantasia” in un atto era “originale ed elegante come Mme Cilia de Vylars, che ne è coautrice, nostra davvero affascinante collaboratrice”. Il sodalizio tra la giovane esordiente e l’autore già affermato è molto produttivo: Cilia insieme a Le Verdier scrive tra l’altro i racconti La Torte per “Le Journal du dimanche” (28 dicembre 1902) e La bonne Etoile per “Le Petit Soleil” (21 marzo 1903), il breve pezzo teatrale sul divorzio con tre personaggi Pourquoi ils divorcent per “La Caricature” (30 agosto 1902), il romanzo Très Femme e un feuilleton, Le cercle rouge, che appare nella primavera del 1903 sul quotidiano “Le Rappel”. A febbraio 1903 aveva ripresentato Le Suiveur per un evento del quotidiano “Le Journal”, organizzando per l’occasione con Le Verdier una festa di beneficenza.

Una piccante vignetta illustra un pezzo teatrale di Cilia de Vylars e Henri Le Verdier (“La Caricature”, 30 agosto 1902)

Nel corso del 1903 Cilia scrive la pièce in un atto Fruit vert, rappresentata al Théâtre Rabelais da luglio a dicembre, e sempre a luglio firma i tre atti di Mimi Pinson (ispirati al racconto omonimo di Alfred de Musset, 1845) per il teatro Villerville, poi riproposto al Théâtre de la Bodinière nel 1904. Dello stesso 1903 è anche La Reconnaissance, un atto rappresentato al Rabelais dal 19 novembre. Nel frattempo continua a scrivere per i giornali: firma recensioni teatrali per “Le Petit Sou” e pubblica su “Le Supplément” (15 agosto 1903) la poesia erotica Volupté, una sorta di ode ai “preliminari” nei rapporti sessuali.

Dopo il sodalizio con Le Verdier trova un nuovo partner di scrittura, avviando una stretta collaborazione con Gaston Berthey, giovane giornalista destinato a diventare suo marito. Con lui firma À l’ombre de Kali, una pièce in un atto e in versi, e il testo teatrale La bonne œuvre, allestito in più riprese al teatro Nouvelle Comédie e poi nell’estate 1906 al Théâtre des Arts. In un’occasione, Cilia si improvvisò attrice per sostituire una delle interpreti, dimostrando “un felice talento e convinzione, nonostante fosse la prima volta che calcava una scena” (“Le Soir”, 17 giugno 1906).

Cilia è molto presente nel mondo culturale parigino. Sappiamo che era interessata a temi occulti e seguace dello spiritismo, molto in voga nella Francia di allora e diventato dottrina filosofica grazie alle teorie di Allan Kardec, ma non ci sono testimonianze dettagliate su questo suo interesse. Più evidente, invece, il suo legame con ambienti socialisti e femministi.

Il 7 marzo 1905 tiene una conferenza in cui auspica “una maternità volontaria e ragionata”, nella sede della loggia massonica “La Raison Triomphante” nota per l’appoggio alle istanza femministe. È inoltre sostenitrice della rivista “Carnet de la femme” promossa dalla Contessa Marcelle Weissen-Szumlanska, archeologa ed etnologa.

Le tematiche sociali emergono anche nel suo testo Dans la Boue, “studio dei bassifondi parigini”, rappresentato nel giugno 1906 al Théâtre-Municipal. Nello stesso mese pronuncia un discorso a un evento dell’associazione di beneficenza “Dotation des mères françaises” dove analizza i rapporti tra famiglia e società. Frequenta inoltre il cenacolo intellettuale della rivista “Le Grillon”, mensile “littéraire et satirique” diretto da Edmond Teulet, poeta e chansonnier. L’impegno di Cilia si evidenzia infine nel breve poema drammatico a tema esplicitamente sociale Vers la Force (Lafolye, Vannes 1905), scritto con Gaston Berthey e più volte rappresentato nel 1907: due operai discutono della loro condizione, uno ha scelto di dimenticare i suoi problemi ricorrendo all’alcol, l’altro non rinuncia a lottare per i suoi diritti, restando fedele a un ideale. Entrambi sono destabilizzati da un’operaia che lamenta di essere dimenticata da loro: “Sopporto, più ancora di voi, le iniquità sociali”. I due operai la invitano a unire le forze tra sfruttati: “Vieni con noi, vieni a far sentire la tua voce, e dalle nostre miserie unite e solidali creeremo una nuova forza”.

