ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 6

Il Vampiro psichico di George Sylvester Viereck

Abbiamo visto negli articoli precedenti che il 1909, a dodici anni di distanza dalla poesia The Vampire di Rudyard Kipling, ha ospitato un’ondata senza precedenza di vampiri, soprattutto a teatro. Quell’anno si era aperto con uno spettacolo teatrale, The Vampire, tratto non da Kipling, ma dal romanzo breve The House of the Vampire di un autore interessante e controverso: George Sylvester Viereck, nato in Germania nel 1884. Il padre, che si diceva fosse figlio illegittimo del Kaiser Guglielmo I, era un attivista marxista che emigrò negli Stati Uniti nel 1896. Qui George Sylvester fin da giovanissimo si dedica alla poesia. A 17 anni aveva stretto amicizia con Lord Alfred Douglas, il poeta che era stato compagno di Oscar Wilde, e nel suo Youthful Diary 1899-1903 affermava: “Amo tutto ciò che è malvagio! Amo lo splendore della decadenza, la ripugnante bellezza della corruzione. Ciò che odio sono gli inquisitori, freddi, gelidi raggi del sole. Il giorno è nausea, il giorno è noia, il giorno è prosa. La notte bellezza, amore, splendore, poesia, vino, aggressione, violazione, vizio e torpore. Io amo la notte”.

Nel 1905, Viereck fece girare la notizia, da lui inventata, che Wilde non era morto, ma si era nascosto in attesa di un ritorno spettacolare quando le leggi britanniche sulla sodomia fossero cambiate. Dopo aver pubblicato apprezzate poesie, Viereck a ventidue anni scrive The House of the Vampire (Moffat, Yard, New York 1907), dove il Vampiro non sottrae sangue alle sue vittime, ma idee.

Il Vampiro del titolo è un divo del mondo letterario, Reginald Clarke, ispirato chiaramente a Oscar Wilde. Noto a New York per l’oratoria affascinante, Clarke attrae nella sua casa giovani intellettuali che sono sedotti dalla sua forte personalità. La lussuosa “casa del vampiro” si trova a Riverside Drive, elegante strada alberata sul fiume Hudson. È una sorta di tipica casa del decadentismo, nello stile (in Italia) delle abitazioni di Gabriele D’Annunzio o di Mario Praz. Tra pesanti drappeggi che mantengono nelle stanze una parziale oscurità, sul camino c’è un satiro con Santa Cecilia, poi ci sono fauni, sfingi, busti di Shakespeare e Balzac ai quali Clarke si paragona, ritratti di Napoleone e damine rococo.

Il giovane poeta Ernest Fielding va a vivere nella casa di Clarke, ma presto si rende conto che alcuni personaggi e situazioni da lui creati compaiono nelle opere del suo ospite. Clarke gli spiega che il genio è caratterizzato dalla capacità di “assorbire” dalla vita: “ri-creare”, dice, è la prerogativa del poeta. Un amico scultore confida a Ernest di aver perso improvvisamente l’idea di una statua che voleva scolpire, “come se un soffio di vento l’avesse portata via”. E anche la bella artista Ethel Brandenbourg ha la sensazione di essere derubata della sua creatività e mette in guardia Ernest, innamorato di lei: “Di certo sai che nelle leggende di ogni nazione si legge di uomini e donne chiamati vampiri. Sono esseri, non sempre del tutto malvagi, che ogni notte un impulso misterioso spinge a introdursi nelle camere da letto incustodite per succhiare il sangue di chi dorme e poi, rinvigoriti dalla vita delle loro vittime, si ritirano con cautela. Per questo motivo hanno le labbra molto rosse. Si è detto anche che non possano trovare riposo nella tomba, ma tornino nei loro luoghi precedenti dopo che sono stati ritenuti morti. Coloro ai quali fanno visita, comunque, languiscono senza una ragione apparente. I medici scuotono le teste sapienti e parlano di consunzione. Ma a volte, ci garantiscono antiche cronache, nella gente sorgevano dei dubbi e sotto la guida di un buon prete andavano in solenne processione alle tombe delle persone sospettate. E aprendo le tombe si scopriva che le bare erano marcite e i fiori nei capelli erano neri. Ma i loro corpi erano intatti, non c’erano orbite vuote dove strisciassero vermi e le labbra con cui succhiavano erano ancora inumidite da un po’ di sangue”.

Il nesso con il vampiro soprannaturale è quindi dichiarato. Del resto, come il vampiro leggendario Clarke si introduce nascostamente nelle camere da letto delle proprie vittime, per sottrarre le idee durante il sonno. Invece del morso, usa le mani per trasmettere a sé stesso le idee degli altri o, di giorno, fissa intensamente negli occhi le sue prede. Espropriate delle loro idee, le vittime del Vampiro sentono estinguersi la fiamma artistica. A loro è sottratto lo spirito e sono assorbite non solo le idee, ma tutte le energie mentali delle prede, svuotate dei migliori pensieri, della forza vitale, fino a precipitare in una catastrofe fisica e psichica.

Come la Vampira di A Fool There Was, anche Clarke trionfa alla conclusione del romanzo, senza lieto fine. Nelle ultime righe Ernest è ridotto a una larva, gli occhi ormai privi di qualsiasi scintilla, “senza presente e senza passato”, un idiota che farfuglia e inciampa scendendo una scala. Si noti che una scala era anche lo sfondo scenografico dei vari balletti ispirati alla poesia di Kipling The Vampire, che abbiamo descritto in articoli precedenti.


La copertina originale del romanzo e, accanto, un’edizione francese del 2003, tradotta e introdotta da Jean Marigny, esperto di vampiri letterari

Al contrario di altri scrittori vittoriani e degli inizi del secolo, Viereck non ritrae negativamente il Vampiro, ma implicitamente lo assolve e anzi parteggia per lui, spiegando così la sua interpretazione del vampirismo: “Nel trattare questo argomento ho fatto ciò che altri scrittori non hanno fatto: cioè, l’ho reso psichico. Il mio Vampiro è il Superuomo di Nietzsche. È giustificato nel rubare dalle menti degli altri. È una figura peculiare della letteratura e del teatro nel mondo” (“New York Times”, 30 gennaio 1909).

Il vampirismo spirituale proposto da Viereck è attuato da geni con la statura di giganti che fanno avanzare la cultura e la società, depredando gli inferiori. Nina Auerbach sostiene che in Viereck “il potere del vampiro non è solo perverso, ma progressista: i vampiri di Stoker sono atavici nemici del progresso, i vampiri psichici di Viereck sono motori dell’avanzamento umano” (Our Vampires, Ourselves, The University Press of Chicago, Chicago 1995).

Oltre a essere una lode del Superuomo,The House of the Vampire è una sorta di celebrazione del plagio (su questo aspetto è imprescindibile Paul K. Saint-Amour, The Copywrights: Intellectual Property and the Literary Imagination, Cornell University Press, Ithaca 2011). Da poco le legislazioni europee avevano esteso il copyright anche dopo la morte degli autori e Viereck di fatto si oppone al concetto stesso di “diritto d’autore”, soprattutto nei confronti di opere non pubblicate: i “geni” sono autorizzati ad appropriarsi delle idee da creatori incapaci o senza doti straordinarie e per un “Superuomo” è lecito impadronirsi delle creazioni di autori “inferiori”.

Tra Clarke, uomo maturo, e la giovane vittima Ernest c’è un’attrazione omosessuale, tanto che il romanzo è convenzionalmente definito “gay vampire novel” e indicato come una delle prime rielaborazioni omoerotiche del vampirismo. Viereck, del resto, nelle sue prime poesie trattava spesso di amori tra uomini, ma in realtà i due protagonisti principali del romanzo sono bisessuali, perché entrambi amano o hanno amato delle donne.

George Sylvester Viereck

Dal romanzo al teatro

A due anni dall’uscita di The House of the Vampire, la permanente popolarità del vampiro in versione kiplinghiana induce Viereck a trasporre il romanzo in un testo teatrale in tre atti, scritto con il suo compagno di studi Edgar Allen Woolf che molti anni dopo sarà tra gli sceneggiatori del film The Wizard of Oz (Il mago di Oz, 1939). Per il teatro si sceglie di intitolare l’opera soltanto The Vampire, proprio come la poesia di Kipling e il quadro di Burne-Jones.

Prodotto dai celebri manager teatrali Jacob J. Shubert e Lee Shubert, The Vampire dopo un’anteprima a Albany fa il suo esordio all’Hackett Theatre di Broadway il 18 gennaio 1909 e chiude dopo 24 repliche, per spostarsi poi alla Grand Opera House di Chicago. Il ruolo del Vampiro era interpretato da John E. Kellerd, la vittima da John Westley e nello spettacolo recitava nella parte di un’altra delle vittime anche Warner Oland, futuro Fu Manchu e Charlie Chan sugli schermi. In occasione delle rappresentazioni si stampò un volantino con la domanda: “Credete nei Vampiri?”. Distribuito in un centinaio di copie, ottenne il 97 % di risposte “Sì”.

Il testo teatrale non è stato pubblicato e si possono desumerne i contenuti solo dalle recensioni di allora. La revisione del romanzo firmata da Viereck e Woolf cambia il finale, con la protagonista femminile che salva il giovane poeta, ma lascia intatte le riflessioni sul “vampirismo letterario”. Cambiano anche i nomi dei personaggi. Reginald Clarke diventa Paul Hartleigh, Ernest diventa Caryl e Ethel Brandenbourg si trasforma in Allene Arden modificandone inoltre la biografia: nel romanzo Ethel era un’ex amante di Clarke, mentre nel testo teatrale Allene è figlia di una passata amante dello scrittore e lo chiama “papà”. Nella conclusione dello spettacolo, Allene resta di notte nella camera da letto di Caryl e sorprende il Vampiro che sta per rubare dalla mente del giovane le idee di un suo romanzo non ancora scritto: gettandosi tra Caryl e il Vampiro, Allene impedisce l’estrema sottrazione di idee e vitalità. L’atto di vampirizzazione era visualizzato mostrando Hartleigh che pone le mani sulle teste delle sue vittime, mentre dormono, per assorbirne i pensieri.

Per quanto alcune critiche lo reputassero debole e “caotico” (“The Billboard”, 13 febbraio 1909), “freddo” e incapace di suscitare simpatia nel pubblico (“The New York Press”, 22 gennaio 1909), The Vampire suscitò più ancora del romanzo grande attenzione (anche per il tema della “proprietà letteraria” rubata), tanto che il fratello di Woolf, lo stimato pittore Samuel Johnson Woolf, scrisse a Mark Twain pregandolo di vedere The Vampire all’Hackett Theatre e mettendogli a disposizione un palco. Lo spettacolo restò in tournée per due anni sotto le cure dei fratelli Shubert e l’attore italiano Amleto Novelli voleva portare The Vampire in Europa, ma il progetto pare non si sia concretizzato.

Paradossalmente Viereck e Woolf, che avevano scritto quel testo fantasticando sul plagio, finirono accusati di plagio. Uno scrittore, Arthur Stringer, sosteneva di aver trovato interi passaggi di un suo romanzo nell’opera teatrale. Il commediografo Maurice Lyons intentò una causa affermando di avere scritto nel 1907 un testo dallo stesso titolo The Vampire. Analogamente Madame Fuji-ko (della quale abbiamo scritto qui) rivendicava il copyright sui titoli The Vampire, The Vampire Cat e The Vampire Cat of Nabeshima, accusando Viereck e Woolf di essersi appropriati indebitamente di quel titolo.

I due protagonisti principali di The Vampire in una vignetta da “The Evening World” (19 gennaio 1909)

Viereck dopo The Vampire

Considerato ormai un giovane prodigio, Viereck proseguì la sua scalata nel mondo giornalistico e letterario. Non nascondeva le sue posizioni reazionarie, opposte a quelle del padre, che lo porteranno a subire il fascino di Hitler e diventare un propagandista del nazismo in terra americana. Godeva tra l’altro dell’amicizia e della protezione di grandi intellettuali non certo di destra come H.G. Wells e George Bernard Shaw (vedi John V. Antinori, Androcles and The Lion Hunter: G.B.S., George Sylvester Viereck, and the Politics of Personality, “Shaw”, vol. 11, 1991). Con Shaw l’amicizia non tramontò mai, anche se tra i due si intromise un episodio che si potrebbe definire di “vampirismo”: Shaw accusò Viereck di avergli attribuito, facendogli un’intervista, considerazioni che erano solo sue. In una lettera del 6 dicembre 1929, Shaw protesta duramente con Viereck per quell’intervista che non conteneva nulla di autentico e lo accusa di “guadagnarsi da vivere” attribuendo a lui le sue opinioni personali, facendogli dire cose che non ha detto. Insomma, Viereck avrebbe approfittato dell’intervista per vampirizzare Shaw e veicolare le proprie opinioni (“ti limiti a riportare tue nozioni che sono suggerite dagli argomenti che io menziono”, si legge nella lettera).

