ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 7ter

I vampiri invadono la Russia

L’influsso della poesia The Vampire di Rudyard Kipling, e del quadro di Philip Burne-Jones che l’aveva ispirata, nei primi anni del Novecento si spinse fino alla Russia. Contaminò la cultura e il nascente cinema, per quanto in modo limitato e circoscritto. In Russia la creatura che in occidente era definita con il termine vampiro si chiamava upyr’. Dagli inizi del XX secolo, però, anche in Russia si adotta il termine occidentale per descrivere creature soprannaturali che succhiano il sangue o donne fatali che sottraggono energie.

A dimostrazione di quell’influsso, dai risvolti anche lessicali, nel gennaio 1906 avvia le pubblicazioni a San Pietroburgo una rivista settimanale “artistica e satirica” dal titolo “Vampir’”, chiusa dopo otto numeri. Il periodico, con le sue eleganti illustrazioni e le sue invettive politiche, si inseriva nella vivacità culturale seguita alla rivoluzione antizarista del 1905. Ne era caporedattore Benedikt Avraamovich Katlovker, che tra i tanti suoi pseudonimi si firmava “Upyr’” (tra il 1909 e il 1917, invece, sotto lo pseudonimo B. Reutsky pubblicò la serie di romanzi neri e d’avventura “Dalle note di uno psichiatra”).

Non è un caso poi che Vsevolod Mejerchold abbia tradotto in russo l’opera teatrale di Frank Wedekind Erdgeist (Lo spirito della terra), dove compare il personaggio della donna fatale Lulu, dandogli il titolo Vampir (volume pubblicato da Shipovnik, Sankt-Peterburg 1908).

Copertina del primo numero della rivista “Vampir” (1906)

Per quanto riguarda il cinema russo, un primo esempio di influenza della Vampira kiplinghiana può farsi risalire al dicembre 1912, quando esce nelle sale Tajna doma n. 5 (Il mistero della casa n. 5), pellicola di circa mezz’ora realizzata dalla sede moscovita della francese Pathé. Diretto da Kai Gansen, il film si avvaleva della fotografia suggestiva di Alexandr Levitsky (Premio Stalin nel 1949).

Tajna doma n. 5 risulta conservato negli archivi russi del Gosfilmofond, senza didascalie, ma ne sono stati diffusi solo i primi 15 minuti (esisterebbe anche una copia ungherese, dal titolo Az 5-ös számú ház titka). Inoltre, a maggio 1913 il film uscì in Francia come Le Mystère de la rue Donskaya ed è stato restaurato nel 2021 dalla Fondation Jérôme Seydoux-Pathé che ha ripristinato le musiche di accompagnamento composte da Stephan Oliva. Anche questo restauro non è disponibile al pubblico, ma dalla sceneggiatura della versione francese, conservata alla Bibliothèque National de France, si desume la trama precisa del film.

Una donna che frequenta i circoli nobiliari, Elsa (Vera Pashennaya), viene lasciata dal ricco conte Darski (Boris Piasetski) per un’altra donna. Mossa dalla vendetta, Elsa orchestra una trappola con il suo ex amante Dobrov (Mikhail Doronin) e convince Darski a passare per sfida una notte in una casa abbandonata che si ritiene infestata dal fantasma della proprietaria, morta misteriosamente: secondo le dicerie, il suo ritratto a mezzanotte prenderebbe vita per uccidere qualsiasi uomo si trovi di fronte. Quando Darski si reca nella casa, Elsa si veste in abiti ottocenteschi e si finge il dipinto della defunta padrona di casa, appeso a una parete, per terrorizzare il conte. Poi il complice Dobrov spara a Darski ed è simulato un suicidio, lasciando un biglietto accanto al corpo: “Non avendo la forza di sopportare più a lungo tanto orrore, metto fine al mio supplizio”. La mattina dopo, Darski è trovato morto dalla ragazza che lo amava e la perfida Elsa gode della vendetta (“il dolore della rivale raddoppia la sua soddisfazione”, si legge nel materiale pubblicitario).

Il film Tajna doma n. 5 univa luoghi comuni dell’immaginario macabro, come la casa infestata e il ritratto che prende vita, togliendo però ogni aspetto soprannaturale alla vicenda. Il principale personaggio femminile è indubbiamente accostabile alle donne vampiro che si erano profilate nel cinema americano ed europeo. È significativo che in Tajna doma n. 5 la Vampira resti impunita e, nonostante palesi dei rimorsi in alcune espressioni nella parte finale del film, sia fiera del suo trionfo criminale. Questa protovampira del cinema russo non è inquadrata in una postura simile al quadro di Philip Burne-Jones, ma si erge vittoriosa, in piedi, accanto al cadavere della sua vittima. A interpretare la vampiresca Elsa era Vera Pashennaya che resterà un’attrice molto attiva e apprezzata anche nel periodo sovietico.

La Vampira nel ritratto (a sinistra) e poi trionfante sulla sua vittima in Tajna doma n. 5 (1912)

L’influenza della moda occidentale per la Vampira kiplinghiana, e in particolare per i balletti che aveva ispirato, si affaccia in Russia nel 1914 con il corto di circa tre minuti Tanez vampira (Danza del vampiro) della casa produttrice Tieman e Reinhardt. Le riprese erano ancora una volta di Alexandr Levitsky, qui sotto la direzione di Yakov Protazanov (da ricordare, tra l’altro, per la sua regia del celebre film sovietico di fantascienza Aelita, nel 1924). La danza era eseguita da V. Laskina e da Richard Boleslawski, all’epoca attore teatrale e ballerino, poi regista di varie pellicole di successo a Hollywood.

Il cortometraggio è perduto e apparteneva al genere allora popolare in Russia del film-balet, brevi riprese cinematografiche di numeri danzanti. La rivista “Sine-Fono” dedicò due brevi segnalazioni al film (15 febbraio 1914; 1 marzo 1914), definendo la Danza del vampiro “degna rivale del Tango”.

L’esempio più eclatante di Vampira nel cinema russo compare un anno dopo, nel 1915, con Zagrobnaia skitalitsa (Vagabonda dell’aldilà), noto anche come Zhenshchina-vampir (La donna-vampiro). Secondo Gary D. Rhodes (The First Feature-Length Vampire Film in gdrhodes.medium.com, 28 ottobre 2023) sarebbe “il primo lungometraggio sui vampiri nella storia mondiale del cinema”, perché mette esplicitamente in scena una vampira soprannaturale, tornata dalla morte per succhiare il sangue, e non una semplice femmina che insidia energie e beni del maschio.

Il film è perduto e restano oggi a disposizione solo cinque foto. Diretto e interpretato da Viacheslav Turzhanskii (una volta emigrato in Europa, dopo la Rivoluzione sovietica, prese il nome di Viktor Tourjansky), Zagrobnaia skitalitsa vedeva nella parte della Vampira l’attrice Olga Baclanova che continuerà a interpretare bionde donne fatali anche dopo il suo trasferimento in America nel 1925, in film come The Man Who Laughs (1928) di Paul Leni e Freaks (1932) di Tod Browning.

La giovane Vera (Olga Baclanova) si è innamorata dell’artista Amosov (Viacheslav Turzhanskii), ma si toglie la vita quando scopre che l’uomo la considera solo un passatempo tra un’avventura amorosa e l’altra. Nella morte, l’anima di Vera si fonde con quella di una ragazza che le assomiglia. Vent’anni dopo, la reincarnazione di Vera è una donna felicemente sposata. È però consumata da una strana malattia che i medici non sanno spiegarsi. Per sopravvivere, Vera di notte si nutre di sangue umano. Uno spiritista scopre la verità e grazie all’evocazione di un’entità dell’oltretomba la Vampira è neutralizzata.

Con Zagrobnaia skitalitsa / Zhenshchina-vampir abbiamo la prova che la Vampira, nel 1915, non era appannaggio solo del cinema americano, dato che nello stesso momento anche in Russia un personaggio analogo (e per di più direttamente connesso alla tradizione dei nonmorti) era al centro di un film. I critici russi non si distanziarono molto dai loro colleghi americani nel liquidare frettolosamente una pellicola che affrontava temi sensibili per il perbenismo, definendola sia “vergognosa” sia incapace di spaventare davvero. Il sindaco di Pietrogrado (oggi San Pietroburgo) proibì le proiezioni del film. Del resto, la garanzia che Zagrobnaia skitalitsa avrebbe fatto scandalo veniva dal nome dell’autore del soggetto, Anatolij Kamenskij, all’epoca celebre scrittore estremo, tanto che ancora nel 1976 la storica del cinema Neja Zorkaja stigmatizzava “l’esecrabile produzione del belletrista erotico Anatolij Kamenskij” (Sfondi e requisiti. La pornografia sugli schermi degli anni Dieci, ora in Letteratura e cinema nel Modernismo russo, a cura di Claudia Criveller e Anita Frison, WriteUp Books, Roma 2022).

Zagrobnaia skitalitsa / Zhenshchina-vampir (1915)

Nello stesso 1915 di Zagrobnaia skitalitsa, il cinema muto russo ci offre un’altra Vampira in Posle smerti (Dopo la morte) di Evgeny Bauer, ispirato a un racconto di Ivan Turgenev. Può sembrare una forzatura definire Vampira lo spettro al centro del film, ma sicuramente molte sequenze indicano un riferimento alla vampiresca donna distruttiva, presentando un uomo vinto e consumato da una figura femminile che torna dalla morte.

Il giovane scienziato Andrei Bagrov (Witold Polonsky), dedito solo ai suoi studi, rifiuta l’amore dell’attrice Zoya Kadmina (Vera Karalli) e la ragazza si avvelena. Leggendo il diario della suicida, Andrei comincia ad avere allucinazioni in cui vede Zoya vestita di bianco, il volto angelico e sofferente, che gli indica l’Aldilà. Col protrarsi delle visite dello spettro, il giovane deperisce, sta sempre più male. “Hai vinto… Prendimi! Sono tuo…”, esclama infine. Dopo l’ennesima apparizione, Andrei muore nel suo letto.

Il film Posle smerti è sopravvissuto, in ottime condizioni, permettendoci di valutare le effettive assonanze con il vampirismo. Per quanto immateriale, il fantasma al centro del film assomma le caratteristiche del vampiro: avvicina la bocca al collo del suo amato, lasciando intendere il desiderio di un morso, e lo sovrasta mentre è privo di sensi. Una scena fa sorgere il dubbio che Zoya sia un essere concreto, come i vampiri leggendari, perché Andrei dopo una delle apparizioni si risveglia e si trova tra le mani una ciocca di capelli della ragazza.

L’attrice Vera Karalli che interpretava la pseudovampira ha avuto una notevole carriera durante il cinema muto e il suo nome è legato a una vicenda importante della storia russa: era quasi certamente presente, anche se non è stato mai ammesso dai testimoni, nel palazzo del principe Feliks Jusupov quando, in una notte del dicembre 1916, venne ucciso con veleno e colpi di pistola Rasputin, il famoso consigliere dello zar. La Karalli era l’amante di uno dei cospiratori che eliminarono il “monaco nero”, il granduca Dmitrij Pavlovič Romanov, cugino dello zar Nicola II (e aspirante al trono).