La scena cruciale di L’Angoisse in una vignetta da “Comoedia” (23 febbraio 1908)

Il successo al Grand-Guignol

Quella parentesi di attivismo radicale e femminista sembra chiudersi quando, nel 1908, arriva finalmente un notevole successo teatrale grazie al testo che rimarrà il più famoso nella breve carriera di Cilia de Vylars, L’Angoisse, firmato con Pierre Mille e in scena il 20 febbraio 1908 al Théâtre du Grand-Guignol di Parigi.

Così “Comoedia” (23 febbraio 1908) riferisce della prima al Grand-Guignol: “Ecco la bellissima Cylia de Vylars, responsabile di L’Angoisse, suo complice Pierre Mille. Anche lei sembra in grande angoscia, la bella Cylia, e ritrova un po’ di calma solo per mormorarmi all’orecchio: ‘Sapete, sono felice: a Mendès [Catulle Mendès, influente scrittore di quegli anni] è piaciuta molto’”.

La trama di L’Angoisse evocava Edgar Allan Poe. Uno scultore allestisce il suo atelier nello studio che era appartenuto a un collega americano, sparito nel nulla. Ogni sera le lampade si spengono misteriosamente e strane presenze ossessionano lo scultore. Una giovane modella, medium senza saperlo, cade in trance e racconta ciò che è avvenuto in quei locali: l’artista americano aveva ucciso la moglie a martellate e sigillato il corpo in un blocco di gesso, ancora abbandonato in un angolo dello studio. “È là!”, urla la ragazza. Lo scultore rompe il blocco di gesso e trova al suo interno il cadavere mummificato.

Lo spettacolo sarà riproposto nel luglio 1914, nel gennaio 1916 e ancora nel settembre 1922 (con la celebre star del Grand-Guignol Paula Maxa, “la donna più assassinata del mondo”). Poco dopo i primi successi parigini, il Grand-Guignol de Paris portò lo spettacolo a Londra, allo Shaftesbury Theatre, e nel 1912 è Jose G. Levy ad adattarlo in lingua inglese, come farà per Le Vampire, presentandolo con il titolo The Medium e riproponendolo per molte stagioni fino al 1932.

La popolarità dello spettacolo indusse Vernon Sewell, regista britannico da riscoprire, ad acquistarne i diritti e a girare ben quattro film ispirati a L’Angoisse: il cortometraggio The Medium (1934), i film Latin Quarter / Frenzy (L’amante della morte, 1945) e Ghost Ship (1952), infine l’episodio televisivo House of Mystery (1961) della serie “Kraft Mystery Theater”. Sewell, ricordiamo, ha diretto un film vampiresco con Peter Cushing, The Blood Beast Terror (Mostro di sangue / Una bestia vestita di sangue, 1968), dove una donna si trasforma in un mostruoso lepidottero ematofago, promosso con lo slogan “The blood lust of a frenzied vampire!!” (La brama di sangue di uno sfrenato vampiro!!).

Poster per il film di Vernon Sewell tratto da L’Angoisse

La buona accoglienza di L’Angoisse e il tema “orrorifico” portano pochi mesi dopo Cilia ad avventurarsi nuovamente nel genere con Le Vampire, in scena al Little-Palace dal primo agosto 1908 e scritto con Pierre Souvestre, ennesimo e prestigioso coautore. Mentre Le Vampire e L’Angoisse mietevano successi, Cilia continua a produrre. Il 17 giugno 1908 la sua poesia L’Eternelle Prostitute è letta in una serata letteraria e teatrale al Nouveau Théâtre d’Art.

Prosegue inoltre la collaborazione dell’autrice con il teatro Little-Palace, scrivendo il balletto Ivanowska in scena a settembre. “Comoedia” (3 settembre 1908) saluta i brividi d’orrore regalati al pubblico e gli applausi trionfali: “Mme C. de Vylars eccelle nelle situazioni drammatiche di una spaventosa semplicità, tanto più atroci quanto più sono semplici”.

Lo spettacolo narra la storia di una ballerina che versa del veleno nella coppa del governatore Potenief, beve da quella stessa coppa per sviare i sospetti e danza perdutamente, torturata da atroci sofferenze, comunque con il sorriso alle labbra, fino a che il tiranno beve infine a sua volta e muore. “La Vie théâtrale” (25 settembre 1908) scrive che Ivanowska “ci permette di applaudire una nuova forma del talento di questa autrice tanto affascinante. Vi ritroviamo il segno potente dell’Angoisse e del Vampire”.