Oltre a Wells e Shaw, tra le amicizie di Viereck si annoverava anche Nikola Tesla, mentre con Aleister Crowley collaborò per la rivista “The International”. Alla ricerca di “geni” che avvalorassero le sue teorie superomistiche, Viereck intervistò Sigmund Freud e Albert Einstein, incontrò Benito Mussolini, ma rimane negli annali soprattutto la sua intervista a Adolf Hitler dell’ottobre 1923 pubblicata su The American Monthly”, periodico diretto dallo stesso Viereck (significativo, per i tempi odierni, lo slogan “America First” che campeggiava accanto alla testata). Hitler, non ancora Führer, delineava il suo progetto politico e proclamava soprattutto il suo odio per i comunisti e il marxismo. Quando anni dopo è ristampata in forma modificata daLiberty” (9 luglio 1932), l’intervista si apre con una frase dalle assonanze vampiresche. Descrivendo il colloquio con il capo dei nazionalsocialisti, avvenuto sorseggiando del tè, Viereck commenta: “Adolf Hitler svuotò la sua tazza come se non contenesse tè, ma il vivo sangue del bolscevismo”.

Fervente anticomunista, Viereck era stato già al centro di polemiche per la sua propaganda filotedesca durante la Grande Guerra, tanto che la sua casa nel 1918 fu protetta dalla polizia per timore di attacchi. Negli anni Trenta è un sostenitore di Hitler e continua a promuovere le politiche naziste anche durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1941 per il suo collaborazionismo subì un processo che fece scalpore e lo portò a trascorrere quasi quattro anni in prigione. Viereck ottenne comunque un trattamento privilegiato, in una cella dotata di libreria e dove aveva potuto portare preziosi oggetti personali. Dopo la scarcerazione pubblica un libro di memorie sulla condizione di vita in prigione e un ultimo romanzo, The Nude in the Mirror  (Woodford Press, New York 1953). Muore nel 1962, a 77 anni.

L’intervista di Viereck a Hitler (da “Liberty”, 9 luglio 1932)

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Vampire che danzano

Il 1909 è stato anno di vampiri sui palcoscenici. Lo spettacolo teatrale A Fool There Was, diventato in seguito romanzo sempre per la penna di Porter Emerson Browne, ispirato alla poesia The Vampire di Rudyard Kipling e al quadro omonimo di Philip Burne-Jones, va in scena a marzo. Contemporaneamente si rappresenta a New York una brevissima commedia musicale, The Vampire, scritta e interpretata da Walter Shannon con diretto riferimento alla poesia omonima. Non aveva nulla a che fare con Kipling, invece, il testo teatrale The Vampire messo in scena all’Hackett Theatre di New York già nel gennaio dello stesso anno e tratto da un romanzo di George Sylvester Viereck (dove il vampiro del titolo è ancora una volta “psichico”, ma in questo caso è un uomo che ruba le idee agli scrittori: ne tratteremo dettagliatamente in un futuro articolo).

Il 1909 è anche, e forse soprattutto, l’anno della vampire dance, da tradurre per la precisione come “danza della vampira” dato che a portare distruzione dopo un ballo seduttivo era sempre una donna. Si tratta di un vero e proprio filone che si prolungherà per oltre un quinquennio. La vampire dance si ispirava dichiaratamente alla poesia di Kipling, al quadro di Burne-Jones e al testo teatrale A Fool There Was, quando la Vampira dice alla sua vittima “Before we part, kiss me, my fool!” e l’uomo cade a terra morto, mentre lei ride lasciando piovere petali di rosa sul cadavere.

La danza contribuisce in modo decisivo al cambiamento semantico del termine “vampiro” nel mondo anglosassone di inizio Novecento: più che creatura soprannaturale di ritorno dalla tomba, una donna fatale che prosciuga i maschi di beni e vita. Nei balletti sui palcoscenici le antiche “danze macabre” (o le danze delle streghe e degli scheletri) si univano così alla figura della femmina seduttiva che agli inizi del nuovo secolo ballava sotto le spoglie di Cleopatra e Salomè o nelle danze tentatrici di Mata Hari.

Non era un fenomeno del tutto nuovo. Come sottolinea Gary D. Rhodes (The First Vampire Films in America, Palgrave Communications, nature.com, 2017), la vampire dance era popolare almeno dal 1890, quando una compagnia americana di “minstrel” (commedie musicali interpretate da bianchi con il volto truccato di nero o da afroamericani) presentava la “Great Vampire Transformation Dance” e nel 1896 un’altra vampire dance si registra nel Massachusetts. Si trattava però di balli ispirati al vampiro soprannaturale e non alle vampiresche donne fatali che si affermano solo nel 1897 con Burne-Jones e Kipling.

Da pipistrello a danzatrice nel cortometraggio Loie Fuller (1905)

Una sorta di “danza della vampira” può rintracciarsi nella Serpentine dance e in altre esibizioni dell’artista americana Loïe Fuller che ebbero grande influenza sui simbolisti e sull’art nouveau. Danzatrice autodidatta, Loïe Fuller dopo aver lavorato nel 1892 alle Folies Bergère diventò manager, autrice teatrale e coreografa, a Parigi, Londra e New York, contribuendo alla nascita della danza moderna. Le sue rappresentazioni erano spesso caratterizzate dalle tuniche che faceva roteare creando effetti straordinari. Un cortometraggio del 1905, intitolato semplicemente Loie Fuller, mostra un pipistrello che si trasforma in donna e avvia una danza, muovendo vorticosamente un abito che simula le ali del chirottero. Si univa così il vampiro soprannaturale, evocato dal pipistrello, alla seduzione della vampira kiplinghiana grazie alla danza affascinante e ipnotica. Va ricordato che Loïe Fuller pagò un prezzo piuttosto alto per le sue rappresentazioni artistiche: il radio che utilizzava per rendere fluorescenti le “ali” dei suoi abiti di scena le provocò un tumore.

Il riferimento della danza di Loïe Fuller al vampirismo era comunque solo allusivo. La prima, esplicita “danza della vampira” va attribuita all’artista Fuji-Ko. Nata a Tokio, ma cresciuta a Londra, si esibiva in America e in Sud Africa con brevi rappresentazioni in cui univa ballo e pantomima (su Fuji-Ko vedi una breve biografia in Dixie Hines, Harry Prescott Hanaford,Who’s who in Music and Drama, Hanaford, New York 1914). Il 19 novembre 1908 presenta al Neues Deutsches Theater di New York lo spettacolo The Vampire Cat of Nabeshima, pantomima con accompagnamento musicale di un’orchestra. Un gatto soprannaturale, tipico delle leggende giapponesi, dissangua Sakura-Ko, la favorita di un principe, e ne assume l’aspetto. Sakura-Ko usa il suo fascino vampiresco per distruggere il principe e lo fa ammalare gravemente. Un giovane samurai affronta la vampira per vendicare il suo signore, ma lei tenta di sedurlo. Il samurai riesce a resistere ai suoi sguardi ammaliatori piantandosi la spada in una gamba e uccide la vampira: al posto di Sakura-Ko c’è il cadavere di un enorme gatto (il testo integrale di The Vampire Cat of Nabeshima è stato pubblicato in “The Smart Set” n. 1, 1910).

Per quanto sovrappeso, Fuji-Ko con i lunghi capelli sciolti riusciva a essere emozionante nelle sue danze da vampira attorno alle due vittime, il principe e il samurai, tra suggestive melodie orientali. Secondo “The Kansas City Star” (22 novembre 1908) “la sua abile seduzione, i suoi trucchi di sensualità provocante e il suo balzo finale sull’uomo prostrato erano una meravigliosa combinazione tra una donna diabolica e il gioco di un gatto con una vittima senza scampo”. L’articolista dichiarava di aver avuto un brivido quando la vampira protendeva le dita ad artiglio, avanzando a piedi nudi verso la sua preda, e cambiava improvvisamente espressione passando “dalle astuzie di una sirena alla ferocia di una bestia”.

Fuji-Ko, autrice e interprete di The Vampire Cat of Nabeshima (1908)

Nasce la Vampire Dance

Fuller e Fuji-ko non prendevano ispirazione dalla vampira predatrice di uomini creata da Kipling e Burne-Jones. Il fenomeno Vampire Dance nasce solo quando si diffondono spettacoli esplicitamente derivati dal quadro e dalla poesia The Vampire. Uno dei grandi artefici della prosecuzione in forma di danza del successo di The Vampire è senz’altro Joseph C. Smith. Dopo aver ballato, tra l’altro, alla Scala di Milano, diventa coreografo a Broadway e dal 1909, in coincidenza con lo spettacolo teatrale A Fool There Was, sceglie di trasformare in balletto la scena finale vista a teatro, inserendo citazioni dalla poesia di Kipling e allusioni al quadro di Burne-Jones.

Cronologicamente, sembra proprio Smith il primo a inventare la vampire dance, che nella sua versione da vaudeville diventa presto nota anche come temptation dance e flirtation dance. Smith ha inizialmente come partner artistica Louise Alexander, che veniva dalle Ziegfeld Follies. Con lei nel dicembre 1908 aveva già eseguito la Apache dance nel musical The Queen of the Moulin Rouge, a New York. La Apache dance era nata a Parigi nel 1908, al Moulin Rouge, ed era caratterizzata dai modi brutali del ballerino verso la sua partner femminile, una sorta di lite violenta tra amanti che si concludeva con una riconciliazione e la resa della donna. La lotta tra una donna e un uomo trasformata in balletto è analoga nella Vampire Dance, però a ruoli ribaltati e con un finale tragico che vede la supremazia della donna. La vampira non usa la violenza per ottenere quello che vuole dall’uomo, ma la seduzione ipnotica.

Smith e Alexander portano la danza vampiresca a Baltimora nel giugno 1909, ma dopo la prima rappresentazione devono cancellarla dal repertorio per volontà del direttore del teatro di vaudeville dove andava in scena lo spettacolo, a causa della “volgarità” del tema. Il duo Smith-Alexander si separa ed entrambi continuano a interpretare la vampire dance con altri partner. Smith sceglie Ethel Donaldson per presentare, nel settembre 1909, una “original conception” della danza vampiresca al teatro American di New York. In questo caso l’azione si svolge in un salottino: lui è in abito da sera (il caratteristico abbigliamento di Smith come ballerino), lei in succinto vestito nero con le spalle nude. Nel frattempo, come vedremo tra poco, nel corso dell’estate 1909 si era affermata nei teatri un’altra vampire dance, molto simile, eseguita dal duo Bert French-Alice Eis. Inevitabilmente i giornali fecero dei paragoni tra le due versioni, ritenendo quella di Smith-Donaldson inferiore a quella di French-Eis, soprattutto per il minor temperamento e abilità della ballerina. Anche queste rappresentazioni sollevarono l’indignazione dei commentatori “benpensanti” che ne stigmatizzavano il “cattivo gusto”.

Joseph C. Smith e Violet Dale nella Vampire Dance (1909)

Indifferente alle critiche, Smith continuò a promuovere la sua danza vampiresca. In particolare, cura il segmento The Vampire Dance alla chiusura del primo atto di una commedia musicale che ospitava al suo interno dei numeri di danza, The Flirting Princess, imperniata su una bella egiziana che scappa in America per evitare un matrimonio combinato. Nell’ottobre e novembre 1909 Smith esegue la Vampire Dance in un tour americano della commedia, con Violet Dale (che dopo la recita faceva sensazione baciando tutta la troupe) e il danzatore/attore Harry Pilcer. In occasione dello spettacolo al La Salle Theater di Chicago, “The Show World” (6 novembre 1909) dava una breve descrizione del ballo: “Harry Pilcer appoggia il viso alla spalla di Violet Dale e sussurra un paio di strofe della poesia di Kipling, poi entra Mr. Smith in abito da sera per finire vampirizzato. Miss Dale ha un vestito verde brillante, con in rilievo sul seno la testa di un grande serpente che le si avvolge luccicante lungo il corpo. Ondeggia intorno all’uomo, lo afferra ansimante e lo bacia, fino a che lui crolla irrigidito. Allora, con un sorriso malvagio, lei lascia cadere petali di rosa rossa sul corpo esanime e cala il sipario”.