Lo spettro vampiresco di Posle smerti (1915)

Per quella catena di coincidenze bizzarre che connota a volte il “vampirismo” dell’immaginario, uno degli attori di Posle smerti, Georgij Azagarov, nel 1917 scrive e dirige il film Zhenshchina vampir (La donna vampiro) che esce in sala nei giorni della Rivoluzione bolscevica. Era l’adattamento cinematografico del racconto Ubiystvo (Omicidio; in Sobraniye sochineniy, vol. 7, 1906) di Vlas Doroshevich, prolifico giornalista e scrittore che vantava oltre cento pseudonimi.

Il testo di Doroshevich è un’agghiacciante descrizione della lenta morte di un uomo, inizialmente convinto di avere solo una bronchite e a poco a poco consapevole che la sua bellissima moglie lo sta uccidendo, per impadronirsi dell’eredità. Ogni bacio che la donna gli concede lo porta verso la morte. L’uomo, in scenari tropicali, si immagina “sdraiato sull’erba, morente, mentre un vampiro succhia il sangue”.

Il film Zhenshchina vampir proponeva la stessa situazione del racconto, con il protagonista Victor (Nikolaj Rimskij) che è progressivamente indebolito dai baci e dalle attrattive sessuali di Alla (Vera Charova). Leggendo una recensione, recuperata da Gary D. Rhodes e apparsa su “Sine-Fono” (n. 1-2, 1918), pare che nel film comparisse anche il quadro di una “donna vampiro” che Victor ammira e che prende vita confondendosi con l’immagine di Alla. Il film è perduto, quindi non è dato sapere quali fossero le caratteristiche del ritratto, ma possiamo fantasticare su un’ipotesi: poteva trattarsi di una riproduzione del dipinto The Vampire di Burne-Jones?

Avendo lo stesso titolo (Zhenshchina vampir) del film con Olga Baclanova del 1915, l’opera di Azagarov è spesso confusa con la pellicola anteriore. Quel titolo, in ogni caso, è rimasto a lungo nella memoria russa, come dimostra una citazione nel film sovietico del 1968 Sluzhili dva tovarishcha (Servivano due compagni, 1968) di Yevgeni Karelov. Nella prima parte, ambientata nel 1920, un comandante dell’Esercito rosso tesse le lodi del cinema a un soldato, per convincerlo della necessità di girare un film sugli eroi della Rivoluzione: “Il cinema è una gran cosa! Cinema! Hai visto Zhenshchina vampir? Resti lì seduto, sconvolto dall’orrore”.

Non sappiamo a quale delle due “donne-vampiro” del cinema russo si riferisse quella citazione, ma indubbiamente si evince che almeno una di quelle pellicole fosse popolare ed evocativa. La figura della Vampira aveva conquistato anche la Russia.

Zhenshchina vampir, 1917 (dal forum del sito kino-teatr.ru)

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 7bis

Mute Vampire italiane

L’ondata di Vampire avviata dal 1897 grazie alla poesia The Vampire di Rudyard Kipling e all’omonimo quadro di Philip Burne-Jones sfiorò anche l’Italia. Da noi, i vampiri leggendari avevano avuto relativa popolarità, nonostante all’estero si fantasticasse spesso di un’Italia “terra di vampiri”: nel pieno della moda vampiresca di inizi Novecento, ad esempio, Francis Marion Crawford ambientò in Calabria il suo racconto For the Blood Is the Life (Perché il sangue è la vita, 1905).

Una riproduzione del quadro di Philip Burne-Jones da “Harper’s Weekly” (31 gennaio 1903)

Per quanto il vampiro vero e proprio non avesse un’attenzione particolare in Italia, sappiamo però che il fantastico, il gotico e il macabro non erano affatto estranei alla cultura italiana di allora, come hanno dimostrato dettagliatamente, tra gli altri, gli studi di Fabrizio Foni. Così, anche la Vampira kiplinghiana ha avuto un suo passaggio fugace in Italia.

Come spesso avveniva nella cultura nostrana, sapevamo innovare e rielaborare le mode estere: nel caso della Vampira si riuscì a unire la donna fatale al western. Nel dicembre 1913, infatti, esce nelle sale La vampira indiana, prodotto dalla torinese Aquila Films. A dirigerlo e interpretarlo era Roberto Roberti, pseudonimo di Vincenzo Leone, molto attivo nel cinema muto. E nel cast c’era Bice Waleran (o Valeran), pseudonimo di Edvige Valcarenghi: Roberti e la Waleran diventeranno genitori, nel 1929, di Sergio Leone, destinato a una splendida carriera proprio nel cinema western.

Il western non era estraneo all’immaginario italiano di quegli anni. Tra il 1908 e il 1910 Emilio Salgari aveva pubblicato una trilogia di romanzi definita “Ciclo del Far West” e le atmosfere western erano apparse clamorosamente nell’opera lirica di Giacomo Puccini La fanciulla del West (1910). Spesso negli studi di storia del cinema si definisce La vampira indiana “il primo western italiano”, ma non è del tutto corretto. Nel maggio 1913, quindi diversi mesi prima del film di Roberti, un’altra casa produttrice torinese, la Savoia Film, aveva realizzato Nel vortice del destino, vero e proprio western.

La particolarità di La vampira indiana sta nella fusione del western con la figura della femme fatale “vampiresca”. La donna del titolo è una “pellerossa” che, per aiutare i fratelli, uccide un uomo e fa accusare e condannare un innocente. Ma la figlia di quest’ultimo riesce a far riconoscere l’innocenza del padre. Commentava il quindicinale “Il Maggese cinematografico” (n. 1, 1914), descrivendo la cattiveria della “vampira”: “Ammettiamo pure che una donna indiana commetta dei crimini per beneficare i suoi fratelli, ma che faccia tutto da sé è un po’ troppo! Ed ha molto da fare e cose le più svariate e difficili. Non neghiamo però che ha della grande abilità. Entra ed esce nei palazzi e fa il comodo suo senza trovare alcuno che le sbarri il passo. Ammazza, telefona e fa condannare in sua vece un povero innocente”.

Il film è perduto, sopravvive una solo foto. “La Stampa” (29 dicembre 1913) in un breve trafiletto definiva La vampira indiana “straordinario cinedramma d’eccezionale interesse drammatico e con messa in scena veramente sfarzosa”, aggiungendo che “si prevede un successo grandissimo”.

L’unica foto esistente di La vampira indiana

A causa della scarsa documentazione e delle poche recensioni dell’epoca, non possiamo sapere se la Vampira fosse interpretata da Bice Waleran o da quella che risulta l’attrice principale del film, Antonietta Calderari, vera star delle produzioni Aquila e spesso ritratta in pose da vamp. Sergio Leone pareva certo, comunque, che fosse sua madre Bice la donna a cavallo che compare nell’unica foto esistente. Nel saggio di Lorenzo Codelli Il West in Europa, l’Europa nel West (in  Storia del cinema mondialeL’Europa. Miti, luoghi, divi, Volume I, a cura di Gian Piero Brunetta, Einaudi, Torino 1999) si legge: “Ricordo bene come Leone osservasse intensamente quell’unica foto rimasta de La vampira indiana – una scena in cui sua madre a cavallo in tenuta da pellirossa è attorniata da altri due indiani con tante piume folte sul capo, sullo sfondo d’un accampamento – quasi tentando di animare quel reperto immobile”. Codelli aggiunge che Leone “non si dava pace che tra i fortunosi ritrovamenti [delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone] non comparisse ancora quella mitica pellicola paterna”. E Vittorio Martinelli, ricordando i suoi incontri con Leone, in compagnia  di Aldo Bernardini durante la stesura di un saggio su Roberto Roberti, scrive: “Sergio Leone ci mostrò con molto orgoglio una fotografia di La vampira indiana, unica testimonianza rimasta di quell’impresa pionieristica e, a libro pubblicato, si meravigliò che avessimo trovato anche alcuni brani della critica del tempo” (Vittorio Martinelli, Laggiù nell’Arizona, in “Bianco & nero” n. 3, 1997).

Dunque nemmeno Sergio Leone possedeva altri materiali e documenti su quel film interpretato dai suoi genitori. Eppure era molto legato a La vampira indiana che vedeva quasi come un presagio del suo successo nel “western all’italiana” (in omaggio al padre firmò il suo primo film western, Per un pugno di dollari, con lo pseudonimo di Bob Robertson, cioè “figlio di Roberto”). Un fumetto dedicato nel 2019 alla vita del regista, intitolato Sergio Leone e pubblicato da Glénat (con disegni di Philan e testi di Noël Simsolo, amico di Leone e studioso del suo cinema), ritrae in una vignetta Sergio bambino che nel 1937 scopre la foto della madre in La vampira indiana.

Sergio Leone bambino guarda la foto della madre in La vampira indiana nel fumetto del 2019

Una vampira della notte

Le Vampire italiane dei primi anni del Novecento non finiscono con La vampira indiana. Nel 1914 la Aquila Films vende all’americana Greene’s Feature Photo Plays un film che viene distribuito come Vampires of the Night (paradossalmente è lo stesso titolo di lavorazione che nel 1935 sarà assegnato a Mark of the Vampire di Tod Browning). Si presume che il cast fosse simile a quello di La vampira indiana, perché i film Aquila di quel periodo erano quasi tutti realizzati con gli stessi attori.

Secondo la novelization del film, pubblicata da “Illustrated Film Monthly” (marzo-agosto 1914), la trama muove da uno scambio di neonati nella culla: Judith, la figlia di un criminale che è stato impiccato, viene sostituita alla piccola Edna, duchessa di Burville. Crescendo, Judith manifesta la stessa anima malvagia di suo padre e nonostante sia una duchessa guida una banda di delinquenti. Innamorata di un poeta “alla Byron”, Lord Norman, la malvagia Judith si vede portar via l’oggetto del suo amore proprio da Edna, ridotta a cantare in strada per sopravvivere. Quando la verità sulle sue origini viene svelata, Judith si uccide.

La novelization di Vampires of the Night su “Illustrated Film Monthly” (marzo-agosto 1914)

Si può ipotizzare, come fa Gary D. Rhodes, che Vampires of the Night fosse la versione americana di La belva di mezzanotte (o La belva della mezzanotte), uscito in Italia nel settembre 1913. Secondo Aldo Bernardini e Vittorio Martinelli (Il cinema muto italiano, 1905-1931, CSC-Nuova Eri, Roma-Torino, 1991-1996), La belva di mezzanotte era interpretato nel ruolo della duchessa da Claudia Gaffino Zambuto e nella parte del Lord dal marito Gero Zambuto (forse anche regista del film, suo esordio dietro la macchina da presa): entrambi erano stati da poco reclutati dalla Aquila Films. Viceversa “Illustrated Film Monthly” indica come protagonista femminile Antonietta Calderari, ponendo la sua foto in apertura della novelization di Vampires of the Night.

La similitudine tra le trame dei due film e l’assonanza dei titoli è tale da rendere quasi certo che La belva di mezzanotte sia Vampires of the Night. Comunque, i nomi dei personaggi in La belva di mezzanotte differiscono da quelli riportati dalla novelization americana di Vampires of the Night: almeno secondo quanto si evince da “La Vita Cinematografica” (15 ottobre 1913), i due protagonisti principali del film italiano si chiamavano duchessa di Burleigh e Lord Hashton. È possibile inoltre che una stessa attrice interpretasse entrambi i ruoli, Edna e Judith, dato che veniva sottolineata l’incredibile somiglianza tra le due donne.