L’inquietante balletto Ivanowska (da “La Vie théâtrale”, 25 settembre 1908)

Nel 1909 Cilia, in qualità di poetessa, ha l’onore di alcune pagine di apprezzamento da parte di Jules Bertaut, critico letterario di grande prestigio. Nel suo libro La littérature féminine d’aujourd’hui (Librarie des Annales, Paris 1909), Bertaut scrive: “Vorrei citare una giovane donna, Mme Cylia de Vylars, che ha già mostrato felici disposizioni per la scena e che avrà successo, ne sono certo, perché ha saputo svincolarsi da un femminilismo eccessivo. Del resto, basta sfogliare le sue poesie per capire che tende verso la poesia baudelairiana, verso la poesia di idee e non solamente verso un semplice connubio di parole, di epiteti e di sensazioni”. Per avvalorare le sue tesi, Bertaut riportava varie strofe di una poesia di Cilia, La Gloire, dove la gloria diventa una sorta di vampiro che porta alla distruzione morale chi ne è alla ricerca, straziando chi non la ottiene.

Uno stringato trafiletto su “L’Éclair” del 31 dicembre 1909 (notizia poi ripresa da “Le Figaro” l’8 gennaio 1910) annuncia: “J. H. Rosny aîné e Mme Cilia de Vylars stanno terminando una pièce in tre atti dal titolo Les Enlisés”. Dopo Le Verdier, Berthey, Mille e Souvestre, forse Cilia aveva trovato un nuovo partner intellettuale in Rosny, grande scrittore del fantastico e pioniere della fantascienza moderna. Purtroppo il progetto non risulta mai concretizzato, ma sarebbe stato interessante assistere alle creazioni in tandem dell’autrice di Le Vampire e del futuro autore di La jeune vampire(1920).

Il 4 novembre 1910 Cilia sposa Gaston Berthey. Dopo il matrimonio la sua attività creativa sembra svanire, forse per gravi problemi di salute. Vive nel cuore di Parigi, a rue de la Rochefoucauld, ma il suo nome non compare più nei teatri o sulla stampa. Si riparla di lei solo sabato 8 luglio 1911, in un necrologio del giornale “Le Rappel”: “Si annuncia la morte di Madame Gaston Berthey, in letteratura Cilia de Vylars, sorella del nostro collega Marc Ikel della cronaca giudiziaria. Le esequie saranno celebrate venerdì. Ci si riunirà al colombarium del Père-Lachaise. Cilia de Vylars ha collaborato a numerosi periodici e il teatro del Grand-Guignol ha rappresentato con successo un atto drammatico che aveva firmato con Pierre Mille”.

Gaston Berthey sopravvive a lungo alla moglie. Si stabilisce nel 1926 al Cairo, come corrispondente del giornale “Le Matin”, viaggia in Brasile e scrive per riviste brasiliane, collabora nel 1930 a “Le Journal des débats” e prosegue la sua vita in Egitto con una nuova e giovane moglie, giornalista. Gaston continuò a dedicarsi alla scrittura: legge i suoi versi nel maggio 1945 a un evento degli Amis de la Culture Française en Egypte, pubblica il romanzo Une vie atatons (Éditions de la Revue du Caire, 1948). Nel 1926 aveva dato un ultimo omaggio a Cilia, organizzando una recita al Cairo della pièce poetica che avevano scritto insieme, À l’ombre de Kali: a interpretare il poema furono due famosi attori francesi che si trovavano in tournée in Egitto, Henri Rollan e Véra Sergine, quest’ultima, va segnalato, madre di Claude Renoir che sarà direttore della fotografia per il film vampirico di Roger Vadim Il sangue e la rosa (1960).

Una scena da L’Angoisse (“Le_Monde_illustré”, 14 marzo 1908)

Cilia e gli Spiriti

Più di vent’anni dopo la morte, Cilia de Vylars torna a manifestarsi, come uno spettro, in un articolo scritto da quel Pierre Mille che aveva firmato con lei L’Angoisse. Giornalista, saggista e romanziere, Mille era stato anche incaricato governativo nel Madagascar. La sua penna salace si dedica nel 1934 a un articolo sarcastico, dove enuncia tutto il suo scetticismo verso i fenomeni soprannaturali e ricostruisce con accenti cinici e distaccati la sua collaborazione con Cilia de Vylars (Des rapports du Spiritisme avec le théâtre, “Le Temps”, 1 aprile 1934).