Nella primavera del 1910, sempre a Chicago, la partner di Smith nella danza della vampira è Vera Michelena, attrice e cantante oltre che ballerina. Un ulteriore allestimento di The Flirting Princess si ha nel marzo 1911, dove però la Vampire Dance sarà eseguita da Maude Emery e Charles Morgan.

Alice Eis e Bert French nella Vampire Dance (da “The Sketch”, 15 dicembre 1909)

La “danza della vampira” conquista New York e Londra

Quello che mancava alla vampire dance di Smith e delle sue partner era l’audacia, il coraggio di portare all’estremo possibile in quei tempi il contenuto erotico della “danza della vampira”. Quel coraggio lo dimostrarono viceversa nell’estate del 1909 Alice Eis e Bert French, lei diciannovenne, lui poco più che ventenne, con il loro spettacolo The Vampire Dance. Da tre anni French e Eis si esibivano come mimi e Bert si era preso cura di insegnare la danza ad Alice. Lavorando insieme diventano noti come il primo duo a eseguire la Apache dance sui palcoscenici americani.

Dopo il successo a New York della loro Apache dance, French cercava un nuovo tema per un balletto ed ebbe l’illuminazione quando un amico gli inviò una cartolina che riproduceva il quadro di Burne-Jones. Nacque così The Vampire Dance, uno spettacolo della durata di 17 minuti che fa il suo esordio al teatro Fifth Avenue nel luglio 1909.

La rappresentazione si apriva con una Apache dance, in ambientazione vagamente parigina, dove French abbordava una donna per strada e la maltrattava senza pietà. Poi si passava alla danza vampiresca. Dalle recensioni di allora si possono immaginare i tratti essenziali dello spettacolo.

Alice Eis e Bert French nella “danza della vampira” (1909)

La scenografia è dominata da una scala, tra pesanti drappeggi, in quella che sembra una caverna su una spiaggia. Sul palcoscenico, tra suggestivi effetti di luce, c’è un giovane in abiti semplici. Si china per prendere una rosa rossa e se la porta alle labbra. In quel momento il sole svanisce e dalle tenebre emerge una luce rossa che illumina la scena, rivelando a poco a poco la presenza di una donna addormentata, al centro del palco, avvolta in un velo rosso. Una dolce musica sfuma mentre la donna si risveglia e, accucciata, resta intenta a osservare il giovane. Rimosso il velo, mostra un lungo abito d’oro e argento di foggia orientale, attillato, che le lascia scoperte le spalle e le braccia. Si avvicina al giovane. Scivola sinuosa intorno alla sua preda. L’uomo si ritrae, con un atteggiamento “femminile” che qualche giornale accostò alla ritrosia delle eroine perseguitate nei melodrammi, poi cede alla seduzione e la abbraccia. Mentre la bacia sulla bocca, la vampira tenta di morderlo al collo. Inorridito, il giovane la allontana da sé e lei cade a terra apparentemente esanime. Ma improvvisamente comincia a strisciare come un serpente verso l’uomo che tenta di fuggire. Inizia la lotta contro la seduttrice che cerca di raggiungergli la gola. Lui la respinge con brutalità e, come nella Apache dance, la getta più volte a terra, ma lei si rialza e continua a muoversi intorno a lui e a tentare di abbracciarlo. Alla fine lo avvolge nelle sue spire, di nuovo lui la bacia, ma cade di schiena e la vampira lo morde alla gola. Resta morente a terra, mentre lei lo osserva trionfante. In un ultimo tentativo di resistenza rotola via dalla vampira, ma è ancora morso al collo e muore. Quando il giovane giace immobile è inscenata una sorta di replica del quadro di Burne-Jones, con la donna che si erge sulla vittima.

La pubblicità metteva in diretta relazione lo spettacolo e il testo di Kipling (“La sensazionale poesia di Rudyard Kipling The Vampire illustrata in forma di danza da Bert French & Alice Eis”), sostenendo che “ogni frase della poesia può esser compresa dal pubblico con la stessa chiarezza che se la si leggesse”. Ad avvalorare lo stretto legame anche con il quadro di Burne-Jones contribuiva una foto promozionale di Alice Eis in sottoveste bianca e lunghi capelli scuri che evocava chiaramente la vampira del dipinto.

Alice Eis

La reazione al fenomeno della vampire dance, avviato da Smith e quasi contemporaneamente consacrato da French-Eis, fu di definirla “rivoltante” e “decadente”. Esemplari le parole di “Variety” (31 luglio 1909): “Quando ci hanno rappresentato la Apache Dance credevamo che New York avesse assistito al culmine estremo della danza sensazionalistica. La Vampire Dance va ben oltre (o sotto, se vogliamo) quella esibizione scellerata”. Il periodico continuava definendo lo spettacolo “un numero sgradevole con un grado di vividi dettagli quasi da visita medica”. Per “Variety” la Eis poteva fare la contorsionista e sapeva cadere bene a terra, ma non era certo una ballerina. La sentenza finale era senza appello: si trattava di una “esibizione assolutamente indecente”, messa in scena solo per fare cassa. Non meno severo il “New York Dramatic Mirror” (7 agosto 1909) che considerava la Vampire Dance “volgare”, uno spettacolo che “getta vergogna e discredito sui gestori del teatro” (il proprietario del Fifth Avenue, Benjamin Franklin Keith, era un’autorità nel mondo del varietà e del vaudeville) e “chiamarla danza è una diffamazione per la parola arte”. Il giornale aggiunge un “povero Kipling!” e si augura che lo spettacolo non vada oltre la prima settimana di rappresentazioni. Invece The Vampire Dance ebbe un successo clamoroso, nonostante la stagione estiva, con applausi a scena aperta e teatri pieni. Dopo due mesi a New York lo spettacolo va in tour ed è rappresentato tra l’altro al Grand di Syracuse e all’Orpheum di Atlanta. In provincia l’accoglienza della stampa è meno ostile e “The Constitution” (3 ottobre 1909) arriva a definire lo spettacolo “una vetta artistica” e “una perfezione di grazia”. Il successo fu tale che Alice Eis divenne tanto famosa da dover uscire con la testa coperta da un velo per non farsi riconoscere dalle innumerevoli persone pronte a seguirla ovunque.

Nell’ottobre 1909 Eis e French eseguono la Vampire Dance all’Hammerstein’s di New York, durante uno spettacolo che vede anche un numero di Buster Keaton, poi il loro balletto varca l’oceano. Lunedì pomeriggio 29 novembre 1909 Alice Eis e Bert French presentano The Vampire Dance all’Hippodrome di Londra e la stessa sera un’analoga “danza della vampira” è eseguita da Mildred Deverez e Tom Terriss al Tivoli. Questi ultimi, per quanto chiaramente imitatori, affermavano che la loro versione era la migliore.

A sinistra la Vampire Dance di Bert French e Alice Eis, a destra quella di Tom Terriss e Mildred Deverez (da “The Constitution”, 3 ottobre 1909; “The London Magazine”, marzo 1910)

Il duo danzante French-Eis fa di nuovo scandalo. “The London Magazine” (marzo 1910) liquida sia lo spettacolo di Terris-Deverez che quello di French-Eis come “realismo ripugnante”, dove l’arte del ballo sarebbe tramutata in mera “diavoleria”: “La Vampire Dance è chiamata danza per cortesia. In realtà non è una danza, ma una sorta di dramma in movimento, nel quale l’azione consiste in una serie di corse selvagge e demoniache su e giù per il palcoscenico, intervallate da brutali abbracci, avvinghiarsi da serpente e seduzioni da sirena”.

Fuori dal coro era invece il periodico populista inglese “John Bull”: “Per la grazia delle pose, per le forme sinuose, per la bellezza del corpo e l’avvenenza del viso, non ho mai visto niente di più incantevole di Alice Eis che, con i suoi poteri affascinanti e i movimenti da pantera, può portare alla dannazione qualsiasi essere umano” (18 dicembre 1909).

Il clamore londinese dello spettacolo fa cambiare orientamento anche alla stampa americana: “Da molti anni non si assiste a qualcosa di così nuovo e sensazionale, per quanto terribile”, scrive il “New York Herald” (26 dicembre 1909).

Il successo di pubblico della Vampire Dance a Londra è comunque strepitoso, French riceveva continue telefonate di ammiratori che volevano incontrare il duo e lettere che lodavano la “lezione morale” contenuta nel balletto. La vampire dance, infatti, prolungava in forma di balletto il contenuto “ideologico” della poesia di Kipling: la donna come pericolo, una minaccia per lo status quo a guida maschile, insidiato dalla richiesta di suffragio universale e dal femminismo. La “lezione morale”, semplificando, era di mettere in guardia l’uomo, indicando che cedere alle lusinghe di donne lascive e prive di sentimenti porta distruzione e morte.

Da “Show World”, 18 dicembre 1909

La Vampire Dance arriva al cinema

Dopo Londra, Eis e French portano il loro spettacolo a Vienna, nel luglio 1910, poi in Francia nel 1911, dove è definito “mimodrame sensuel”. Quando si esibiscono nella Vampire Dance all’Olympia, “Le Figaro” (18 aprile 1911) parla di un “trionfale successo”. Ancora a dicembre di quell’anno la Vampire Dance di Eis e French girava nelle sale francesi della provincia.

Nonostante i risultati trionfali in Europa, al ritorno in patria il duo dovette fronteggiare i rigori della censura. Per il loro spettacolo Le Rouge et Noir, nel febbraio 1913, Eis e French finirono in carcere a New York insieme al direttore del teatro. La Eis interpretava la Fortuna, una figura resa simile alla Vampira che qui illudeva un giocatore e poi gli consegnava il coltello con cui uccidersi. A far scattare le manette erano i costumi della danzatrice e alcune posture nel ballo.

Eis e French sono presto liberati, le scene incriminate sono sostituite e il duo può continuare le sue danze, riproponendo ancora la Vampire Dance a New York nel corso del 1913. Il loro successo doveva moltiplicarsi proprio in quell’anno con l’arrivo della Vampire Dance sugli schermi cinematografici. Nell’ottobre 1913, infatti, esce nelle sale un film di 38 minuti prodotto dalla Kalem, The Vampire, dove il duo si esibisce nella famosa danza vampiresca (ottennero un notevole compenso per la partecipazione al film: 2000 dollari). La regia era di Robert G. Vignola (nato in Basilicata, ma vissuto fin da bambino in America), su sceneggiatura di T. Hayes Hunter “da Rudyard Kipling”. Il direttore della fotografia era George K. Hollister, marito dell’attrice protagonista principale del film e operatore anni dopo per The Thing from Another World (La cosa da un altro mondo, 1951).

Il duo Eis-French nel film The Vampire (1913)

The Vampire raccontava la storia del giovane Harold Brentwell (Harry Millarde) che cade vittima di Sybil (Alice Hollister), una “vampira”, avventuriera spregiudicata e peccaminosa. Nelle spire della Vampira, Harold perde il lavoro e la fidanzata. Quando Harold non ha più soldi, Sybil lo abbandona e il giovane diventa alcolizzato. In un teatro assiste a una “Vampire Dance”, interpretata proprio da Alice Eis e Bert French, restandone talmente turbato che comprende i suoi errori e torna dalla fidanzata.

La visione della “danza della vampira”, dunque, porta alla redenzione. Anche se nel film Harold assiste alla Vampire Dance in uno spettacolo teatrale, le scene con Eis e French furono girate in esterni, nei boschi del New Jersey, perché le produzioni Kalem preferivano la luce naturale per le riprese. “The New York Dramatic Mirror” (1 ottobre 1913) scriveva che, dopo una proiezione privata in anteprima, gli spettatori che avevano visto in precedenza la danza di Eis e French sui palcoscenici espressero “l’opinione unanime che la Vampire Dance nella versione per lo schermo primeggiava su qualsiasi sua rappresentazione a teatro”.

Il segmento della danza è forse la prima visualizzazione in assoluto, al cinema, del morso di un vampiro. Come si nota nelle fotografie superstiti, infatti, la gola della vittima è imbrattata di sangue dopo l’attacco della vampira: la donna fatale, ma realistica, di Kipling si unisce finalmente ed esplicitamente alla creatura leggendaria bevitrice di sangue.

The Vampire creò anche problemi di ordine pubblico. Ad Atlanta la scena della danza era stata censurata, ma ne arrivò una copia integrale in un “negro theater” (una delle sale riservate agli afroamericani). Si accalcò una grande folla, composta anche da numerosi bianchi, tanto che intervenne la polizia (lo riporta “The Constitution”, 22ottobre 1913).