Antonietta Calderari

Altre figure vampiresche del cinema muto in Italia

La presenza nel cinema italiano della Vampira di origine kiplinghiana si riduce dunque a due titoli. Inoltre, Dracula non era stato ancora tradotto nella nostra lingua e i film esteri che abbiamo citato nell’articolo precedente non arrivavano nelle sale italiane, già occupate dalla innumerevole produzione cinematografica nostrana. La critica, poi, stigmatizzava ogni incursione del cinema italiano nel macabro o nell’orrorifico, reputando inadatta al gusto “mediterraneo” ogni storia soprannaturale di vampiri o fantasmi.

Se il Decadentismo aveva offerto donne dominanti e disinibite che destabilizzavano l’uomo, il cinema muto italiano non sembra quindi assumere la figura della Vampira di Kipling. Ma l’immaginario non era certo impermeabile alle suggestioni della voga “straniera” delle donne fatali dai tratti vampireschi. Anzi, il nostro cinema muto aveva creato il fenomeno peculiare delle Dive, strette parenti delle Vampire, ma con significative differenze: “Le dive italiane non uccidono per pura crudeltà, ma perché i loro personaggi si ribellano contro molestia sessuale, stupro o adulterio. Sotto questo aspetto, la diva italiana non accoglie la vocazione omicida gratuita o egoistica della femme fatale. In altre parole, la diva non uccide per ottenere un avanzamento sociale” (Angela Dalle Vacche, Diva. Defiance and Passion in Early Italian Cinema, University of Texas Press, Austin 2008).

L’uomo esanime e la donna dominante in Il fuoco (1916)

Tra le attrici che per prime sono state caratterizzate come interpreti di donne fatali spicca Pina Menichelli, a partire da Il fuoco (1916), film che contiene un’immagine della perfida donna incombente su un uomo riverso molto evocativa del quadro The Vampire di Burne-Jones. Come in alcune pellicole americane sulla Vampira, i film italiani sulle Dive mettevano a volte in contrapposizione le figure della donna senza scrupoli che seduce e porta l’uomo alla distruzione e della Madre che tutela la famiglia e i figli. Molte erano le storie “in costume” che inscenavano donne crudeli o perverse sotto le spoglie di grandi personaggi femminili (reali o leggendari) dell’antichità, regine e seduttrici dell’Antica Roma o di secoli lontani.

Il nesso con la sottrazione di energia o di sangue, determinante nel successo della Vampira di Kipling, non pare presentarsi nel cinema muto italiano. L’uso stesso del termine “vampiro” è rarissimo, così come il riferimento ai vampiri soprannaturali nelle sceneggiature. Gli unici altri esempi (tutti perduti) di titoli che contengono quel termine, oltre a La vampira indiana, sono La torre dei vampiri (1914), Il vampiro (1915) e infine La carezza del vampiro (1918).

Prodotto dalla Ambrosia film e distribuito in America come The Vampire’s Tower, il film La torre dei vampiri era diretto da Gino Zaccaria e raccontava di una torre attorniata, secondo una leggenda, da pipistrelli vampiri in cui si sono incarnate le anime dei dannati: lì si nasconde  l’ex boia di Parigi (Oreste Grandi), scacciato dalla Rivoluzione, che si accanisce contro una coppia in procinto di matrimonio, la Fornarina (Lia Negro) e Raimondo (Alfredo Bertone). Il termine “vampiro” appare utilizzato quindi per descrivere personaggi criminali particolarmente spietati. Un delinquente è anche il protagonista di Il vampiro, prodotto dalla Film Artistica Gloria di Torino e diretto da Vittorio Rossi Pianelli, con Dante Cappelli e Lydia Quaranta. Uscito nel gennaio 1915, subì i tagli della censura per una scena cruenta. Anche se Bernardini e Martinelli nella loro storia del cinema muto italiano indicano Luigi Capuana come fonte letteraria del film, certo non traeva ispirazione dal suo racconto Un vampiro (1904) che aveva ben diverso contenuto. Così infatti è sintetizzata la trama del film su “La Vita Cinematografica” (22 febbraio1915): “Un cotale che vuole sposare per forza una ragazza che ama un giovane cugino. Un delitto che porta l’innocente in galera. Punizione del colpevole e trionfo della giustizia”.

Altrettanto metaforico sarà l’uso del termine per il titolo del film La carezza del vampiro, con visto della censura del novembre 1918, ma apparentemente distribuito prima all’estero che in Italia: anche in questo caso, il “vampiro” è un malfattore che agisce nel mondo dell’aristocrazia e finisce sconfitto niente meno che da Maciste.

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 7

La Vampira di Kipling invade il cinema

Quando nel 1897 Rudyard Kipling scrisse la poesia The Vampire per il quadro di Philip Burne-Jones, il cinema era ancora ai suoi primi passi. Nel giro di pochi anni, però, le produzioni cinematografiche e le sale per proiezioni erano aumentate: era inevitabile che l’ondata di interesse per la figura vampirica proposta da Kipling si presentasse anche sugli schermi.

Come abbiamo visto in un articolo precedente, l’unione tra vampiro leggendario e donna fatale ha una prima espressione al cinema nel 1905, grazie al corto Loie Fuller, prodotto dalla Pathé Frères.

Loie Fuller, della durata di un minuto e mezzo, colorizzato a mano, si avvia con le immagini di un pipistrello che vola su una terrazza e che un semplice effetto di montaggio fa tramutare in una donna dall’ampio abito. Alzando le braccia, la donna rende il costume simile ad ali di pipistrello e inizia una danza facendo vorticare il vestito, che cambia continuamente colore, nella tipica modalità delle rappresentazioni di Loïe Fuller. Dopo essersi completamente avvolta nell’abito, la donna scompare in una dissolvenza.

Il cortometraggio Loie Fuller (1905)

Non è certo che nel filmato sia ripresa proprio la Fuller o un’altra ballerina che esegue le sue tipiche danze, né c’è conferma che il regista fosse Segundo de Chomón, il cineasta spagnolo grande esperto di colorizzazione delle pellicole e di trucchi visivi. Secondo gli storici del cinema Loie Fuller si contende il ruolo di primo film sui vampiri con Le manoir du diable (1896) di Georges Méliès. Di certo entrambi condividono le immagini della trasformazione di un pipistrello in un essere umano, ma il corto di Méliès è incentrato su un tipico diavolo dal berretto piumato, non su un vampiro, per quanto arretri alla vista di una croce come i suoi colleghi succhiasangue.

Gary D. Rhodes (Vampires in Silent Cinema, Edinburgh University Press, Edinburgh 2024) assegna il primato a Loie Fuller, mentre David Annwn Jones (Vampires on the Silent Screen. Cinema’s First Age of Vampires 1897-1922, Palgrave Macmillan, London 2023) gli ha contestato che la caratteristica necessaria per definire un “vampiro” è il consumo di sangue, del tutto assente nel corto del 1905.

Loie Fuller si collega comunque a un immaginario che fonde il vampiro soprannaturale e la donna, sicuramente influenzato dalla Vampira sorta dalla duplice opera di Burne-Jones e Kipling che, come abbiamo visto, avrà di lì a poco un’affermazione decisiva proprio nella danza. A essere evocato dal corto Loie Fuller non è tanto il “vampirismo” (inteso come atto di succhiare il sangue da parte di un nonmorto), quanto un generico “vampiro” (figura soprannaturale e minacciosa) associato al pipistrello. La parentela tra vampiro e pipistrello era già ben radicata all’inizio del Novecento, grazie soprattutto alle arti grafiche che, ad esempio nelle illustrazioni di satira politica, mostravano da decenni il pipistrello come animale feroce e spesso gigantesco impegnato ad attaccare il collo di esseri umani per suggerne il sangue. Nel cinema, l’associazione tra pipistrello e vampiro in quello stesso 1905 era evidenziato dalle donne con ali da chirottero nel corto L’antre infernal di Gaston Velle.

La trasformazione da pipistrello a diavolo in Le manoir du diable (1896)

The Vampire (1910)

Loie Fuller non faceva alcun riferimento diretto alla figura della Vampira popolarizzata dalla poesia omonima di Rudyard Kipling. Ma dopo pochi anni, nel 1910, la Vampira di Kipling e Burne-Jones arriva sugli schermi del cinema in modo chiaro e diretto, in particolare dopo il successo a teatro di A Fool There Was e della “Vampire Dance”. Il produttore William Nicholas Selig si inserisce nella nuova moda vampiresca e a novembre 1910 porta nelle sale The Vampire, esplicitamente ispirato alla poesia di Kipling. “The Film Index” (29 ottobre 1910) rende più che evidente l’omaggio a Kipling e Burne-Jones illustrando una segnalazione del film con il celebre quadro e aggiungendo ampie citazioni dalla poesia.

Recensione per il film The Vampire su “The Film Index” (29 ottobre 1910)

Il regista di The Vampire è ignoto, mentre la direzione della fotografia era attribuita a William C. Foster. Secondo un commento dell’epoca (“Moving Picture World”, 26 novembre 1910) il film poteva essere capito solo da chi conosceva il quadro di Burne-Jones e la poesia di Kipling, mentre “non è abbastanza chiaro per lo spettatore medio”.

Guy Temple (Charles Clary) si sposa con Emily, ma dopo il matrimonio è attratto dalle arti seduttive di Loie (Margarita Fischer): per lei si rovina e le regala gioielli. John Temple, fratello di Guy, ricorda grazie a un sogno di aver già visto la perfida Loie: aveva distrutto la vita del padre di Emily, portandolo alla morte. John cerca invano di convincere Guy a lasciare la Vampira e le offre del denaro per abbandonare l’America. Tutto è inutile e Guy precipita nell’abisso della distruzione, mentre la Vampira festeggia sul suo corpo inanimato.

Pubblicità per The Vampire (1910) e un fotogramma dalla scena finale

The Vampire è un film perduto, ma nel febbraio 2013 il blogger doctor kiss annunciava su tapatalk.com di averne scoperto un brevissimo frammento, trovandolo in una scatola di vecchie pellicole di un disegnatore tedesco. È la scena finale, con la Vampira che incombe sul corpo della sua vittima. Il ritrovamento è importante perché permette di visualizzare il riferimento del film alle scenografie delle “danze della vampira” diventate popolari dal 1909, caratterizzate proprio da una scala ai cui piedi soccombe l’uomo vampirizzato.

L’onda lunga dei versi di Kipling sulla Vampira si riverbera anche in un film distribuito nell’ottobre 1911, A Woman’s Slave, probabilmente girato in Francia, dato che è una produzione Urban-Eclipse: il produttore angloamericano Charles Urban, infatti, era legato alla società parigina Eclipse, capace di realizzare 150 film all’anno. Il debito nei confronti di Kipling era dichiarato da “Moving Picture World” (11 novembre 1911): “Forse questo film può essere considerato una corretta rappresentazione della famosa poesia di Kipling, The Vampire. La donna è mostrata come un essere senza cuore che induce l’uomo al furto per ottenere gioielli con cui ornarsi. Lui si salva dalle sue grinfie grazie al costante amore della madre e alla benevolenza di un gioielliere. C’è qualcosa di sconvolgente nel freddo egoismo e nella crudeltà della donna”.