Mille torna al lontano 1907 quando, mentre è indaffarato nel suo studio, gli viene annunciato che alla porta c’è una dama intenzionata a incontrarlo. Nel biglietto da visita c’è il nome sconosciuto “Mme C. de Vylars”.

“Era una donna molto piccola e magra, con un grande naso”, scrive Mille (ma sappiamo che altri articolisti dell’epoca la definivano “bellissima” e “affascinante”). La donna avrebbe spiegato con queste parole il motivo della sua visita: “Monsieur, sono malata, molto malata. Condannata a morte. Mi sostengono solo con del siero di sangue di capra. Sto per morire, ma non mi importa, perché sono spiritista. E gli Spiriti mi hanno detto: ‘Prima di morire, avrai un giusto motivo di gioia e di fierezza perché scriverai un testo teatrale in collaborazione con Pierre Mille e quella pièce sarà portata in scena!’”.

Mille nel suo articolo racconta di averla creduta folle: “Sono sempre molto cortese con i folli, non li contrario mai, perché ne ho paura”. Così, per timore delle sue reazioni, accettò la proposta anche se, pur già affermato scrittore, non aveva mai avuto nessun desiderio di cimentarsi con il teatro. Cilia disse che gli Spiriti le avevano indicato anche il soggetto della pièce, un breve racconto dello stesso Mille, La peur.

Tre settimane dopo Cilia si presentò con un manoscritto, due atti intitolati L’Angoisse. Mille si limitò a qualche aggiustamento e quando il testo parve definitivo, Cilia disse: “L’ho letto agli Spiriti. Ne sono contenti, molto contenti. Sapete, amano che si parli di loro. E mi hanno detto che il signor Choisy, direttore del Grand-Guignol, non ha niente in questo momento per la sua stagione e quindi prenderà certamente questo testo, se andate a portarglielo voi stesso”.

Lo scrittore esegue, ma Choisy lo accoglie con freddezza. Mille credeva che il progetto fosse fallito, però quindici giorni dopo viene invitato alle prove dello spettacolo, in procinto di andare in scena. Mille non rimase favorevolmente impressionato e apprese poi con grande stupore che lo spettacolo era stato un grande successo e che nel pubblico si erano verificati vari malori per il terrore. I due autori dell’opera ricevettero una cospicua somma per il testo teatrale, ma tra loro non ci furono più contatti. Mille apprese solo dai giornali, tre anni dopo, della morte di Cilia.

Nel 1915 un’altra sorpresa: Mille riceve la somma del tutto imprevista di svariate migliaia di franchi per i diritti di L’Angoisse, grazie alla traduzione in inglese destinata alla versione da rappresentare in Gran Bretagna e in America. Sapeva di dover dividere gli introiti con gli eredi della sua coautrice, ma non aveva nessun recapito o contatto e ignorava che fosse sposata (“nessuno sapeva niente di lei”, sottolinea).

Due anni dopo, nel 1917, ecco un’altra visita inattesa nella sua abitazione. È un uomo che vuole conoscere lo scrittore perché sa che aveva collaborato con la sua defunta moglie. Si tratta di Gaston Berthey, di passaggio a Parigi dopo un viaggio dalla sua residenza egiziana.

Per quanto vedovo ormai da sei anni, Gaston parla con affetto della moglie, definendola una donna geniale e una sposa incomparabile. “Ma non importa”, aggiunge quasi con le stesse parole di Cilia nella sua prima visita a Mille, “sono spiritista e continuo a parlare con lei. Anche lo Spirito è rimasto in comunicazione quotidiana con lei, il cui genio si è ulteriormente accresciuto da quando si è disincarnata”.

Il racconto di Mille continua, con un distacco ironico quasi irritante. “Per caso gli Spiriti, e quello di Madame in particolare, vi hanno fatto sapere che io vi devo del denaro?”, chiede lo scrittore al vedovo. Alla risposta negativa di Gaston, Mille gli firma un assegno per saldare la parte di diritti per L’Angoisse che spettavano alla moglie.

La storia raccontata da Mille può essere certamente fantasiosa, se non inventata, ma contiene diversi elementi che hanno riscontri e comunque fornisce un ritratto unico di Cilia de Vylars. Scrittrice, poetessa, autrice teatrale e spiritista, la storia del vampiro moderno deve qualcosa anche a lei, caduta nell’oblio.