Il film The Vampire era considerato perduto, ma una copia è custodita all’Eastman Museum di Rochester e periodicamente viene proiettato, anche se non è disponibile su nessun supporto per l’home video (la prossima proiezione è prevista il 4 marzo 2024 al Sie Film Center di Denver).

Nel 1917 Alice Eis e Bert French si sono sposati.

La danza della vampira in The Vampire (1913)

Ascesa e declino della danza vampiresca

La moda della vampire dance si estingue a poco a poco con il diffondersi al cinema della vampirica donna fatale, grazie a una serie di pellicole che culmineranno nel successo di Theda Bara e nella proliferazione della “vamp” . Ma tra il 1909 e il 1915 la vampire dance è il fenomeno principale che cattura l’attenzione sui vampiri, nell’immaginario dell’epoca. Era tanto popolare che poteva diventare oggetto di parodie, come nella rivista Hello… London, all’Empire di Londra dal febbraio 1910, che vedeva un numero dedicato alla “danza della vampira”, di nome Julia, in questo caso impegnata a sedurre un anziano e un giovane musicista.

I perbenisti ancora nel 1912 temevano le nefaste influenze di quel ballo: “The Catholic Telegraph” di Cincinnati (16 maggio 1912) invocava in prima pagina la censura per “temi orribili e malsani come ‘La danza dei vampiri'”.

La vampira Julia in Hello… London (da “The Sketch”, 2 marzo 1910)

Ma in quegli anni non è solo l’America (o l’Inghilterra) a scandalizzarsi per la “danza della vampira” e contemporaneamente a riempire le sale per uno spettacolo che faceva il tutto esaurito ogni sera. A Parigi il 23 novembre 1909 la Vampire Dance è presentata all’Olympia con l’interpretazione di Théodora Girard (alias Teddie Gerard), appena arrivata da New York, e Harry Watt. Secondo “Variety” (4 dicembre 1909) lo spettacolo era in costumi dell’antica Grecia ed era stato subito dopo riproposto con Harry Agoust nel ruolo maschile.

L’anno successivo, sempre a Parigi, va in scena alle Folies Bergère La Vampire, pantomima ispirata alla poesia di Kipling con la danzatrice Natacha Trouhanowa, famosa per le sue interpretazioni di Salomè, e con Robert Quinault, in futuro celeberrimo ballerino. Lo spettacolo si protrae dal 15 febbraio al 30 aprile 1910, di fronte a un folto pubblico che chiedeva spesso il bis. La Vampire sarà riallestito dal primo al 27 ottobre 1913 con Miss Monor nel ruolo femminile.

Nella primavera del 1910 si rappresenta in Germania Der Vampir-Tanz, spettacolo che dichiara di ispirarsi alla poesia The Vampire e al quadro di Burne-Jones. Si tratta chiaramente della stessa pantomima di French e Eis, qui proposta con la ballerina Violet Hope nel ruolo della vampira e Fred Lesly in quello della vittima. Così la pubblicità descriveva la rappresentazione: “Una vampira vive in una grotta vicino a una palude. Tentato da un fuoco fatuo e incantato dal profumo di una rosa avvelenata, un giovane artista si avvicina alla grotta, ma fugge spaventato alla vista della vampira. Lei esce dalla grotta ed esegue una danza che eccita i sensi, finché l’artista non trova il coraggio per avvicinarsi di nuovo. La figura demoniaca lo ammalia e alla fine gli si avventa addosso e lo soffoca. Lui si libera e la allontana, ma lei alla fine riesce ad attirarlo nella grotta usando il suo velo magico. La scena, che per un momento diventa buia, mostra poi un’immagine emozionante. Immersa nella luce della luna, la vampira si china sull’artista immobile, gli succhia la vita con un bacio appassionato e poi lo getta negli abissi” (“Leipziger Tageblatt”,  16 aprile 1910).

La danza della vampira in Germania: poster per lo spettacolo del 1910

La vampire dance arriva anche in Australia, dove i giornali avevano dato ampio risalto alle prime rappresentazioni americane e londinesi, descrivendo lo spettacolo con indignazione per la decadenza, la nudità e l’assenza di vergogna. Secondo l’“Express and Telegraph” di Adelaide (8 gennaio 1910), il momento della seduzione nel corso del balletto “ha tanto a che vedere con la danza, quanto il Vesuvio con il Polo Nord”. “The Bulletin” (27 gennaio 1910) dava anche una colorita descrizione della danza: “È l’ultima importazione dagli Stati Uniti e la sua caratteristica principale è una donna che volteggia in costume succinto e trasparente, scarlatto e nero. Ruota con sinuosi e vibranti volteggi da serpente attorno a un personaggio maschile che è troppo affascinato per andarsene o resistere. Può solo fissare quella forma vorticosa che sembra un’alta fiamma dissipata e piegata dal vento. Il turbine si fa sempre più veloce, fino a che la vampira si avvicina abbastanza da avviluppare la vittima. Lei lo morde con il suo morso fatale e lui crolla lasciando le sue spoglie mortali”.

Agli spettatori australiani, la “danza della vampira” non doveva dispiacere, se qualche mese dopo, nell’aprile 1910, la Edison Records incise un disco di due minuti con un brano intitolato Dance of the Vampires, eseguito dallaNational Military Band. Nel 1911 la Clarke and Meynell’s Dramatic Company portò in tour per l’Australia A Fool There Was di Porter Emerson Browne e alla fine anche la vampire dance approdò nel Nuovissimo Continente. Nina Speight, nata in Australia, diventa nota in patria come modella e intorno al 1915 ha un grande successo con la sua The Vampire Dance nei teatri di vaudeville, identica alla versione di Eis e French. Secondo il giornale australiano “The Lone Hand” (1 ottobre 1917) la “danza della vampira” minò l’equilibrio psicofisico della Speight: “La tensione che provava per la sua potente interpretazione si dimostrò troppo grande per la sua salute”, tanto che per quel motivo nel 1916 abbandonò le scene e si trasferì in America per cercare fortuna nel cinema (ha recitato in vari film di Harold Lloyd).

La vampira di Nina Speight (da “The Lone Hand”, 1 maggio 1916)

La Vampire Dance, dunque, aveva varcato i continenti, ma a poco a poco perdeva le sue attrattive, abdicando in favore delle vamp cinematografiche. Ciò non toglie che anche in America il fenomeno proseguisse con vari interpreti. Si ha notizia, ad esempio, di una Vampire Dance con Mae Murray, in procinto di diventare una star del cinema muto, sotto la guida di Julian Mitchell, nome di punta delle Ziegfeld’s Follies e già vittima della vampira Louise Alexander nelle rappresentazioni del 1910. Nel 1919 Vera Michelena, che nove anni prima era stata partner di Joseph C. Smith nello stesso ballo, si esibisce in una Vampire Dance con Fred Hillebrand nel musical Take It From Me. Lei interpreta una regina del cinema che seduce un giovanotto, come le “vampire” del grande schermo. Sono gli ultimi fuochi della “danza della vampira”, soppiantata dal cinema e dalle sue vamp dopo il successo di Theda Bara. Qualche spettacolo di varietà continuò a presentare la Vampire Dance, fino all’ultima propaggine negli anni Cinquanta come intrattenimento nei locali, spesso ridotta alla sola protagonista femminile in abiti succinti.

Vera Michelena “vampira” in Take It From Me (1919)

Due “vere” vampire

Due interpreti della vampire dance nei teatri di inizio Novecento si sono rivelate molto simili, per certi aspetti, al personaggio della Vampira che interpretavano nei balletti. Sono Louise Alexander e Teddie Gerard, entrambe note come “vampire” delle danze da vaudeville.

Esattamente un anno dopo la sua vampire dance con Joseph C. Smith, nel giugno 1910 Louise Alexander è in Ziegfeld’s Follies of 1910, dove il balletto ha titolo A Fool There Was, richiamando esplicitamente tanto la poesia di Kipling quanto lo spettacolo teatrale di Browne. Il partner della Alexander è Julian Mitchell che già aveva curato le coreografie per le danze di Louise in Miss Innocence, a Chicago.

La Alexander, vero nome Jeanne L. Spaulding, si era sposata nel 1908 con Lewis Strang, celebre pilota automobilistico, promettendogli di lasciare il palcoscenico. Ovviamente la promessa non fu mantenuta e Louise si dedicò alla vampire dance. Ne seguì la separazione, ma soprattutto un evento giudiziario che nel 1910 occupò varie pagine di cronaca sui giornali. La moglie di Julian Mitchell, anche lei ballerina, aveva chiesto il divorzio e in tribunale fece il nome proprio della Alexander come una delle amanti di suo marito. La stampa non perse la ghiotta occasione di ricordare l’identificazione tra la Alexander e la Vampira.

Pochi mesi dopo, nel 1911, Strang muore in un incidente stradale che il gossip interpretò come suicidio. Insomma, la vampira Louise aveva distrutto il matrimonio del suo partner sulla scena (anche se in seguito Mitchell e la moglie si riappacificarono) e il suo ex marito era andato incontro a una fine tragica.

Louise Alexander (da “Minneapolis Star-Tribune”, 17 luglio 1910)

Ancora più vampiresca la biografia di Teddie Gerard, nata in Argentina nel 1892. Si chiamava in realtà Thérése Théodora Gerard Cabrié e diventò nota sulle scene anche come Teddy Gerard, Terrie Gerrard, Theodora Gerard o Girard. Negli anni della sua popolarità nei teatri era soprannominata “La Belle Théodora” a Parigi e “Teddie the Great” a Londra.

Da giovanissima, come racconta Alva Johnston (The Legendary Mizners, Farrar, Straus and Young, New York 1953), era entrata nelle grazie dei commediografi George Bronson-Howard e Wilson Mizner, oltre che di un innominato scrittore di famosi polizieschi. I tre pigmalioni “istruirono la ragazza, ne corressero la dizione, ne raffinarono la personalità e la avviarono alla carriera teatrale”. Mizner e Bronson-Howard, con la passione per l’oppio, la incaricavano di preparare la sostanza per poterla fumare. Quando la ragazza lasciò il trio di uomini per calcare le scene, Bronson-Howard non prese bene l’abbandono. Nell’agosto 1909, mentre l’attrice era impegnata a Broadway nella commedia musicale Havana, Bronson-Howard si presentò a casa sua per riprendersi un anello con diamante che le aveva regalato e la minacciò con un coltello. Per tutta risposta, Teddie lo fece arrestare. Quando Bronson-Howard fu perquisito alla stazione di polizia si scoprì che nascondeva un lungo pugnale: lui sostenne che era di Teddie e che lo aveva preso perché l’attrice minacciava di usarlo per uccidersi. Mizner pagò la cauzione e Bronson-Howard tornò libero.

Al processo, Miss Gerard si presentò in tribunale con un vestito da sera nero ornato di piume e una preziosa collana di diamanti con pendant a forma di cuore, senza però riuscire a convincere i giudici. Bronson-Howard fu scagionato per il furto dell’anello, ma le sue disavventure non finirono. Restò sotto accusa per il coltello che portava con sé al momento dell’arresto e nel maggio 1910 fu nuovamente arrestato a Baltimora per decadenza della cauzione. Inoltre per vendicarsi del giudice aveva dato lo stesso nome del magistrato a un personaggio negativo di un suo romanzo, ottenendo così una querela. Caduto in depressione durante la Prima guerra mondiale, Bronson-Howard nel 1922 si uccide con il gas.

Teddie, invece, dopo la vicenda giudiziaria proseguì la sua carriera, interpretando la Vampire Dance a Parigi nel novembre 1909. Proprio nei giorni in cui ballava la danza della vampira, una sera da Maxim’s si sentì disturbata dagli sguardi di un russo e gli spaccò un bicchiere in faccia.

Teddie Gerard in posa da donna fatale e un articolo del “Los Angeles Times” (15 luglio 1912)

Nel 1910. a Londra, Teddie Gerard diventò amante dell’estroso milionario Edward Russell Thomas e quando l’anno dopo tornò in America sostenne nelle interviste di essere stata “la prima a presentare la Vampire Dance che appassionò l’Europa diversi mesi fa” (“The New York Press”, 6 marzo 1911). La attendeva però una vicenda quasi identica a quella che coinvolse Louise Alexander: nel 1912 la moglie di Thomas chiese il divorzio puntando il dito sulla “vampira” che a suo dire aveva distrutto il loro matrimonio. I giornali potevano così replicare, come per la Alexander, gli accostamenti tra il personaggio vampiresco sulla scena e la realtà: Il milionario, la moglie e la ballerina “vampira” titolò ad esempio “The Evening World” (20 marzo 1912).