Alice Hollister

Alice Hollister, la prima diva vamp(ira)

Ormai il termine “Vampire”, applicato alla donna fatale, era garanzia di successo e nel 1913 si mise in cantiere un’altra pellicola con lo stesso titolo del film realizzato tre anni prima dalla Selig, The Vampire, prodotta dalla Kalem per la regia di Robert G. Vignola e di cui abbiamo parlato in un articolo precedente perché conteneva la celebre Vampire Dance del duo Eis-French. Il film lanciava anche la prima diva vamp(ira), Alice Hollister nel ruolo della donna che porta alla perdizione, cui si aggiungeva Alice Eis come “vera” vampira che uccide l’uomo dopo un ballo seduttivo.

Vista la buona accoglienza del loro The Vampire, la Kalem tornò a occuparsi di una Vampira con il corto di 26 minuti The Vampire’s Trail (1914), diretto ancora da Vignola in collaborazione con T. Hayes Hunter e di nuovo con Alice Hollister nel ruolo della donna fatale (alcune filmografie sui vampiri riportano un cortometraggio dallo stesso titolo datato 1910, ma non risulta alcuna informazione sulla sua esistenza).

Il giornalista americano dedito ai gossip John Dugan (Robert Walker) e una cantante spregiudicata, Rita Caselli (Alice Hollister), si alleano per compromettere un ricco uomo sposato, Horace Payne (Tom Moore). Rita fa amicizia con l’uomo e riesce a farsi invitare a casa sua, dove conosce la moglie Laura (Alice Joyce) e il loro figlio neonato. Il bambino si ammala di difterite e Rita deve restare in quarantena nella casa, tentando ancora di sedurre Horace. Laura scopre la tresca, il marito chiede perdono e Rita si pente.

La Vampira è qui sottoposta a un processo di “normalizzazione”, perché non trionfa come nella tradizione teatrale ispirata alla poesia di Kipling, ma viceversa giunge al pentimento in un classico happy end. Il nome italiano dato al personaggio della Vampira segnala inoltre che era arrivata oltreoceano l’influenza del sorgente fenomeno tricolore delle Dive, spesso simili alle donne fatali di Hollywood (della fugace presenza di Vampire nel cinema muto italiano tratteremo in un prossimo articolo).

Pubblicità per The Vampire’s Trail (1914)

Dopo il successivo boom delle Vamp/ire grazie a Theda Bara, la Kalem riproporrà ancora Alice Hollister in un ruolo vampiresco per The Lotus Woman, nel 1916, presentando l’attrice come “the original screen vampire”. Scriverà “The Moving Picture World” (24 giugno 1916): “Quando uno storico del cinema arriverà al capitolo dedicato alla mania per le vampire, dovrà assegnare una menzione speciale a Alice Hollister, in quanto ‘vampira originaria del cinema’. La star della Kalem sarà ricordata come ‘la’ vampira del cinema prima che quel tipo di personaggio diventasse una fonte comune di ispirazione per scrittori e produttori di film”. Sempre nel 1916 la casa produttrice Kalem prenderà in giro se stessa con una parodia della Vampira, An Innocent Vampire, un corto comico dell’allora famosa “Sis Hopkins” interpretata da Rose Melville: per una serie di equivoci, Sis appare a tutti come una cacciatrice di uomini che sottrae alle rispettive mogli e fidanzate, ma alla fine si scopre la sua buona fede.

Rose Melville in An Innocent Vampire (1916)

La Vampira attraversa l’Europa

Il personaggio della Vampira kiplinghiana e delle danze relative doveva presto varcare l’oceano e riverberarsi nel cinema europeo. Nell’ottobre 1911 una Vampira compare in Germania nel cortometraggio (218 metri) dal titolo Der Vampyr, grazie al produttore tedesco Oskar Messter. Distribuito in America nel gennaio 1912, per l’ennesima volta con il titolo The Vampire, il corto è così sintetizzato da “Moving Picture World” (20 gennaio 1912): “Un giovane milionario dopo l’incontro con una donna vampira sogna che lei entri nel suo appartamento e disprezzi i doni che le getta ai piedi. Il giovane si contorce per la sofferenza, fino a che cade sul pavimento e si sveglia rendendosi conto che è stato tutto un sogno. Allora si toglie dalla mente l’immagine di lei e torna a essere un uomo assennato”.

Qualche anno dopo Messter riproporrà il tema producendo il corto di 36 minuti Vampirette (1916), dove la perfida pianista Adele (Wanda Treumann) tenta il suicidio sdraiandosi sui binari del treno, ma è salvata dalla giovane Hertha (Claire Praetz): come ricompensa per il suo gesto generoso, Adele le seduce il marito (Viggo Larsen) e Hertha si uccide coricandosi a sua volta sui binari.

Clara Wieth in Vampyrdanserinden (1912)

Messter era un produttore che tentava di competere con le potenti ditte cinematografiche scandinave, a loro volta dedite a sfruttare l’interesse per le donne fatali vampiresche. Nel 1912 esce il film danese Vampyrdanserinden (Ballerina vampira), della casa produttrice Nordisk e con regia di August Blom, distribuito un anno dopo per il pubblico anglofono come Vampire Dancer – A Tragedy of the Stage. È uno dei pochi film della saga sulla Vampira di inizi secolo che non è perduto.

Silvia Lafont (Clara Wieth, vero cognome Pontoppidan) è una ballerina famosa per la sua “Danza della vampira”. Il suo nuovo compagno di ballo, Oscar Borch (Robert Dinesen), si innamora di lei, ma la giovane è fidanzata e lo respinge. Disperato per il rifiuto, Oscar si avvelena e muore mentre balla la “Danza della vampira” con Silvia.

Clara Wieth e Robert Dinesen in Vampyrdanserinden

Vampyrdanserinden fece scalpore soprattutto per la danza vampiresca, a conferma della popolarità di quel ballo in tutta Europa e non solo in America. Ed è importante notare che la raffigurazione cinematografica di quella danza, con la Vampira che strangola e poi morde la sua vittima, precede di un anno il film americano The Vampire della Kalem dove si reclutarono Eis e French per lo stesso ballo.

Va ricordato che la Danimarca aveva già proposto il tema della donna fatale nel 1910, con Afgrunden (L’abisso) dove Asta Nielsen si esibiva in una Apache dance (che il quotidiano “Nationaltidende” del 13 settembre 1910 definiva esplicitamente “vampyrdans”) e poi uccideva il suo compagno. Non a caso, Georges Sadoul si è spinto ad affermare che “la vamp è una creazione danese” (Histoire générale du cinéma, Tome III, primo volume, Denoël, Paris 1946).

Le suggestioni di Vampyrdanserinden sono state ribadite in anni recenti dallo scrittore svizzero di lingua tedesca Christian Kracht nel suo romanzo Die Toten (2016; trad. it. I morti, La nave di Teseo, Milano 2021). Il protagonista del libro, Nägeli, negli anni Trenta si reca alla sede della Nordisk per farsi mostrare il film Vampyrdanserinden, ma la pellicola durante la proiezione prende fuoco e si deve ricorrere a un estintore: “Nägeli ne rimase incantato, restò seduto profondamente toccato nell’animo dall’ipnotico caleidoscopio magenta, verde, blu, giallo, turchese sullo schermo davanti a lui, prodotto dal fascio di luce del proiettore che trapassava la schiuma antincendi”.

Il morso della vampira in Vampyrdanserinden

Anche la cinematografia rivale della Danimarca, quella svedese, mette in cantiere un film melodrammatico sulla Vampira. Nel febbraio 1913 esce in Svezia il film di 43 minuti Vampyren, noto anche con il sottotitolo En kvinnas slav (Lo schiavo di una donna), scritto e diretto da Mauritz Stiller, uno dei più prestigiosi registi svedesi. L’interprete principale era Victor Sjöström, in procinto di passare dietro la macchina da presa per diventare celebre con film come Körkarlen (Il carretto fantasma, 1921). L’attrice che interpretava la Vampira tentatrice di turno era la danese Lili Bech che un anno dopo si sposerà con Sjöström.

Il tenente Roberts (Victor Sjöström) si invaghisce di Theresa (Lili Bech), un’avventuriera senza scrupoli che lo deruba e lo costringe a falsificare una cambiale. Scoperto, Roberts è costretto a fuggire dalla polizia e lo scandalo fa morire di crepacuore sua madre (Anna Norrie). Roberts anni dopo trova impiego come lavorante in un teatro americano di varietà, dove si esibisce proprio Theresa. Respinto dalla donna, Roberts tenta di ucciderla. Quando Roberts cade rovinosamente durante il suo lavoro, Theresa lo soccorre e si pente.

Il pubblico parve gradire il film, affollando le sale, poi intervenne la censura per le implicazioni sessuali di alcune scene. I critici, da parte loro, dedicarono scarsa attenzione a Vampyren, pur lodando gli interpreti e in particolare Lili Bech. Vampyren è oggi un film perduto, ma nel 1980 sono riemersi 8 secondi di pellicola, il primo piano di un bacio tra Sjöström e la Bech.

Lili Bech e Victor Sjöström in Vampyren (1913)

Hiawatha, la danza della Vampira

Nel 1913 ancora la Germania offriva un riferimento alla “danza della vampira” con un film in due bobine della casa produttrice Colonia, Hiawatha, uscito in contemporanea con Der Student von Prag (Lo studente di Praga), il grande classico del cinema tedesco nato dalla collaborazione tra Hanns Heinz Ewers, Stellan Rye e Paul Wegener.

A interpretare Hiawatha erano Joe Biller e Hild Hadges, una coppia di ballerini piuttosto nota sulla scena europea per la “danza della vampira”: nel dicembre 1913, ad esempio, portano la loro  “vámpírtánc” a Budapest e nell’aprile 1915 saranno in Italia con le loro “danze acrobatiche” al teatro Fenice di Trieste. Si leggeva su “Il Piccolo”(22 aprile 1915): “Hild Hadges e Joe Biller, i bravissimi danzatori americani, ottennero anche ieri vivo successo e furono alla fine della suggestiva ‘Danza del Vampiro’ chiamati ripetutamente alla ribalta. Spettacolo davvero magnifico”. Il legame di Biller con l’Italia doveva durare a lungo, se nel novembre 1933 si esibiva ancora in un “trio di danze” al Rossini di Venezia.

Recensendo il film Hiawatha, il quotidiano “Metzer Zeitung” (7 marzo 1914) affermava che “lo stesso imperatore Francesco Giuseppe I e l’erede al trono l’arciduca Francesco Ferdinando d’Este hanno ammirato l’arte della coppia Joe Biller e Hild Hadges”. Secondo quanto si desume dalla stampa dell’epoca, il film presentava una Vampire dance dove la donna, per gelosia, durante il ballo bacia violentemente il partner e poi lo morde al collo, uccidendolo. Hiawatha fu vietato ai minori dalla polizia di Monaco e Berlino e poi censurato.

Pubblicità da “Lichtbild-Bühne” n. 33,1913

Il primo a segnalare Hiawatha come film di vampiri è probabilmente Denis Gifford nel suo Movie Monsters (Studio Vista, London 1969), ma non è stato preso in considerazione negli studi sul genere, anche a causa di un fraintendimento: il caso volle che nello stesso anno uscisse in America un film dall’identico titolo Hiawatha, ispirato a un noto poema di Henry Wadsworth Longfellow e incentrato sui nativi americani. Si è così creato un equivoco, testimoniato da innumerevoli filmografie, che ha “fuso” i due film e i loro interpreti a detrimento della pellicola tedesca. Il film americano diretto da Edgar Lewis, infatti, è rimasto celebre per essere il primo interpretato da veri nativi, oscurando così involontariamente l’esistenza dell’omonimo tedesco dal ben diverso contenuto.

Nel settembre 1913 anche in Gran Bretagna appare una Vampira cinematografica, nel cortometraggio della Searchlight Films dal solito titolo The Vampire, perduto e di cui si sa pochissimo. Ambientato in India, vedeva un esploratore uccidere la donna che aveva portato alla morte un suo amico, poi la femme fatale resuscitava, si trasformava in serpente ed eliminava anche l’esploratore. Il film ottenne persino un remake con Heba, the Snake Woman (1915), a sua volta perduto, imperniato su una principessa azteca con le stesse attitudini alla trasformazione in serpente. L’argomento era stato peraltro già affrontato nel 1912 nel film americano di 52 minuti The Reincarnation of Karma, diretto da Van Dyke Brooke, con la donna fatale interpretata da Rosemary Theby che sarà poi la fata Morgana in A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court (1921).

Il sacerdote indiano Karma (Courtenay Foote) resiste alle tentazioni sessuali messe in atto dall’incantatrice Quinetrea (Rosemary Theby), capace di trasformarsi in serpente. Secoli dopo Quinetrea riappare al giovane Leslie, che è la reincarnazione di Karma, e fa cadere in coma la sua fidanzata (Lillian Walker).

The Reincarnation of Karma (1912)

Altre Vampire kiplinghiane

Se gli scandinavi Vampyrdanserinden e Vampyren, l’inglese The Vampire e i tedeschi Der Vampyr e Hiawatha non dichiaravano il loro debito nei confronti di Kipling, in America il riferimento alla fonte letteraria era ancora efficace. Nel 1913, la Vitagraph produce The Vampire of the Desert (1913), cortometraggio in due bobine diretto da Charles L. Gaskill che la pubblicità definiva come “adattamento della ben nota poesia di Kipling” (“Moving Picture World”, 10 maggio 1913). La “vampira del deserto” aggiungeva ulteriori capacità sovversive alla figura della donna fatale: la distruzione della famiglia tradizionale da parte della Vampira comportava in questo caso la seduzione di padre e figlio.

The Vampire of the Desert è perduto, ma può essere dettagliatamente immaginato grazie a una novelization di Norman Bruce, basata su una copia del film inviata dai produttori e apparsa sulla rivista “Motion Picture Story” (giugno 1913).

La fascinosa Lispeth (Helen Gardner) vive in una capanna nel deserto con un uomo che la ama follemente, Ishmael (Harry T. Morey), e con la vecchia madre di lui, Hagar (Flora Finch). Il ricco banchiere William Corday (Tefft Johnson), in viaggio con la moglie (Leah Baird) e il giovane figlio Derrick (James Morrison) accompagnato dalla fidanzata Ethel (Norma Talmadge), si imbatte nella capanna durante una gita. William subisce subito il fascino di Lispeth che ne approfitta per unirsi al gruppo di turisti e sfuggire alla sua insoddisfacente vita nel deserto. Il banchiere è deciso a lasciare la sua famiglia per amore di Lispeth, ma il figlio scopre i suoi piani. Lispeth seduce anche il giovane Derrick e scatena la rivalità tra padre e figlio. Quando la situazione sta per precipitare, ecco apparire Ishmael che riporta di forza Lispeth nel deserto e la uccide.

La novelization di The Vampire of the Desert su “Motion Picture Story” (giugno 1913)

Poco prima di The Vampire of the Desert era uscito in America un altro film, Red and White Roses, che prendeva ispirazione non tanto da Kipling, ma dal testo teatrale e dal romanzo A Fool There Was di Porter Emerson Browne, associando come in quei due antecedenti la Vampira alle rose (ovviamente rosse, mentre quelle bianche sono riservate alle “donne per bene”). La trama era molto simile alle due opere di Browne e se in A Fool There Was il protagonista maschile era impegnato in importanti attività diplomatiche per il governo, qui c’è un politico in carriera, Morgan Andrews (William Humphrey), che si fa sedurre e portare alla distruzione da una donna.

Il personaggio della storia di Browne era felicemente sposato, così come Andrews ha una fidanzata di buona famiglia, Beth (Leah Baird), che lo adora. A sovvertire la situazione interviene l’attrice Lida de Jeanne (Julia Swayne Gordon, già Lady Godiva in un corto del 1911), capace di far perdere la testa a Andrews. In questo caso, però, la Vampira agisce in nome di un vero e proprio complotto politico, manovrata dal fratello che è un avversario di Andrews. La relazione tra Andrews e Lida finisce sui giornali e l’uomo perde le elezioni. Dopo lo scandalo, Andrews teme che la fidanzata lo lasci, rovinando anche la sua vita privata: quando vede Beth priva di sensi, ma in realtà solo addormentata, è sconvolto e il giorno dopo viene trovato morto.

Red and White Roses (1913)

Parodie di Vampire

La Vampira kiplighiana era ormai tanto famosa che poteva diventare oggetto di parodia, come dimostrano tre cortometraggi comici del 1914. A marzo esce A False Beauty, in una bobina, prodotto dalla Keystone di Mack Sennett, il “re della commedia” che era in procinto di lanciare il successo di Charlie Chaplin. Il film, diretto e interpretato da Ford Sterling, mette in ridicolo la donna fatale e sarà riproposto nelle sale nel 1918 con il più esplicito titolo A Faded Vampire. Una copia è conservata alla Library of Congress.

Un uomo (Ford Sterling) spasima per una fanciulla dai molti corteggiatori (Alice Davenport) e la copre di doni. Quando, spiandola dalla finestra, scopre che la ragazza ha una parrucca e i denti finti tenta di riprendersi i gioielli che le ha regalato.

Pubblicità e un fotogramma di A False Beauty / A Faded Vampire (1914)

A giugno 1914 è la volta di Universal Ike Jr. and the Vampire, uno dei corti comici di ambientazione western che avevano come protagonista il personaggio del cowboy Alkali Ike, talmente famoso che si produssero dei pupazzi con la sua immagine. L’attore che lo interpretava, Augustus Carney, era passato dalla casa di produzione Essanay alla Universal e così il personaggio cambiò nome, diventando Universal Ike Jr.

Nel corto Universal Ike Jr. and the Vampire, Ike contende ad altri pretendenti l’amore di una fanciulla, ma la Vampira lo depreda di tutti i suoi beni. Il ruolo della Vampira era affidato a Louise Glaum, presenza ricorrente nei film di Ike come tipica “ragazza del West”. In breve la Glaum si specializzerà in parti di vamp, tanto che quando nel 1916 interpreta una donna fatale in The Wolf Woman, è proclamata “the greatest vampire woman of all time.”

Louise Glaum, “the greatest vampire woman of all time” (da “Photoplay”, dicembre 1914)

Nel settembre 1914 esce poi un altro cortometraggio comico dal titolo A Fool There Was, scritto, diretto e interpretato da Frank C. Griffin. Era una presa in giro dei film sulla Vampira rovinauomini, qui interpretata da Mabel Paige, un’attrice che diventerà molto attiva nel cinema muto e continuerà la carriera fino alla tarda età con varie apparizioni televisive. In una parte minore recitava anche Oliver Hardy. Dopo l’uscita del film omonimo con Theda Bara si dovette cambiare il titolo, trasformandolo in She Wanted a Car.

George (Jerold T. Hevener) si innamora di una ragazza, Bess (Mabel Paige), che vuole a tutti i costi un’automobile. Per non perderla, l’uomo impegna tutti i suoi beni e acquista un’auto, ma investe un poliziotto (Oliver Hardy) e finisce in prigione. Assume poi un autista (Frank C. Griffin), sempre per accontentare la sua bella, e quello fa la corte a Bess fino a soppiantare George e a sposarla.

Apparentemente, la Vampira cinematografica partorita dalla poesia di Kipling stava arrivando alla sua fase finale, ormai stereotipo oggetto di parodie. Invece il 1915, a quasi vent’anni dalla poesia The Vampire, porterà una sorpresa sconvolgente, grazie al film con Theda Bara A Fool There Was che aprirà una lunga fase caratterizzata dalla immortale figura della vamp. Ne parleremo in un prossimo articolo.

Pubblicità per A Fool There Was (1915)

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 6

Il Vampiro psichico di George Sylvester Viereck

Abbiamo visto negli articoli precedenti che il 1909, a dodici anni di distanza dalla poesia The Vampire di Rudyard Kipling, ha ospitato un’ondata senza precedenza di vampiri, soprattutto a teatro. Quell’anno si era aperto con uno spettacolo teatrale, The Vampire, tratto non da Kipling, ma dal romanzo breve The House of the Vampire di un autore interessante e controverso: George Sylvester Viereck, nato in Germania nel 1884. Il padre, che si diceva fosse figlio illegittimo del Kaiser Guglielmo I, era un attivista marxista che emigrò negli Stati Uniti nel 1896. Qui George Sylvester fin da giovanissimo si dedica alla poesia. A 17 anni aveva stretto amicizia con Lord Alfred Douglas, il poeta che era stato compagno di Oscar Wilde, e nel suo Youthful Diary 1899-1903 affermava: “Amo tutto ciò che è malvagio! Amo lo splendore della decadenza, la ripugnante bellezza della corruzione. Ciò che odio sono gli inquisitori, freddi, gelidi raggi del sole. Il giorno è nausea, il giorno è noia, il giorno è prosa. La notte bellezza, amore, splendore, poesia, vino, aggressione, violazione, vizio e torpore. Io amo la notte”.

Nel 1905, Viereck fece girare la notizia, da lui inventata, che Wilde non era morto, ma si era nascosto in attesa di un ritorno spettacolare quando le leggi britanniche sulla sodomia fossero cambiate. Dopo aver pubblicato apprezzate poesie, Viereck a ventidue anni scrive The House of the Vampire (Moffat, Yard, New York 1907), dove il Vampiro non sottrae sangue alle sue vittime, ma idee.

Il Vampiro del titolo è un divo del mondo letterario, Reginald Clarke, ispirato chiaramente a Oscar Wilde. Noto a New York per l’oratoria affascinante, Clarke attrae nella sua casa giovani intellettuali che sono sedotti dalla sua forte personalità. La lussuosa “casa del vampiro” si trova a Riverside Drive, elegante strada alberata sul fiume Hudson. È una sorta di tipica casa del decadentismo, nello stile (in Italia) delle abitazioni di Gabriele D’Annunzio o di Mario Praz. Tra pesanti drappeggi che mantengono nelle stanze una parziale oscurità, sul camino c’è un satiro con Santa Cecilia, poi ci sono fauni, sfingi, busti di Shakespeare e Balzac ai quali Clarke si paragona, ritratti di Napoleone e damine rococo.