Negli anni successivi la Gerard fu una star minore di Broadway, molto seguita dalla stampa scandalistica per le innumerevoli avventure amorose con aristocratici russi, ungheresi e britannici. Teddie Gerard recitò anche nel cinema muto ed ebbe l’opportunità di apparire con Boris Karloff in The Cave Girl (1921), nel ruolo del titolo.  Ancora nel 1926 rallegrava i party più chic, tra alcol e battute salaci, come ricorda nei suoi diari il grande fotografo Cecil Beaton (The Wandering Years: 1922-39, Weidenfeld & Nicolson, London 1961).

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 4

Le Vampire di de Vylars e Souvestre

Tra le pagine di uno dei primi testi di moderna vampirologia, The Vampire: His Kith and Kin (K. Paul, Trench and Trubner, London, 1928), il reverendo Montague Summers citava uno spettacolo che pochissimi studiosi dell’argomento hanno preso in considerazione: The Vampire, rappresentato al Paragon Theatre di Londra lunedì 27 settembre 1909.

Summers segnalava che lo spettacolo “era stato accolto molto bene” e riportava il commento di “The Stage” (30 settembre 1909): “È una piccola opera teatrale scritta magistralmente e concepita alla maniera del Grand Guignol”. Il riferimento al Grand Guignol, il teatro parigino specializzato in spettacoli violenti e macabri, non era casuale perché The Vampire era in realtà l’adattamento in inglese di un’opera teatrale andata in scena un anno prima a Parigi: Le Vampire, dramma in due atti di Mme. C. de Vylars e Pierre Souvestre. Dell’autrice de Vylars daremo conto più avanti, mentre Souvestre era uno scrittore destinato a grande popolarità e che presto diventerà celebre per il suo personaggio Fantômas, creato con Marcel Allain.

Il cast di The Vampire (da The Era Almanack and Annual 1910)

Il testo risulta perduto, ma la trama di Le Vampire può essere ricostruita grazie alle recensioni di allora (in particolare una estesa sintesi su “Comoedia”, 5 agosto 1908).

Atto primo. Christian è inconsolabile, perché convinto di aver provocato la morte della sua amante Sonia, abbandonandola: la donna, infatti, si è suicidata. Su indicazione di uno strano medico, Christian chiede allo spiritista indù Suratshin di evocare lo spirito della defunta. Suratshin acconsente, ignorando che si tratti di una suicida, dato che le regole dell’occultismo vietano di evocare chi si è tolto la vita. Una seduta spiritica evoca così lo spettro di Sonia: lo spirito predice a Christian che diventerà pazzo. Christian è ossessionato dalle parole di Sonia, perde vitalità e ragione. Jacques, un avvocato che si sente in parte responsabile per la morte di Sonia, dato che Christian l’aveva lasciata su suo consiglio, vuole salvare l’amico e liberarlo dal terrore che lo attanaglia. Si rivolge quindi a Suratshin per inscenare una nuova seduta spiritica.

Atto secondo. Jacques chiede alla giovane attrice Nelly, sua fidanzata, ma che Christian non conosce, di prestarsi a un piano per far rinsavire l’amico: durante la seduta spiritica deve indossare veli per sembrare un fantasma e apparire a un segnale di Jacques, facendo credere di essere la reincarnazione di Sonia, perdonando Christian e garantendogli che non impazzirà. Il piano è messo in atto e Christian crede davvero di avere di fronte la reincarnazione di Sonia. Colto da una folle rabbia nei confronti della donna che tanto lo ha fatto soffrire, spara un colpo di pistola a bruciapelo uccidendo Nelly, convinto che sia lo spettro di Sonia.

Come nella poesia The Vampire di Kipling, non ci sono riferimenti diretti alla sottrazione di sangue ai vivi da parte di un nonmorto. Il significato prevalente della parola “vampiro” in quegli anni si conferma quello metaforico e allusivo, lontano dalle creature leggendarie succhiatrici di sangue. Il fatto che il “vampiro” della vicenda sia di sesso femminile si inserisce certamente nella moda delle donne fatali lanciata dalla poesia The Vampire, ma si accentuano gli elementi soprannaturali, sostanzialmente assenti in Kipling, perché la donna che porta alla rovina un uomo è una defunta tornata dalla morte grazie a una seduta spiritica. La caratteristica più originale del testo teatrale era di unire spiritismo e vampirismo, con la figura di un medium che mette in contatto con i morti. Come vedremo tra poco, il connubio spiritismo-vampirismo si deve alla coautrice de Vylars, direttamente interessata alle teorie spiritiste, ma non va dimenticato che il testo teatrale prendeva origine da un breve racconto dell’altro autore, Souvestre, intitolato Soirée dans le Monde e apparso su “Comoedia” il 10 febbraio 1908. Il racconto contiene alcuni dei personaggi e delle situazioni di Le Vampire, senza la figura dello spiritista indù. Il russo Dimitri soffre di allucinazioni in cui gli appare la fidanzata Sonia da poco defunta: “La rivide una sera, minacciosa, vendicatrice e si immaginò che gli dicesse: ‘Infame Dimitri, tu mi hai tradita!’. (…) Ormai la vedeva ogni notte, non importa dove, al ristorante, al ballo, a casa…”. Nel racconto, è il fratello di Dimitri a reclutare l’attricetta Nelly Roval per fingersi il fantasma di Sonia, ma la conclusione è simile a quella del testo teatrale: Dimitri crede di avere di fronte lo spettro e uccide Nelly con un coltello.

Si può aggiungere che Souvestre all’epoca era in procinto di pubblicare il suo primo romanzo, scritto con Marcel Allain, Le Rour (uscirà come feuilleton tra gennaio e marzo 1909 e in volume a maggio), che contiene alcune suggestioni vampiresche: il diabolico dottor Wumpt ha inventato ali da pipistrello che gli permettono di volare (si notano nell’illustrazione della copertina originale) e vuole creare un essere femminile artificiale dotato di immortalità.

La copertina di Le Rour e una recensione di Le Vampire su “Comoedia” (2 agosto 1908)

Se oggi Le Vampire pare completamente dimenticato, oltre che ignorato dalla saggistica recente sui vampiri, alla sua comparsa sui palcoscenici fece sensazione e la sua notorietà si prolungò per anni, tanto che Ernest Jones, nel suo fondamentale On the Nightmare (Hogarth Press, London 1931; trad.it. Psicoanalisi dell’incubo, Newton Compton, Roma 1978), citava Le Vampire di de Vylars e Souvestre tra i testi fondamentali a tema “necrofilo”, accanto a Justine di D.A.F. de Sade e Le Vampire di Charles Baudelaire.

Quando lo spettacolo Le Vampire fece il suo esordio al teatro parigino Little-Palace nell’agosto 1908 suscitò grandi emozioni. “Nonostante il periodo e le numerose partenze per le località marittime, una folla elegante si è accalcata, ieri sera, nella graziosa sala di rue de Douai”, scriveva “L’Auto-vélo”, giornale al quale collaborava Souvestre, appassionato di automobilismo. Lo spettacolo era definito “tra i più eclettici” e “degno di lodi”, un “dramma occulto” che si era rivelato il grande evento della serata: “I due atti toccanti del Vampire hanno fatto rabbrividire a volontà il pubblico. Tutta Parigi vorrà vedere quest’opera che provoca emozioni supreme” (2 agosto 1908). Aggiungeva “Le Triboulet” (9 agosto 1908): “Questo dramma ben strutturato ed efficace ci ha fatto passare qualche momento pieno d’angoscia”. Il giornale radical-socialista “Le Radical” (7 agosto 1908) si sperticava in elogi, affermando che lo spettacolo “ha ottenuto il massimo successo che si possa immaginare, perché era contemporaneamente un successo di curiosità, un successo di emozione e un successo d’arte”. Gli interpreti, raccontava il giornale, sono stati applauditi a lungo alla fine di ogni atto e l’attrice Magda Maguéra nella parte di Nelly “ha fatto attraversare la sala da un immenso brivido di spavento quando, colpita in pieno cuore da un proiettile sparato dall’infelice impazzito, crolla all’improvviso: non si potrebbe unire meglio la cura per il verosimile con quella per l’estetica”. Non mancavano gli apprezzamenti per la coautrice: “Mme de Vylars ha messo la sua conoscenza approfondita delle scienze occulte al servizio del dato pittoresco fornito da quell’eccellente narratore che è Pierre Souvestre”.

Anche la versione inglese del 1909, The Vampire, ebbe successo, tanto che tornò sul palcoscenico sei anni dopo, il 16 agosto 1915, al Garrick Theatre di Londra durante una affollata rassegna estiva di Grand Guignol. Dalle recensioni dell’epoca, parrebbe che nell’adattamento per il pubblico inglese sia stato modificato il finale. Nell’originale francese tutto si conclude con la morte della giovane attrice, mentre nella versione londinese l’assassino è a sua volta ucciso dall’amico. Nell’allestimento londinese cambiano anche alcuni nomi dei personaggi: Christian diventa Harry Le Strange, Jacques diventa Jack Harringer, Nelly diventa Olga, solo Sonia e Suratshin mantengono lo stesso nome.

L’adattamento e la traduzione per il pubblico britannico erano di un uomo di teatro che dedicò molti anni al progetto di importare in Inghilterra il successo del Grand Guignol. Si tratta di José G. Levy che inizialmente riuscì a rappresentare opere grandguignolesche in varie sale, gestendo poi dal 1920 il Little Theatre di Londra e trasformandolo in un punto di riferimento per gli appassionati del Grand Guignol. Era stato lo stesso Levy ad adattare in lingua inglese L’Angoisse, altra opera macabra di Mme C. de Vylars, e proprio a Levy si dovrà l’allestimento teatrale, nel 1927, del Dracula di Hamilton Deane con Raymond Huntley nel ruolo del vampiro e lo stesso Deane come Van Helsing. Fu proprio quell’allestimento prodotto da Levy che fu visto da Horace Liveright, talmente entusiasta da realizzarne immediatamente una versione per Broadway, con Bela Lugosi nella parte di Dracula, aprendo un altro capitolo decisivo nella storia del vampiro moderno.

Rare immagini dall’allestimento parigino di Le Vampire

Alla scoperta della misteriosa Cilia de Vylars

Chi era Mme C. de Vylars, coautrice con Souvestre di Le Vampire? Di lei è molto difficile trovare notizie. Dietro quella C. non è chiaro quale nome si celasse. Sulla stampa dell’epoca il suo nome è riportato in svariate forme: Célia, Céline, Célier, Coelia, Ceylia, Cilia, Cilla, Cylia, Lilia, Ciliade… Nei testi che scriveva per i giornali si firmava sempre Cilia e qui così la chiameremo.

Quale sia il suo vero nome è difficile stabilire, così come la sua data di nascita. Si può presumere che fosse ventenne nei primi anni del Novecento e il suo cognome fosse Ikelheimer, dato che risulta sorella di Marc Ikel, direttore di “Echos Parisiens” e membro della Association de la presse judiciaire parisienne, il cui vero nome era Marcel-Anatole Ikelheimer, nato nel 1879. Marc Ikel compare nell’elenco di ebrei attivi nelle professioni e nell’amministrazione statale (Etat Statistique des Juifs en 1914, a cura di G. de Lafont de Savines, Revue Antimassonnique, Paris 1914) e la carriera di Cilia si avviava in anni difficili per gli ebrei francesi, in un paese scosso dal caso Dreyfus, quindi si può supporre che come il fratello avesse optato per un “nome d’arte”. La scelta del cognome de Vylars rimanda a una vera famiglia di ascendenze nobiliari che a sua volta ha infinite varianti ortografiche, spesso inopinatamente applicate a Cilia dai giornali: Villar, Viller, Villier, Villiers, Villers, Villis, Villars e, appunto, Vylars. I de Vylars, in particolare, erano una nobile famiglia britannica nota almeno dal Duecento (un Nicholas de Vylars si registra in Sussex nel 1327). A quella famiglia dai tanti nomi, originati da un riferimento a località francesi, risalgono anche gli antichi nobili normanni dei Villiers de L’Isle-Adam e non si può escludere che Cilia abbia scelto il suo pseudonimo in omaggio allo scrittore simbolista Auguste de Villiers de L’Isle-Adam, autore dei Racconti crudeli (Contes cruels, 1883) e del romanzo Eva futura (L’Ève future, 1886).