Il giovane poeta Ernest Fielding va a vivere nella casa di Clarke, ma presto si rende conto che alcuni personaggi e situazioni da lui creati compaiono nelle opere del suo ospite. Clarke gli spiega che il genio è caratterizzato dalla capacità di “assorbire” dalla vita: “ri-creare”, dice, è la prerogativa del poeta. Un amico scultore confida a Ernest di aver perso improvvisamente l’idea di una statua che voleva scolpire, “come se un soffio di vento l’avesse portata via”. E anche la bella artista Ethel Brandenbourg ha la sensazione di essere derubata della sua creatività e mette in guardia Ernest, innamorato di lei: “Di certo sai che nelle leggende di ogni nazione si legge di uomini e donne chiamati vampiri. Sono esseri, non sempre del tutto malvagi, che ogni notte un impulso misterioso spinge a introdursi nelle camere da letto incustodite per succhiare il sangue di chi dorme e poi, rinvigoriti dalla vita delle loro vittime, si ritirano con cautela. Per questo motivo hanno le labbra molto rosse. Si è detto anche che non possano trovare riposo nella tomba, ma tornino nei loro luoghi precedenti dopo che sono stati ritenuti morti. Coloro ai quali fanno visita, comunque, languiscono senza una ragione apparente. I medici scuotono le teste sapienti e parlano di consunzione. Ma a volte, ci garantiscono antiche cronache, nella gente sorgevano dei dubbi e sotto la guida di un buon prete andavano in solenne processione alle tombe delle persone sospettate. E aprendo le tombe si scopriva che le bare erano marcite e i fiori nei capelli erano neri. Ma i loro corpi erano intatti, non c’erano orbite vuote dove strisciassero vermi e le labbra con cui succhiavano erano ancora inumidite da un po’ di sangue”.

Il nesso con il vampiro soprannaturale è quindi dichiarato. Del resto, come il vampiro leggendario Clarke si introduce nascostamente nelle camere da letto delle proprie vittime, per sottrarre le idee durante il sonno. Invece del morso, usa le mani per trasmettere a sé stesso le idee degli altri o, di giorno, fissa intensamente negli occhi le sue prede. Espropriate delle loro idee, le vittime del Vampiro sentono estinguersi la fiamma artistica. A loro è sottratto lo spirito e sono assorbite non solo le idee, ma tutte le energie mentali delle prede, svuotate dei migliori pensieri, della forza vitale, fino a precipitare in una catastrofe fisica e psichica.

Come la Vampira di A Fool There Was, anche Clarke trionfa alla conclusione del romanzo, senza lieto fine. Nelle ultime righe Ernest è ridotto a una larva, gli occhi ormai privi di qualsiasi scintilla, “senza presente e senza passato”, un idiota che farfuglia e inciampa scendendo una scala. Si noti che una scala era anche lo sfondo scenografico dei vari balletti ispirati alla poesia di Kipling The Vampire, che abbiamo descritto in articoli precedenti.


La copertina originale del romanzo e, accanto, un’edizione francese del 2003, tradotta e introdotta da Jean Marigny, esperto di vampiri letterari

Al contrario di altri scrittori vittoriani e degli inizi del secolo, Viereck non ritrae negativamente il Vampiro, ma implicitamente lo assolve e anzi parteggia per lui, spiegando così la sua interpretazione del vampirismo: “Nel trattare questo argomento ho fatto ciò che altri scrittori non hanno fatto: cioè, l’ho reso psichico. Il mio Vampiro è il Superuomo di Nietzsche. È giustificato nel rubare dalle menti degli altri. È una figura peculiare della letteratura e del teatro nel mondo” (“New York Times”, 30 gennaio 1909).

Il vampirismo spirituale proposto da Viereck è attuato da geni con la statura di giganti che fanno avanzare la cultura e la società, depredando gli inferiori. Nina Auerbach sostiene che in Viereck “il potere del vampiro non è solo perverso, ma progressista: i vampiri di Stoker sono atavici nemici del progresso, i vampiri psichici di Viereck sono motori dell’avanzamento umano” (Our Vampires, Ourselves, The University Press of Chicago, Chicago 1995).

Oltre a essere una lode del Superuomo,The House of the Vampire è una sorta di celebrazione del plagio (su questo aspetto è imprescindibile Paul K. Saint-Amour, The Copywrights: Intellectual Property and the Literary Imagination, Cornell University Press, Ithaca 2011). Da poco le legislazioni europee avevano esteso il copyright anche dopo la morte degli autori e Viereck di fatto si oppone al concetto stesso di “diritto d’autore”, soprattutto nei confronti di opere non pubblicate: i “geni” sono autorizzati ad appropriarsi delle idee da creatori incapaci o senza doti straordinarie e per un “Superuomo” è lecito impadronirsi delle creazioni di autori “inferiori”.

Tra Clarke, uomo maturo, e la giovane vittima Ernest c’è un’attrazione omosessuale, tanto che il romanzo è convenzionalmente definito “gay vampire novel” e indicato come una delle prime rielaborazioni omoerotiche del vampirismo. Viereck, del resto, nelle sue prime poesie trattava spesso di amori tra uomini, ma in realtà i due protagonisti principali del romanzo sono bisessuali, perché entrambi amano o hanno amato delle donne.

George Sylvester Viereck

Dal romanzo al teatro

A due anni dall’uscita di The House of the Vampire, la permanente popolarità del vampiro in versione kiplinghiana induce Viereck a trasporre il romanzo in un testo teatrale in tre atti, scritto con il suo compagno di studi Edgar Allen Woolf che molti anni dopo sarà tra gli sceneggiatori del film The Wizard of Oz (Il mago di Oz, 1939). Per il teatro si sceglie di intitolare l’opera soltanto The Vampire, proprio come la poesia di Kipling e il quadro di Burne-Jones.

Prodotto dai celebri manager teatrali Jacob J. Shubert e Lee Shubert, The Vampire dopo un’anteprima a Albany fa il suo esordio all’Hackett Theatre di Broadway il 18 gennaio 1909 e chiude dopo 24 repliche, per spostarsi poi alla Grand Opera House di Chicago. Il ruolo del Vampiro era interpretato da John E. Kellerd, la vittima da John Westley e nello spettacolo recitava nella parte di un’altra delle vittime anche Warner Oland, futuro Fu Manchu e Charlie Chan sugli schermi. In occasione delle rappresentazioni si stampò un volantino con la domanda: “Credete nei Vampiri?”. Distribuito in un centinaio di copie, ottenne il 97 % di risposte “Sì”.

Il testo teatrale non è stato pubblicato e si possono desumerne i contenuti solo dalle recensioni di allora. La revisione del romanzo firmata da Viereck e Woolf cambia il finale, con la protagonista femminile che salva il giovane poeta, ma lascia intatte le riflessioni sul “vampirismo letterario”. Cambiano anche i nomi dei personaggi. Reginald Clarke diventa Paul Hartleigh, Ernest diventa Caryl e Ethel Brandenbourg si trasforma in Allene Arden modificandone inoltre la biografia: nel romanzo Ethel era un’ex amante di Clarke, mentre nel testo teatrale Allene è figlia di una passata amante dello scrittore e lo chiama “papà”. Nella conclusione dello spettacolo, Allene resta di notte nella camera da letto di Caryl e sorprende il Vampiro che sta per rubare dalla mente del giovane le idee di un suo romanzo non ancora scritto: gettandosi tra Caryl e il Vampiro, Allene impedisce l’estrema sottrazione di idee e vitalità. L’atto di vampirizzazione era visualizzato mostrando Hartleigh che pone le mani sulle teste delle sue vittime, mentre dormono, per assorbirne i pensieri.

Per quanto alcune critiche lo reputassero debole e “caotico” (“The Billboard”, 13 febbraio 1909), “freddo” e incapace di suscitare simpatia nel pubblico (“The New York Press”, 22 gennaio 1909), The Vampire suscitò più ancora del romanzo grande attenzione (anche per il tema della “proprietà letteraria” rubata), tanto che il fratello di Woolf, lo stimato pittore Samuel Johnson Woolf, scrisse a Mark Twain pregandolo di vedere The Vampire all’Hackett Theatre e mettendogli a disposizione un palco. Lo spettacolo restò in tournée per due anni sotto le cure dei fratelli Shubert e l’attore italiano Amleto Novelli voleva portare The Vampire in Europa, ma il progetto pare non si sia concretizzato.

Paradossalmente Viereck e Woolf, che avevano scritto quel testo fantasticando sul plagio, finirono accusati di plagio. Uno scrittore, Arthur Stringer, sosteneva di aver trovato interi passaggi di un suo romanzo nell’opera teatrale. Il commediografo Maurice Lyons intentò una causa affermando di avere scritto nel 1907 un testo dallo stesso titolo The Vampire. Analogamente Madame Fuji-ko (della quale abbiamo scritto qui) rivendicava il copyright sui titoli The Vampire, The Vampire Cat e The Vampire Cat of Nabeshima, accusando Viereck e Woolf di essersi appropriati indebitamente di quel titolo.

I due protagonisti principali di The Vampire in una vignetta da “The Evening World” (19 gennaio 1909)

Viereck dopo The Vampire

Considerato ormai un giovane prodigio, Viereck proseguì la sua scalata nel mondo giornalistico e letterario. Non nascondeva le sue posizioni reazionarie, opposte a quelle del padre, che lo porteranno a subire il fascino di Hitler e diventare un propagandista del nazismo in terra americana. Godeva tra l’altro dell’amicizia e della protezione di grandi intellettuali non certo di destra come H.G. Wells e George Bernard Shaw (vedi John V. Antinori, Androcles and The Lion Hunter: G.B.S., George Sylvester Viereck, and the Politics of Personality, “Shaw”, vol. 11, 1991). Con Shaw l’amicizia non tramontò mai, anche se tra i due si intromise un episodio che si potrebbe definire di “vampirismo”: Shaw accusò Viereck di avergli attribuito, facendogli un’intervista, considerazioni che erano solo sue. In una lettera del 6 dicembre 1929, Shaw protesta duramente con Viereck per quell’intervista che non conteneva nulla di autentico e lo accusa di “guadagnarsi da vivere” attribuendo a lui le sue opinioni personali, facendogli dire cose che non ha detto. Insomma, Viereck avrebbe approfittato dell’intervista per vampirizzare Shaw e veicolare le proprie opinioni (“ti limiti a riportare tue nozioni che sono suggerite dagli argomenti che io menziono”, si legge nella lettera).

Oltre a Wells e Shaw, tra le amicizie di Viereck si annoverava anche Nikola Tesla, mentre con Aleister Crowley collaborò per la rivista “The International”. Alla ricerca di “geni” che avvalorassero le sue teorie superomistiche, Viereck intervistò Sigmund Freud e Albert Einstein, incontrò Benito Mussolini, ma rimane negli annali soprattutto la sua intervista a Adolf Hitler dell’ottobre 1923 pubblicata su The American Monthly”, periodico diretto dallo stesso Viereck (significativo, per i tempi odierni, lo slogan “America First” che campeggiava accanto alla testata). Hitler, non ancora Führer, delineava il suo progetto politico e proclamava soprattutto il suo odio per i comunisti e il marxismo. Quando anni dopo è ristampata in forma modificata daLiberty” (9 luglio 1932), l’intervista si apre con una frase dalle assonanze vampiresche. Descrivendo il colloquio con il capo dei nazionalsocialisti, avvenuto sorseggiando del tè, Viereck commenta: “Adolf Hitler svuotò la sua tazza come se non contenesse tè, ma il vivo sangue del bolscevismo”.

Fervente anticomunista, Viereck era stato già al centro di polemiche per la sua propaganda filotedesca durante la Grande Guerra, tanto che la sua casa nel 1918 fu protetta dalla polizia per timore di attacchi. Negli anni Trenta è un sostenitore di Hitler e continua a promuovere le politiche naziste anche durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1941 per il suo collaborazionismo subì un processo che fece scalpore e lo portò a trascorrere quasi quattro anni in prigione. Viereck ottenne comunque un trattamento privilegiato, in una cella dotata di libreria e dove aveva potuto portare preziosi oggetti personali. Dopo la scarcerazione pubblica un libro di memorie sulla condizione di vita in prigione e un ultimo romanzo, The Nude in the Mirror  (Woodford Press, New York 1953). Muore nel 1962, a 77 anni.

L’intervista di Viereck a Hitler (da “Liberty”, 9 luglio 1932)

VAMPIRI A SMOLENSK

Quanti sanno che la serie tv più amata e popolare in Russia negli ultimi anni (tra pandemia e guerra) è una serie sui vampiri? Si intitola Vampiry sredney polosy, traducibile come “Vampiri dei territori centrali”: i “territori centrali” sono quelli di Smolensk e dintorni, dove si ambienta la serie.

Commedia horror unita a dramma, a storie d’amore e a meccanismi del poliziesco, Vampiry sredney polosy si incentra su una “famiglia” di vampiri, guidata da un anziano. Ibrido tra What We Do in the Shadows e La famiglia Addams (con suggestioni anche dalle saghe occidentali sui supereroi: ogni vampiro ha un suo personale superpotere), è stata veicolata dall’azienda russa di streaming Start dal marzo 2021 e poi dalla rete TNT.

Nell’episodio d’apertura della prima stagione, diretta da Anton Maslov, facciamo subito la conoscenza con il giovanissimo Zhenya (Gleb Kalyuzhny), diventato vampiro da poco tempo, che si dedica a dissanguare umani senza arrivare a ucciderli, portando fiale piene di sangue alla sua “famiglia”.

Il protagonista principale è Svyatoslav Vernidubovich (Yuri Stojanov), detto Nonno Slava, vampiro dalla notte dei tempi con un suo precipuo superpotere: può volare, anche se con difficoltà data l’età avanzata, e si trasforma in mostruoso pipistrello. È lui il capofamiglia: nel corso dei secoli ha reso vampiri tre persone che si trovavano in pericolo di morte e poi le ha riunite per creare una “famiglia”. Oltre a Zhenya, vivono con lui Jean (Artem Tkachenko) e Anna (interpretata da Ekaterina Kuznetsova nella prima stagione, Anastasiya Stezhko nella seconda).

Jean è un francese, medico in epoca napoleonica quando venne reso vampiro da Slava. Oggi lavora in un ospedale di Smolensk, sempre pronto a sedurre giovani infermiere. Grazie al suo lavoro fornisce alla “famiglia” sacche di sangue. Come superpotere, assaggiando il sangue può sapere tutto sul donatore.

Anna è stata vampirizzata da Slava nell’immediato dopoguerra, quando era agente della milizia sovietica. Anche ai giorni nostri fa la poliziotta, rivelando un carattere duro e femminista. Proprio a lei è affidata l’indagine che coinvolge i vampiri e quindi i suoi “familiari”. Grazie al suo superpotere può leggere i pensieri di una persona toccandola.

Zhenya gestisce un blog sui vampiri e organizza feste vampiresche. Ignora quale sia il suo superpotere, ma scopre la telecinesi e l’incredibile capacità di rigenerazione del suo corpo (Nonno Slava gli trafigge una mano con un coltello e la ferita si rimargina immediatamente).

I succhiasangue di Vampiry sredney polosy non temono la luce del sole e si riflettono negli specchi. Nonno Slava è l’unico che vuole dormire in una bara, per rispetto di antiche tradizioni. Questa piccola comunità vive come una tranquilla famiglia di provincia, cibandosi di sangue senza uccidere nessuno per seguire le precise regole della comunità vampirica, controllata da severi Guardiani, che vietano di togliere la vita agli umani così da non suscitare ostilità.

La famiglia dei vampiri di Smolensk: dall’alto Jean, Anna e Zhenya

La vita della famiglia di vampiri è turbata quando la polizia trova vari cadaveri senza sangue in un boschetto di betulle vicino a Smolensk. Tutti i vampiri della zona sono in pericolo, perché la loro esistenza può essere rivelata, e la famiglia di Nonno Slava deve allontanare ogni sospetto e scoprire i veri responsabili.

La seconda stagione ripete alcuni cliché della prima, con altri omicidi, un altro capo dei Guardiani e alcune novità: una misteriosa bambina testimone di delitti che viene ospitata dalla famiglia dei vampiri, l’arrivo in città di una violenta banda di vampiri e la prigionia di Olga, catturata dai Guardiani perché aspetta un figlio da un umano.

Vampiry sredney polosy è un prodotto per tanti versi di grande raffinatezza, sia nella cura delle immagini (il cinema e la tv della Russia si avvalgono di ottimi professionisti) che nei sottotesti, come le riflessioni sull’umanità in contrapposizione al vampirismo (“essere umani è difficile” dice Nonno Slava). La serie, tra l’altro, non è indirizzata a un pubblico esclusivamente giovanile, sia perché il protagonista principale è un anziano, sia perché evita di concentrarsi (al contrario delle saghe di Buffy l’Ammazzavampiri o di Twilight) su personaggi teenager, ma privilegia gli adulti se si esclude il blogger Zhenya.

Nonno Slava si trasforma

Gli ingredienti che hanno permesso alla serie di ottenere un vasto successo in Russia sono molteplici. I personaggi femminili sono tutti delineati come donne forti e indipendenti, ogni vampiro della “famiglia” attrae l’attenzione degli spettatori con la propria vita individuale, appassionando il pubblico che si affeziona alle loro vicissitudini, in gran parte sentimentali. La serie ospita una delle più intense storie d’amore tra vampiri, quella tra il francese Jean e la contessa Olga Vorontsova (Olga Medynich). È una storia d’amore tempestosa, tra reciproci tradimenti. Jean sposò Olga e poi la lasciò 80 anni prima. Ancora innamorato, oggi Jean si reca a prendersi cura della tomba di lei al cimitero, anche se sa che Olga non è lì. Olga, attrice di mestiere, come tutti i vampiri della serie ha un superpotere: ipnotizza con lo sguardo fascinoso.

Altra storia d’amore è quella tra Anna e il tenace investigatore moscovita Ivan Zhalinsky (Michail Gavrilov) che deve indagare sulle strane morti di Smolensk. Scapolo e donnaiolo, Ivan si innamora presto della collega e ne scopre il vampirismo durante un rapporto sessuale. Nella seconda stagione viene fatto subito morire, a sorpresa, gettando Anna nella disperazione.

La vampira Olga

Vampiry sredney polosy sfrutta la possibilità, tipica delle serie dei film sui vampiri, di ambientare flashback in epoche storiche lontane. Grazie alla sua lunga esistenza, Nonno Slava ha conosciuto tutta la storia della Russia e commenta sarcasticamente vari personaggi, da Stalin a Yuri Gagarin. Non mancano le critiche satiriche all’amministrazione pubblica russa. Irina Vitalievna (Tatiana Dogileva) è una funzionaria statale, ma è anche alla guida dei temuti Guardiani, e Nonno Slava farà capire che i funzionari di Stato, in Russia, possono fare più paura dei vampiri. Implicitamente la serie ci dice qualcosa sulla Russia di oggi e sulla sua cultura: quelle creature trasgressive per antonomasia che sono i vampiri qui sono integrati nella società. Insomma, nella Russia odierna anche i vampiri collaborano al bene del paese.

Vampiry sredney polosy attualmente consta di due stagioni (la prima del 2021 e la seconda del 2022) con 8 episodi ciascuna, più uno speciale natalizio che vede la famiglia di vampiri prepararsi al nuovo anno, ed è stata annunciata la produzione di una terza stagione. Nel 2018 era stato girato un episodio pilota, con alcuni interpreti e il regista differenti da quelli della serie definitiva.

Fin dall’inizio il ruolo cruciale di Nonno Slava doveva andare all’attore Yuri Stojanov che però rinunciò per altri impegni. La parte passò a Mikhail Yeframov, rimasto poi coinvolto in un processo che in Russia ha fatto scalpore, per un tragico incidente automobilistico: a quel punto il ruolo tornò a Stojanov. Un’altra sostituzione fu necessaria per la seconda stagione, dato che l’interprete della vampira-poliziotta Anna, Ekaterina Kuznetsova, aveva lasciato la Russia per dissensi politici.

La serie Vampiry sredney polosy può essere visionata nei servizi a pagamento start.ru e sovietmoviesonline.com (con sottotitoli in inglese).

A questo link https://www.facebook.com/ivo.scanner/videos/1116506389503010/ l’inizio del primo episodio, sottotitolato in italiano, con interessante colpo di scena finale.

Immagine dai titoli di testa della serie

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 4

Le Vampire di de Vylars e Souvestre

Tra le pagine di uno dei primi testi di moderna vampirologia, The Vampire: His Kith and Kin (K. Paul, Trench and Trubner, London, 1928), il reverendo Montague Summers citava uno spettacolo che pochissimi studiosi dell’argomento hanno preso in considerazione: The Vampire, rappresentato al Paragon Theatre di Londra lunedì 27 settembre 1909.

Summers segnalava che lo spettacolo “era stato accolto molto bene” e riportava il commento di “The Stage” (30 settembre 1909): “È una piccola opera teatrale scritta magistralmente e concepita alla maniera del Grand Guignol”. Il riferimento al Grand Guignol, il teatro parigino specializzato in spettacoli violenti e macabri, non era casuale perché The Vampire era in realtà l’adattamento in inglese di un’opera teatrale andata in scena un anno prima a Parigi: Le Vampire, dramma in due atti di Mme. C. de Vylars e Pierre Souvestre. Dell’autrice de Vylars daremo conto più avanti, mentre Souvestre era uno scrittore destinato a grande popolarità e che presto diventerà celebre per il suo personaggio Fantômas, creato con Marcel Allain.

Il cast di The Vampire (da The Era Almanack and Annual 1910)

Il testo risulta perduto, ma la trama di Le Vampire può essere ricostruita grazie alle recensioni di allora (in particolare una estesa sintesi su “Comoedia”, 5 agosto 1908).

Atto primo. Christian è inconsolabile, perché convinto di aver provocato la morte della sua amante Sonia, abbandonandola: la donna, infatti, si è suicidata. Su indicazione di uno strano medico, Christian chiede allo spiritista indù Suratshin di evocare lo spirito della defunta. Suratshin acconsente, ignorando che si tratti di una suicida, dato che le regole dell’occultismo vietano di evocare chi si è tolto la vita. Una seduta spiritica evoca così lo spettro di Sonia: lo spirito predice a Christian che diventerà pazzo. Christian è ossessionato dalle parole di Sonia, perde vitalità e ragione. Jacques, un avvocato che si sente in parte responsabile per la morte di Sonia, dato che Christian l’aveva lasciata su suo consiglio, vuole salvare l’amico e liberarlo dal terrore che lo attanaglia. Si rivolge quindi a Suratshin per inscenare una nuova seduta spiritica.