Con un’attenta indagine nelle emeroteche si scopre, non senza fatica, il percorso intellettuale di Cilia, dal 1902 alla sua morte nel 1911, l’unico periodo che pare documentabile attraverso articoli e citazioni.

Le prime apparizioni del suo nome risalgono ad alcune recensioni teatrali che firma nel corso del 1902 per “La Lanterne de Boquillon”. Escono anche i suoi primi racconti, come la novella Superstition per la rivista “La Famille” e la triste favola macabra Rose fanée; coeur brisé per “Gil Blas illustré”. Avvia nello stesso periodo la sua attività di autrice teatrale con la commedia Le Suiveur, in scena al teatro Tour Eiffel da giugno a dicembre 1902, scritta con l’allora sessantenne Henri Le Verdier, prolifico autore di romanzi ambientati nel mondo vizioso di Parigi. Per l’occasione, proprio “La Lanterne de Boquillon” scrive che quella “curiosa fantasia” in un atto era “originale ed elegante come Mme Cilia de Vylars, che ne è coautrice, nostra davvero affascinante collaboratrice”. Il sodalizio tra la giovane esordiente e l’autore già affermato è molto produttivo: Cilia insieme a Le Verdier scrive tra l’altro i racconti La Torte per “Le Journal du dimanche” (28 dicembre 1902) e La bonne Etoile per “Le Petit Soleil” (21 marzo 1903), il breve pezzo teatrale sul divorzio con tre personaggi Pourquoi ils divorcent per “La Caricature” (30 agosto 1902), il romanzo Très Femme e un feuilleton, Le cercle rouge, che appare nella primavera del 1903 sul quotidiano “Le Rappel”. A febbraio 1903 aveva ripresentato Le Suiveur per un evento del quotidiano “Le Journal”, organizzando per l’occasione con Le Verdier una festa di beneficenza.

Una piccante vignetta illustra un pezzo teatrale di Cilia de Vylars e Henri Le Verdier (“La Caricature”, 30 agosto 1902)

Nel corso del 1903 Cilia scrive la pièce in un atto Fruit vert, rappresentata al Théâtre Rabelais da luglio a dicembre, e sempre a luglio firma i tre atti di Mimi Pinson (ispirati al racconto omonimo di Alfred de Musset, 1845) per il teatro Villerville, poi riproposto al Théâtre de la Bodinière nel 1904. Dello stesso 1903 è anche La Reconnaissance, un atto rappresentato al Rabelais dal 19 novembre. Nel frattempo continua a scrivere per i giornali: firma recensioni teatrali per “Le Petit Sou” e pubblica su “Le Supplément” (15 agosto 1903) la poesia erotica Volupté, una sorta di ode ai “preliminari” nei rapporti sessuali.

Dopo il sodalizio con Le Verdier trova un nuovo partner di scrittura, avviando una stretta collaborazione con Gaston Berthey, giovane giornalista destinato a diventare suo marito. Con lui firma À l’ombre de Kali, una pièce in un atto e in versi, e il testo teatrale La bonne œuvre, allestito in più riprese al teatro Nouvelle Comédie e poi nell’estate 1906 al Théâtre des Arts. In un’occasione, Cilia si improvvisò attrice per sostituire una delle interpreti, dimostrando “un felice talento e convinzione, nonostante fosse la prima volta che calcava una scena” (“Le Soir”, 17 giugno 1906).

Cilia è molto presente nel mondo culturale parigino. Sappiamo che era interessata a temi occulti e seguace dello spiritismo, molto in voga nella Francia di allora e diventato dottrina filosofica grazie alle teorie di Allan Kardec, ma non ci sono testimonianze dettagliate su questo suo interesse. Più evidente, invece, il suo legame con ambienti socialisti e femministi.

Il 7 marzo 1905 tiene una conferenza in cui auspica “una maternità volontaria e ragionata”, nella sede della loggia massonica “La Raison Triomphante” nota per l’appoggio alle istanza femministe. È inoltre sostenitrice della rivista “Carnet de la femme” promossa dalla Contessa Marcelle Weissen-Szumlanska, archeologa ed etnologa.

Le tematiche sociali emergono anche nel suo testo Dans la Boue, “studio dei bassifondi parigini”, rappresentato nel giugno 1906 al Théâtre-Municipal. Nello stesso mese pronuncia un discorso a un evento dell’associazione di beneficenza “Dotation des mères françaises” dove analizza i rapporti tra famiglia e società. Frequenta inoltre il cenacolo intellettuale della rivista “Le Grillon”, mensile “littéraire et satirique” diretto da Edmond Teulet, poeta e chansonnier. L’impegno di Cilia si evidenzia infine nel breve poema drammatico a tema esplicitamente sociale Vers la Force (Lafolye, Vannes 1905), scritto con Gaston Berthey e più volte rappresentato nel 1907: due operai discutono della loro condizione, uno ha scelto di dimenticare i suoi problemi ricorrendo all’alcol, l’altro non rinuncia a lottare per i suoi diritti, restando fedele a un ideale. Entrambi sono destabilizzati da un’operaia che lamenta di essere dimenticata da loro: “Sopporto, più ancora di voi, le iniquità sociali”. I due operai la invitano a unire le forze tra sfruttati: “Vieni con noi, vieni a far sentire la tua voce, e dalle nostre miserie unite e solidali creeremo una nuova forza”.

La scena cruciale di L’Angoisse in una vignetta da “Comoedia” (23 febbraio 1908)

Il successo al Grand-Guignol

Quella parentesi di attivismo radicale e femminista sembra chiudersi quando, nel 1908, arriva finalmente un notevole successo teatrale grazie al testo che rimarrà il più famoso nella breve carriera di Cilia de Vylars, L’Angoisse, firmato con Pierre Mille e in scena il 20 febbraio 1908 al Théâtre du Grand-Guignol di Parigi.

Così “Comoedia” (23 febbraio 1908) riferisce della prima al Grand-Guignol: “Ecco la bellissima Cylia de Vylars, responsabile di L’Angoisse, suo complice Pierre Mille. Anche lei sembra in grande angoscia, la bella Cylia, e ritrova un po’ di calma solo per mormorarmi all’orecchio: ‘Sapete, sono felice: a Mendès [Catulle Mendès, influente scrittore di quegli anni] è piaciuta molto’”.

La trama di L’Angoisse evocava Edgar Allan Poe. Uno scultore allestisce il suo atelier nello studio che era appartenuto a un collega americano, sparito nel nulla. Ogni sera le lampade si spengono misteriosamente e strane presenze ossessionano lo scultore. Una giovane modella, medium senza saperlo, cade in trance e racconta ciò che è avvenuto in quei locali: l’artista americano aveva ucciso la moglie a martellate e sigillato il corpo in un blocco di gesso, ancora abbandonato in un angolo dello studio. “È là!”, urla la ragazza. Lo scultore rompe il blocco di gesso e trova al suo interno il cadavere mummificato.

Lo spettacolo sarà riproposto nel luglio 1914, nel gennaio 1916 e ancora nel settembre 1922 (con la celebre star del Grand-Guignol Paula Maxa, “la donna più assassinata del mondo”). Poco dopo i primi successi parigini, il Grand-Guignol de Paris portò lo spettacolo a Londra, allo Shaftesbury Theatre, e nel 1912 è Jose G. Levy ad adattarlo in lingua inglese, come farà per Le Vampire, presentandolo con il titolo The Medium e riproponendolo per molte stagioni fino al 1932.

La popolarità dello spettacolo indusse Vernon Sewell, regista britannico da riscoprire, ad acquistarne i diritti e a girare ben quattro film ispirati a L’Angoisse: il cortometraggio The Medium (1934), i film Latin Quarter / Frenzy (L’amante della morte, 1945) e Ghost Ship (1952), infine l’episodio televisivo House of Mystery (1961) della serie “Kraft Mystery Theater”. Sewell, ricordiamo, ha diretto un film vampiresco con Peter Cushing, The Blood Beast Terror (Mostro di sangue / Una bestia vestita di sangue, 1968), dove una donna si trasforma in un mostruoso lepidottero ematofago, promosso con lo slogan “The blood lust of a frenzied vampire!!” (La brama di sangue di uno sfrenato vampiro!!).

Poster per il film di Vernon Sewell tratto da L’Angoisse

La buona accoglienza di L’Angoisse e il tema “orrorifico” portano pochi mesi dopo Cilia ad avventurarsi nuovamente nel genere con Le Vampire, in scena al Little-Palace dal primo agosto 1908 e scritto con Pierre Souvestre, ennesimo e prestigioso coautore. Mentre Le Vampire e L’Angoisse mietevano successi, Cilia continua a produrre. Il 17 giugno 1908 la sua poesia L’Eternelle Prostitute è letta in una serata letteraria e teatrale al Nouveau Théâtre d’Art.

Prosegue inoltre la collaborazione dell’autrice con il teatro Little-Palace, scrivendo il balletto Ivanowska in scena a settembre. “Comoedia” (3 settembre 1908) saluta i brividi d’orrore regalati al pubblico e gli applausi trionfali: “Mme C. de Vylars eccelle nelle situazioni drammatiche di una spaventosa semplicità, tanto più atroci quanto più sono semplici”.

Lo spettacolo narra la storia di una ballerina che versa del veleno nella coppa del governatore Potenief, beve da quella stessa coppa per sviare i sospetti e danza perdutamente, torturata da atroci sofferenze, comunque con il sorriso alle labbra, fino a che il tiranno beve infine a sua volta e muore. “La Vie théâtrale” (25 settembre 1908) scrive che Ivanowska “ci permette di applaudire una nuova forma del talento di questa autrice tanto affascinante. Vi ritroviamo il segno potente dell’Angoisse e del Vampire”.

L’inquietante balletto Ivanowska (da “La Vie théâtrale”, 25 settembre 1908)

Nel 1909 Cilia, in qualità di poetessa, ha l’onore di alcune pagine di apprezzamento da parte di Jules Bertaut, critico letterario di grande prestigio. Nel suo libro La littérature féminine d’aujourd’hui (Librarie des Annales, Paris 1909), Bertaut scrive: “Vorrei citare una giovane donna, Mme Cylia de Vylars, che ha già mostrato felici disposizioni per la scena e che avrà successo, ne sono certo, perché ha saputo svincolarsi da un femminilismo eccessivo. Del resto, basta sfogliare le sue poesie per capire che tende verso la poesia baudelairiana, verso la poesia di idee e non solamente verso un semplice connubio di parole, di epiteti e di sensazioni”. Per avvalorare le sue tesi, Bertaut riportava varie strofe di una poesia di Cilia, La Gloire, dove la gloria diventa una sorta di vampiro che porta alla distruzione morale chi ne è alla ricerca, straziando chi non la ottiene.

Uno stringato trafiletto su “L’Éclair” del 31 dicembre 1909 (notizia poi ripresa da “Le Figaro” l’8 gennaio 1910) annuncia: “J. H. Rosny aîné e Mme Cilia de Vylars stanno terminando una pièce in tre atti dal titolo Les Enlisés”. Dopo Le Verdier, Berthey, Mille e Souvestre, forse Cilia aveva trovato un nuovo partner intellettuale in Rosny, grande scrittore del fantastico e pioniere della fantascienza moderna. Purtroppo il progetto non risulta mai concretizzato, ma sarebbe stato interessante assistere alle creazioni in tandem dell’autrice di Le Vampire e del futuro autore di La jeune vampire(1920).

Il 4 novembre 1910 Cilia sposa Gaston Berthey. Dopo il matrimonio la sua attività creativa sembra svanire, forse per gravi problemi di salute. Vive nel cuore di Parigi, a rue de la Rochefoucauld, ma il suo nome non compare più nei teatri o sulla stampa. Si riparla di lei solo sabato 8 luglio 1911, in un necrologio del giornale “Le Rappel”: “Si annuncia la morte di Madame Gaston Berthey, in letteratura Cilia de Vylars, sorella del nostro collega Marc Ikel della cronaca giudiziaria. Le esequie saranno celebrate venerdì. Ci si riunirà al colombarium del Père-Lachaise. Cilia de Vylars ha collaborato a numerosi periodici e il teatro del Grand-Guignol ha rappresentato con successo un atto drammatico che aveva firmato con Pierre Mille”.

Gaston Berthey sopravvive a lungo alla moglie. Si stabilisce nel 1926 al Cairo, come corrispondente del giornale “Le Matin”, viaggia in Brasile e scrive per riviste brasiliane, collabora nel 1930 a “Le Journal des débats” e prosegue la sua vita in Egitto con una nuova e giovane moglie, giornalista. Gaston continuò a dedicarsi alla scrittura: legge i suoi versi nel maggio 1945 a un evento degli Amis de la Culture Française en Egypte, pubblica il romanzo Une vie atatons (Éditions de la Revue du Caire, 1948). Nel 1926 aveva dato un ultimo omaggio a Cilia, organizzando una recita al Cairo della pièce poetica che avevano scritto insieme, À l’ombre de Kali: a interpretare il poema furono due famosi attori francesi che si trovavano in tournée in Egitto, Henri Rollan e Véra Sergine, quest’ultima, va segnalato, madre di Claude Renoir che sarà direttore della fotografia per il film vampirico di Roger Vadim Il sangue e la rosa (1960).

Una scena da L’Angoisse (“Le_Monde_illustré”, 14 marzo 1908)

Cilia e gli Spiriti

Più di vent’anni dopo la morte, Cilia de Vylars torna a manifestarsi, come uno spettro, in un articolo scritto da quel Pierre Mille che aveva firmato con lei L’Angoisse. Giornalista, saggista e romanziere, Mille era stato anche incaricato governativo nel Madagascar. La sua penna salace si dedica nel 1934 a un articolo sarcastico, dove enuncia tutto il suo scetticismo verso i fenomeni soprannaturali e ricostruisce con accenti cinici e distaccati la sua collaborazione con Cilia de Vylars (Des rapports du Spiritisme avec le théâtre, “Le Temps”, 1 aprile 1934).

Mille torna al lontano 1907 quando, mentre è indaffarato nel suo studio, gli viene annunciato che alla porta c’è una dama intenzionata a incontrarlo. Nel biglietto da visita c’è il nome sconosciuto “Mme C. de Vylars”.

“Era una donna molto piccola e magra, con un grande naso”, scrive Mille (ma sappiamo che altri articolisti dell’epoca la definivano “bellissima” e “affascinante”). La donna avrebbe spiegato con queste parole il motivo della sua visita: “Monsieur, sono malata, molto malata. Condannata a morte. Mi sostengono solo con del siero di sangue di capra. Sto per morire, ma non mi importa, perché sono spiritista. E gli Spiriti mi hanno detto: ‘Prima di morire, avrai un giusto motivo di gioia e di fierezza perché scriverai un testo teatrale in collaborazione con Pierre Mille e quella pièce sarà portata in scena!’”.

Mille nel suo articolo racconta di averla creduta folle: “Sono sempre molto cortese con i folli, non li contrario mai, perché ne ho paura”. Così, per timore delle sue reazioni, accettò la proposta anche se, pur già affermato scrittore, non aveva mai avuto nessun desiderio di cimentarsi con il teatro. Cilia disse che gli Spiriti le avevano indicato anche il soggetto della pièce, un breve racconto dello stesso Mille, La peur.

Tre settimane dopo Cilia si presentò con un manoscritto, due atti intitolati L’Angoisse. Mille si limitò a qualche aggiustamento e quando il testo parve definitivo, Cilia disse: “L’ho letto agli Spiriti. Ne sono contenti, molto contenti. Sapete, amano che si parli di loro. E mi hanno detto che il signor Choisy, direttore del Grand-Guignol, non ha niente in questo momento per la sua stagione e quindi prenderà certamente questo testo, se andate a portarglielo voi stesso”.

Lo scrittore esegue, ma Choisy lo accoglie con freddezza. Mille credeva che il progetto fosse fallito, però quindici giorni dopo viene invitato alle prove dello spettacolo, in procinto di andare in scena. Mille non rimase favorevolmente impressionato e apprese poi con grande stupore che lo spettacolo era stato un grande successo e che nel pubblico si erano verificati vari malori per il terrore. I due autori dell’opera ricevettero una cospicua somma per il testo teatrale, ma tra loro non ci furono più contatti. Mille apprese solo dai giornali, tre anni dopo, della morte di Cilia.

Nel 1915 un’altra sorpresa: Mille riceve la somma del tutto imprevista di svariate migliaia di franchi per i diritti di L’Angoisse, grazie alla traduzione in inglese destinata alla versione da rappresentare in Gran Bretagna e in America. Sapeva di dover dividere gli introiti con gli eredi della sua coautrice, ma non aveva nessun recapito o contatto e ignorava che fosse sposata (“nessuno sapeva niente di lei”, sottolinea).

Due anni dopo, nel 1917, ecco un’altra visita inattesa nella sua abitazione. È un uomo che vuole conoscere lo scrittore perché sa che aveva collaborato con la sua defunta moglie. Si tratta di Gaston Berthey, di passaggio a Parigi dopo un viaggio dalla sua residenza egiziana.

Per quanto vedovo ormai da sei anni, Gaston parla con affetto della moglie, definendola una donna geniale e una sposa incomparabile. “Ma non importa”, aggiunge quasi con le stesse parole di Cilia nella sua prima visita a Mille, “sono spiritista e continuo a parlare con lei. Anche lo Spirito è rimasto in comunicazione quotidiana con lei, il cui genio si è ulteriormente accresciuto da quando si è disincarnata”.

Il racconto di Mille continua, con un distacco ironico quasi irritante. “Per caso gli Spiriti, e quello di Madame in particolare, vi hanno fatto sapere che io vi devo del denaro?”, chiede lo scrittore al vedovo. Alla risposta negativa di Gaston, Mille gli firma un assegno per saldare la parte di diritti per L’Angoisse che spettavano alla moglie.

La storia raccontata da Mille può essere certamente fantasiosa, se non inventata, ma contiene diversi elementi che hanno riscontri e comunque fornisce un ritratto unico di Cilia de Vylars. Scrittrice, poetessa, autrice teatrale e spiritista, la storia del vampiro moderno deve qualcosa anche a lei, caduta nell’oblio.

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 3

Porter Emerson Browne: la Vampira a teatro

Il quadro di Philip Burne-Jones The Vampire e la poesia omonima di Rudyard Kipling dovevano rinfocolare la loro popolarità nel 1909, grazie a uno spettacolo teatrale e a un romanzo, entrambi firmati dall’americano Porter Emerson Browne (ma come vedremo in articoli successivi, grazie anche a dei balletti e al cinema). Con l’arrivo a teatro, la figura della Vampira si concretizza per la prima volta davanti agli occhi del pubblico, accanto alla visione del decadimento fisico e morale delle sue vittime.

Nel 1907 l’attore Robert Hilliard, all’epoca idolo del teatro popolare, alto, soprannominato “Handsome Rob” (Rob il bello) e noto per la voce baritonale, propone a Porter Emerson Browne, giornalista ventottenne e aspirante scrittore, di creare un testo teatrale ispirato al quadro di Burne-Jones e alla poesia di Kipling. Nasce così A Fool There Was, con un titolo che riprende alla lettera l’incipit della poesia The Vampire.

Agente di borsa prima di diventare attore, Hilliard si impegna finanziariamente nel progetto e si accorda con il produttore Frederic Thompson, esperto di spettacoli a sensazione, creatore dei primi parchi dei divertimenti. A Fool There Was diventa così un evento destinato a grande successo di pubblico. Il 18 e 19 marzo 1909 va in scena all’Harmanus Bleecker Hall di Albany, poi seguono altre tappe nel New England fino all’esordio newyorchese, al Liberty Theatre, il 24 marzo. Le repliche a Broadway continueranno ininterrottamente fino a giugno, con un centinaio di rappresentazioni.

Foto da un opuscolo promozionale per A Fool There Was

Il testo teatrale in tre atti di due scene ciascuno non risulta conservato, ma è possibile ricostruirne i passaggi fondamentali grazie alle recensioni di allora. I nomi degli interpreti, qui di seguito, sono quelli delle prime rappresentazioni del 1909, poi in gran parte sostituiti da altri attori e attrici negli allestimenti successivi.

Primo atto, prima scena. John Schuyler (Robert Hilliard), un americano benestante in carriera diplomatica e con una famiglia felice, comunica alla moglie (Nannette Comstock) e alla figlioletta (Emily Wurster) che sta per partire: resterà lontano un mese per un’importante missione su incarico governativo.

Seconda scena. Sulla nave che deve portare Schuyler in missione. A bordo sale una donna (Katherine Kaelred), la Vampira, bella ed elegante, con un bouquet di rose. “Una donna bellissima, alta, flessuosa e languida, con le labbra rosse e i fianchi snelli che si muove ondeggiando come un serpente” (“Newark Evening Star”, 21 gennaio 1911). La donna è avvicinata da un giovane emaciato e nervoso, Parmalee (Howard Hull), che litiga con lei e la minaccia con una pistola. La vampira sorride e gli dice dolcemente: “Baciami, stupido mio”. Il giovane si punta la pistola alla testa e si spara. Appena il corpo è portato via, la Vampira si siede soddisfatta su una sdraio nello stesso punto dove il giovane è morto. Entra in scena Schuyler, accompagnato dai suoi familiari e dall’amico Tom (William Courtleigh) che vogliono salutarlo prima della partenza. In quel momento Schuyler nota la Vampira e ne è subito talmente attratto che non dà alcun peso alla notizia del suicidio di un giovane a bordo, limitandosi a sorridere recitando a Tom dei versi dalla poesia di Kipling. Quando i familiari lasciano la nave, la Vampira avvicina Schuyler e lo seduce.

Secondo atto, prima scena. Nel roseto della loro casa la signora Schuyler soffre per l’assenza del coniuge, ma sua sorella e Tom hanno appreso da una lettera che l’uomo ha rinunciato al suo incarico politico ed è in viaggio con la Vampira. Seconda scena, nella biblioteca della casa dove ora Schuyler vive da solo, lasciato dalla moglie, un mese dopo. Beve, è angosciato. L’amico Tom (che ama segretamente la moglie di Schuyler) lo scongiura di lasciare l’amante. Schuyler fa un tentativo di separarsi dalla Vampira, ma lei lo persuade del contrario ripetendo anche a lui “Baciami, stupido mio”.

Terzo atto. Un anno dopo, sempre nella biblioteca. Disordine, specchi rotti, bottiglie e bicchieri dappertutto. Tom fa un ultimo tentativo per riportare Schuyler alla ragione, ma lo trova in stato confusionale convinto di vedere le precedenti vittime della Vampira e di parlare con loro. Tom cerca invano di scuoterlo, arrivando a picchiarlo. Gli getta un bicchiere d’acqua in faccia e Schuyler si riprende, piange e sotto gli occhi di moglie e figlia promette di rompere con l’amante. Schuyler si sta apprestando a tornare dalla sua famiglia, quando la Vampira gli comunica che è stanca di lui e vuole lasciarlo. “Prima che ci separiamo, baciami, stupido mio!”, gli dice. Furioso, Schuyler tenta di strangolarla, ma è colto da malore e muore. Lei si ricompone e ridendo lascia cadere petali di rosa sul corpo di Schuyler. Sipario.

La coreografia dell’ultima scena era studiata per evocare il quadro di Burne-Jones, con la vampira vittoriosa che incombe sul cadavere dell’uomo. Niente lieto fine, la donna fatale e trasgressiva trionfa.

Pubblicità per lo spettacolo A Fool There Was

Browne dà un’identità al “fool” della poesia di Kipling. Ne fa un uomo d’affari e diplomatico, al servizio addirittura del Presidente americano. Il tema del maschio vulnerabile ai richiami della carne, tanto da farsi dissanguare economicamente e distruggere fisicamente da una Vampira, aveva ancora grande presa sul pubblico e al successo di A Fool There Was contribuì la sontuosa messa in scena. Il produttore Thompson aveva investito su scenografie che lasciavano incantato il pubblico, come la ricostruzione della nave, con una folla di comparse, o il giardino di casa Schuyler. Per le rappresentazioni serali faceva arrivare in teatro centinaia di rose rosse e agli spettatori era consegnata insieme al programma una copia della poesia di Kipling, con la riproduzione del quadro di Burne-Jones. Le rose rosse erano un tratto distintivo della Vampira: le ha con sé sulla nave, ne lascia cadere i petali sulla sua vittima, come gocce di sangue. La Vampira spiega nel corso della rappresentazione che ci sono due tipi di amore: uno come la rosa bianca, pallida e fredda, l’altro come la rosa rossa.

Gli interpreti si rivelavano ben scelti. A parte Hilliard, già famoso e ammirato, fa scalpore l’attrice inglese Katharine Kaelred nel ruolo della Vampira (che non è mai indicata con un nome proprio). Anche se i giornali prestarono maggiore attenzione al protagonista principale interpretato da Hilliard, non mancarono le lodi per la Kaelred, prima incarnazione di quella Vampira che prenderà poi il volto di numerose attrici sullo schermo cinematografico. Nelle recite newyorchesi si fa notare anche la breve apparizione di Howard Hull nella parte del giovane che si uccide a causa della Vampira. Per la cronaca, l’attore era fratello di Henry Hull, futuro licantropo in Werewolf of London (Il segreto del Tibet, 1935).

Il quadro di Burne-Jones e la poesia di Kipling utilizzati per pubblicizzare lo spettacolo teatrale

A Fool There Was ottenne gli apprezzamenti del “New York Times” e di gran parte della critica, con importanti eccezioni come “The Evening Post” (25 marzo 1909) che lo stronca senza appello, definendolo “fallimentare” e sciorinando una serie di definizioni negative: “sensazionalista”, “stravagante”, “zuccheroso”, “imitativo”, fino a un attacco diretto all’autore, al quale mancherebbe “l’ispirazione sia del pittore [Burne-Jones] che del poeta [Kipling]”.

Il pubblico, però, premiava A Fool There Was e dopo le rappresentazioni a New York iniziò un tour per gli Stati Uniti. Il cast cambia completamente, solo Hilliard mantiene il suo ruolo nello spettacolo. In particolare, la parte della Vampira va a Bernice Golden Henderson (morirà nel 1913, a trent’anni) e poi a Virginia Pearson, giovane attrice che in breve diventerà una diva del cinema muto girando una cinquantina di film. Dudley Glass su “The Atlanta Georgian and News” (24 novembre 1910) la definisce “perfetta” e loda “la stretta imitazione del dipinto di Burne-Jones con le labbra rosse e il viso mortalmente bianco, le forme flessuose da serpente e le sue rose rosse”.

Curiosamente, la Pearson apparirà nel primo film interpretato da Theda Bara, The Stain (1914). Proprio il regista di quel film, Frank Powell, prese in considerazione la Pearson per interpretare la Vampira nel film della Fox A Fool There Was, ruolo che poi andò a Theda Bara stessa. William Fox la scelse comunque come uno dei volti da affiancare a Theda Bara nelle tante pellicole che riproponevano storie incentrate sulle donne fatali. Nel 1925 la Pearson recita con Lon Chaney in The Phantom of the Opera nella parte di Carlotta, la cantante lirica che il Fantasma costringe ad abbandonare le scene per lasciare il posto alla sua amata Christine. Quando il film viene aggiornato con nuove riprese per una versione sonora, nel 1929, Virginia Pearson apparirà in alcune scene interpretando anche la madre di Carlotta. Nel corso degli anni Venti, però, la sua notorietà è in crisi, con il rapido declino delle vamp cinematografiche, le sue finanze tracollano e si riduce a vivere in una piccola stanza di hotel con il marito, l’attore Sheldon Lewis.

Due interpreti della Vampira a teatro, Katharine Kaelred e Virginia Pearson

Il successo di A Fool There Was prosegue per anni. Nel 1911 lo spettacolo è ancora tanto famoso da indurre una casa discografica a incidere un disco dove Hilliard legge The Vampire e declama altre battute dal testo teatrale di Browne. “The Washington Herald” salutava A Fool There Was come “opera audace e realistica che ha scosso i newyorchesi dal loro quaresimale letargo come una improvvisa esplosione di dinamite teatrale” (12 febbraio 1911).

Nello stesso anno un giornale chiese a Robert Hilliard se donne come la Vampira del suo spettacolo, oltre che delle opere di Burne-Jones e Kipling, esistessero davvero nel mondo reale. “Ce ne sono molte”, rispose l’attore. “Donne strane che portano distruzione a qualsiasi cosa tocchino, donne che non sono bellissime (molte di loro sono insignificanti), ma che possiedono una forza di attrazione che non manca mai di incantare ovunque si diriga. Questa forza è qualcosa di impossibile da analizzare, ma può portare un uomo, per tutta la vita indifferente o insensibile di fronte alle donne più belle, a un brivido improvviso quando gli presentano determinate donne, un brivido che lo cattura e lo scuote come un terrier fa con un topo, senza lasciarlo mai fino a che la vita e i sensi sono stravolti, lasciandolo inerme, troppo tardi consapevole della propria stupidità”.

Per rafforzare le sue tesi, Hilliard citava il caso di un illustre magistrato impegnato in politica, portato alla rovina da una vampira e morto in miseria, aggiungendo: “Non credo che le donne vampiro siano delle mercenarie: non sono mai sazie d’amore. Devono possedere completamente un uomo. Poi all’improvviso, e probabilmente senza sapere perché, se ne stancano. Non amano più quell’uomo, ma la loro natura richiede amore e così ne cercano un altro… e la storia si ripete continuamente. In altre parole, la donna nota comunemente come vampira è semplicemente una versione al femminile dell’uomo di mondo” (Bob” Hilliard Tells of Vampires in Real Life, “Buffalo Evening News”, 13 marzo 1911).

Nel 1912 Hilliard è sostituito nelle recite di A Fool There Was da William L. Gibson, mentre il ruolo della Vampira va a Elsie Jane Wilson, destinata a diventare una prolifica regista e sceneggiatrice. Per un singolare sovrapporsi di rimandi tra le attrici che interpretarono la Vampira, la neozelandese Wilson era moglie del suo conterraneo Rupert Julian, in seguito regista del già citato The Phantom of the Opera. Nel 1916 Julian aveva dato alla moglie una parte da “vampira”, una donna libertina e assassina, nel suo film The Evil Women Do.

Due copertine per la canzone A Fool There Was (1913). A sinistra, negli ovali l’attore Robert Hilliard nel primo atto dello spettacolo teatrale e nel terzo, quando il personaggio è rovinato dalla Vampira

Un altro indice della duratura popolarità di A Fool There Was si ha nel 1913, quando esce una canzone dallo stesso titolo, con testo di Alexander Dubin e musica di Gustav Benkhart “dalla poesia The Vampire di Rudyard Kipling”. Le prime parole sono significative: “Una volta un poeta scrisse dei versi ed emozionò il mondo con una verità”. L’omaggio a Kipling prosegue nella descrizione del giovane che a causa di una donna rimane con “il cuore freddo e morto”. Sulla copertina dello spartito, pubblicato contemporaneamente a Filadelfia, Londra e Sydney, non mancava il riferimento al “grande successo di Robert Hilliard”. Il 78 giri della canzone aveva la voce del tenore De Los Becker. La canzone si può ascoltare a questo link: A Fool There Was.

Come spesso accade con i vampiri (la diatriba Polidori-Byron, il sequestro di Nosferatu, ecc.) i diritti d’autore furono oggetto di contese. Nel novembre 1911 Browne accusa di plagio William Schilling che aveva scritto una commedia intitolata The Vampire Fool, sostenendo che aveva “rubato” intere parti del secondo e terzo atto di A Fool There Was. Da parte sua Hilliard nel marzo 1915 porta in tribunale una ditta cinematografica che voleva produrre un film dal titolo A Fool There Was e a luglio dello stesso anno fa causa alla Fox per aver distribuito il film con Theda Bara prima della data stabilita dal loro accordo.

In quel 1915, tuttavia, la parabola ascendente dello spettacolo teatrale di Browne e Hilliard si stava concludendo. Il suo successo si era esteso ai balletti da vaudeville, come vedremo nel prossimo articolo, ma soprattutto il cinema prendeva il posto del teatro, con una serie di pellicole che culminano nel film ovviamente intitolato A Fool There Was con Theda Bara.

Cartolina postale del 1910

Il romanzo di Porter Emerson Browne

Visto il grande successo a Broadway di A Fool There Was, Browne aveva subito trasposto in romanzo il suo testo teatrale, con lo stesso titolo. La prima edizione è pubblicata nel 1909 da The H.K. Fly Company di New York, con illustrazioni a colori di Edmund Magrath e a inchiostro di W.W. Fawcett, presto ristampato da Grosset & Dunlap. Il libro porta in copertina una riproduzione del quadro di Burne-Jones ed è dedicato a Robert Hilliard, vero promotore della saga sulla vampira. Browne rivendica anche l’ispirazione a The Vampire di Kipling, ponendo in epigrafe la prima strofa della poesia che viene poi citata espressamente nel corso del romanzo. Come nel testo teatrale, l’amico Tom, sulla nave dove si è appena ucciso il giovane Parmalee, chiede a Schuyler se ha letto la poesia di Kipling e lui risponde: “Beh, sì, ovviamente. Quasi tutti l’anno letta”. Poi ne recita i primi versi.

Il romanzo ripropone con uno stile verboso le stesse situazioni melodrammatiche dello spettacolo a teatro, ma aggiungendo molti dettagli sulla biografia della Vampira e sviluppando il riferimento moralistico a opinioni molto presenti nella cultura dominante dell’epoca. Si delinea ulteriormente la connotazione “di classe” dei personaggi. John Schuyler, padre modello, erede di una stirpe virtuosa anglo-olandese, cresciuto nella Fifth Avenue di New York, è esponente della “classe dominante”, ricco, di successo e ovviamente bianco. La Vampira, invece, è di povera estrazione, provenendo da un villaggio della Bretagna, tra contadini quasi animaleschi. Lei è figlia illegittima di un aristocratico francese e di una povera donna bretone che muore dopo averla data alla luce. Il padre, pur abbandonandola cinicamente, decide di scegliere il nome per la figlia: Rien (niente). L’uomo finirà male: anni dopo torna alla misera casa della figlia e lei lo fissa negli occhi, facendolo arretrare su un precipizio fino a che cade nel vuoto.

La copertina dell’edizione Grosset & Dunlap e una delle immagini all’interno

Può sembrare assurdo ai nostri occhi attuali, ma il romanzo indicava delle ragioni genetiche per il vampirismo. La povertà era considerata un segno di inferiorità e i poveri potevano essere indicati come parassiti, quindi vampiri. La Vampira, in quanto figlia del rapporto tra una povera bretone e un nobile francese, aveva genitori europei ma “latini”, diversi dal filone genetico anglo-olandese rivendicato dagli americani dell’epoca come loro ascendenza. Era dunque frutto dell’unione tra poveri, tali per la loro inferiorità, e aristocratici, decaduti a causa del vizio: il contrario dei borghesi benestanti che si ritenevano geneticamente privilegiati e mossi da rettitudine morale per guidare gli Stati Uniti. Cedendo alle attrazioni sessuali della Vampira, Schuyler indebolisce anche il suo rigore morale. Bram Dijkstra (Evil Sisters, Alfred A. Knopf, New York 1996) segnala che il disordine e la sporcizia in cui viveva la madre della vampira è analogo a quello in cui finisce a vivere Schuyler nella sua abitazione dopo essere caduto nelle grinfie della donna fatale.

La Vampira è bianca, ma viene da un mondo contadino sordido, dai bassifondi. Socialmente meticcia, incrocio tra un nobile e una contadina, si eleva a donna borghese, colta e bella, per esercitare il suo potere ipnotico sugli uomini. Come scrive ancora Dijkstra, per Browne la Vampira fa parte della schiera di donne “strisciate fuori dalla peggior feccia della peggior specie di umanità per infettare il mondo ariano con la loro lussuria”. Browne rendeva universale quella minaccia, indicandola in apertura del romanzo come valida anche nei millenni passati

In A Fool There Was non ci sono mai accenni a possibili caratteristiche soprannaturali della Vampira. Però le condizioni fisiche di Schuyler sono molto simili a quelle delle vittime di un vampiro soprannaturale: prosciugato, ridotto a una larva, Schuyler dice che quella donna “gli succhia il cervello”. Si ciba della sua salute e più lui si indebolisce (“Il sangue mi si è trasformato in acqua e le mie ossa in gesso! Il mio cervello si è avvizzito!”), più lei diventa forte e florida.

A molti decenni dalla pubblicazione del libro di Browne, almeno due romanzi hanno utilizzato lo stesso titolo. Nel 1958 esce il “mystery” A Fool There Was (Crest Books, New York) di John Manson che aveva avuto una precedente edizione l’anno prima con il titolo It Is a Dream. La nuova versione puntava molto sul legame con la poesia di Kipling, riprodotta integralmente all’interno e richiamata in copertina. Narra la vita di un uomo stravolta dall’amore incondizionato per una ragazza, i cui “profondi occhi bruni lo avevano ipnotizzato” sin dal primo incontro. Nel 2009, poi, i versi della poesia di Kipling aiutano la poliziotta Sukey Reynolds, creata dalla scrittrice Betty Rowlands, a risolvere un caso in A Fool There Was (Severn House, London).

Copertina del romanzo del 1958 con i versi di Kipling