Atto secondo. Jacques chiede alla giovane attrice Nelly, sua fidanzata, ma che Christian non conosce, di prestarsi a un piano per far rinsavire l’amico: durante la seduta spiritica deve indossare veli per sembrare un fantasma e apparire a un segnale di Jacques, facendo credere di essere la reincarnazione di Sonia, perdonando Christian e garantendogli che non impazzirà. Il piano è messo in atto e Christian crede davvero di avere di fronte la reincarnazione di Sonia. Colto da una folle rabbia nei confronti della donna che tanto lo ha fatto soffrire, spara un colpo di pistola a bruciapelo uccidendo Nelly, convinto che sia lo spettro di Sonia.

Come nella poesia The Vampire di Kipling, non ci sono riferimenti diretti alla sottrazione di sangue ai vivi da parte di un nonmorto. Il significato prevalente della parola “vampiro” in quegli anni si conferma quello metaforico e allusivo, lontano dalle creature leggendarie succhiatrici di sangue. Il fatto che il “vampiro” della vicenda sia di sesso femminile si inserisce certamente nella moda delle donne fatali lanciata dalla poesia The Vampire, ma si accentuano gli elementi soprannaturali, sostanzialmente assenti in Kipling, perché la donna che porta alla rovina un uomo è una defunta tornata dalla morte grazie a una seduta spiritica. La caratteristica più originale del testo teatrale era di unire spiritismo e vampirismo, con la figura di un medium che mette in contatto con i morti. Come vedremo tra poco, il connubio spiritismo-vampirismo si deve alla coautrice de Vylars, direttamente interessata alle teorie spiritiste, ma non va dimenticato che il testo teatrale prendeva origine da un breve racconto dell’altro autore, Souvestre, intitolato Soirée dans le Monde e apparso su “Comoedia” il 10 febbraio 1908. Il racconto contiene alcuni dei personaggi e delle situazioni di Le Vampire, senza la figura dello spiritista indù. Il russo Dimitri soffre di allucinazioni in cui gli appare la fidanzata Sonia da poco defunta: “La rivide una sera, minacciosa, vendicatrice e si immaginò che gli dicesse: ‘Infame Dimitri, tu mi hai tradita!’. (…) Ormai la vedeva ogni notte, non importa dove, al ristorante, al ballo, a casa…”. Nel racconto, è il fratello di Dimitri a reclutare l’attricetta Nelly Roval per fingersi il fantasma di Sonia, ma la conclusione è simile a quella del testo teatrale: Dimitri crede di avere di fronte lo spettro e uccide Nelly con un coltello.

Si può aggiungere che Souvestre all’epoca era in procinto di pubblicare il suo primo romanzo, scritto con Marcel Allain, Le Rour (uscirà come feuilleton tra gennaio e marzo 1909 e in volume a maggio), che contiene alcune suggestioni vampiresche: il diabolico dottor Wumpt ha inventato ali da pipistrello che gli permettono di volare (si notano nell’illustrazione della copertina originale) e vuole creare un essere femminile artificiale dotato di immortalità.

La copertina di Le Rour e una recensione di Le Vampire su “Comoedia” (2 agosto 1908)

Se oggi Le Vampire pare completamente dimenticato, oltre che ignorato dalla saggistica recente sui vampiri, alla sua comparsa sui palcoscenici fece sensazione e la sua notorietà si prolungò per anni, tanto che Ernest Jones, nel suo fondamentale On the Nightmare (Hogarth Press, London 1931; trad.it. Psicoanalisi dell’incubo, Newton Compton, Roma 1978), citava Le Vampire di de Vylars e Souvestre tra i testi fondamentali a tema “necrofilo”, accanto a Justine di D.A.F. de Sade e Le Vampire di Charles Baudelaire.

Quando lo spettacolo Le Vampire fece il suo esordio al teatro parigino Little-Palace nell’agosto 1908 suscitò grandi emozioni. “Nonostante il periodo e le numerose partenze per le località marittime, una folla elegante si è accalcata, ieri sera, nella graziosa sala di rue de Douai”, scriveva “L’Auto-vélo”, giornale al quale collaborava Souvestre, appassionato di automobilismo. Lo spettacolo era definito “tra i più eclettici” e “degno di lodi”, un “dramma occulto” che si era rivelato il grande evento della serata: “I due atti toccanti del Vampire hanno fatto rabbrividire a volontà il pubblico. Tutta Parigi vorrà vedere quest’opera che provoca emozioni supreme” (2 agosto 1908). Aggiungeva “Le Triboulet” (9 agosto 1908): “Questo dramma ben strutturato ed efficace ci ha fatto passare qualche momento pieno d’angoscia”. Il giornale radical-socialista “Le Radical” (7 agosto 1908) si sperticava in elogi, affermando che lo spettacolo “ha ottenuto il massimo successo che si possa immaginare, perché era contemporaneamente un successo di curiosità, un successo di emozione e un successo d’arte”. Gli interpreti, raccontava il giornale, sono stati applauditi a lungo alla fine di ogni atto e l’attrice Magda Maguéra nella parte di Nelly “ha fatto attraversare la sala da un immenso brivido di spavento quando, colpita in pieno cuore da un proiettile sparato dall’infelice impazzito, crolla all’improvviso: non si potrebbe unire meglio la cura per il verosimile con quella per l’estetica”. Non mancavano gli apprezzamenti per la coautrice: “Mme de Vylars ha messo la sua conoscenza approfondita delle scienze occulte al servizio del dato pittoresco fornito da quell’eccellente narratore che è Pierre Souvestre”.

Anche la versione inglese del 1909, The Vampire, ebbe successo, tanto che tornò sul palcoscenico sei anni dopo, il 16 agosto 1915, al Garrick Theatre di Londra durante una affollata rassegna estiva di Grand Guignol. Dalle recensioni dell’epoca, parrebbe che nell’adattamento per il pubblico inglese sia stato modificato il finale. Nell’originale francese tutto si conclude con la morte della giovane attrice, mentre nella versione londinese l’assassino è a sua volta ucciso dall’amico. Nell’allestimento londinese cambiano anche alcuni nomi dei personaggi: Christian diventa Harry Le Strange, Jacques diventa Jack Harringer, Nelly diventa Olga, solo Sonia e Suratshin mantengono lo stesso nome.

L’adattamento e la traduzione per il pubblico britannico erano di un uomo di teatro che dedicò molti anni al progetto di importare in Inghilterra il successo del Grand Guignol. Si tratta di José G. Levy che inizialmente riuscì a rappresentare opere grandguignolesche in varie sale, gestendo poi dal 1920 il Little Theatre di Londra e trasformandolo in un punto di riferimento per gli appassionati del Grand Guignol. Era stato lo stesso Levy ad adattare in lingua inglese L’Angoisse, altra opera macabra di Mme C. de Vylars, e proprio a Levy si dovrà l’allestimento teatrale, nel 1927, del Dracula di Hamilton Deane con Raymond Huntley nel ruolo del vampiro e lo stesso Deane come Van Helsing. Fu proprio quell’allestimento prodotto da Levy che fu visto da Horace Liveright, talmente entusiasta da realizzarne immediatamente una versione per Broadway, con Bela Lugosi nella parte di Dracula, aprendo un altro capitolo decisivo nella storia del vampiro moderno.

Rare immagini dall’allestimento parigino di Le Vampire

Alla scoperta della misteriosa Cilia de Vylars

Chi era Mme C. de Vylars, coautrice con Souvestre di Le Vampire? Di lei è molto difficile trovare notizie. Dietro quella C. non è chiaro quale nome si celasse. Sulla stampa dell’epoca il suo nome è riportato in svariate forme: Célia, Céline, Célier, Coelia, Ceylia, Cilia, Cilla, Cylia, Lilia, Ciliade… Nei testi che scriveva per i giornali si firmava sempre Cilia e qui così la chiameremo.

Quale sia il suo vero nome è difficile stabilire, così come la sua data di nascita. Si può presumere che fosse ventenne nei primi anni del Novecento e il suo cognome fosse Ikelheimer, dato che risulta sorella di Marc Ikel, direttore di “Echos Parisiens” e membro della Association de la presse judiciaire parisienne, il cui vero nome era Marcel-Anatole Ikelheimer, nato nel 1879. Marc Ikel compare nell’elenco di ebrei attivi nelle professioni e nell’amministrazione statale (Etat Statistique des Juifs en 1914, a cura di G. de Lafont de Savines, Revue Antimassonnique, Paris 1914) e la carriera di Cilia si avviava in anni difficili per gli ebrei francesi, in un paese scosso dal caso Dreyfus, quindi si può supporre che come il fratello avesse optato per un “nome d’arte”. La scelta del cognome de Vylars rimanda a una vera famiglia di ascendenze nobiliari che a sua volta ha infinite varianti ortografiche, spesso inopinatamente applicate a Cilia dai giornali: Villar, Viller, Villier, Villiers, Villers, Villis, Villars e, appunto, Vylars. I de Vylars, in particolare, erano una nobile famiglia britannica nota almeno dal Duecento (un Nicholas de Vylars si registra in Sussex nel 1327). A quella famiglia dai tanti nomi, originati da un riferimento a località francesi, risalgono anche gli antichi nobili normanni dei Villiers de L’Isle-Adam e non si può escludere che Cilia abbia scelto il suo pseudonimo in omaggio allo scrittore simbolista Auguste de Villiers de L’Isle-Adam, autore dei Racconti crudeli (Contes cruels, 1883) e del romanzo Eva futura (L’Ève future, 1886).

Con un’attenta indagine nelle emeroteche si scopre, non senza fatica, il percorso intellettuale di Cilia, dal 1902 alla sua morte nel 1911, l’unico periodo che pare documentabile attraverso articoli e citazioni.

Le prime apparizioni del suo nome risalgono ad alcune recensioni teatrali che firma nel corso del 1902 per “La Lanterne de Boquillon”. Escono anche i suoi primi racconti, come la novella Superstition per la rivista “La Famille” e la triste favola macabra Rose fanée; coeur brisé per “Gil Blas illustré”. Avvia nello stesso periodo la sua attività di autrice teatrale con la commedia Le Suiveur, in scena al teatro Tour Eiffel da giugno a dicembre 1902, scritta con l’allora sessantenne Henri Le Verdier, prolifico autore di romanzi ambientati nel mondo vizioso di Parigi. Per l’occasione, proprio “La Lanterne de Boquillon” scrive che quella “curiosa fantasia” in un atto era “originale ed elegante come Mme Cilia de Vylars, che ne è coautrice, nostra davvero affascinante collaboratrice”. Il sodalizio tra la giovane esordiente e l’autore già affermato è molto produttivo: Cilia insieme a Le Verdier scrive tra l’altro i racconti La Torte per “Le Journal du dimanche” (28 dicembre 1902) e La bonne Etoile per “Le Petit Soleil” (21 marzo 1903), il breve pezzo teatrale sul divorzio con tre personaggi Pourquoi ils divorcent per “La Caricature” (30 agosto 1902), il romanzo Très Femme e un feuilleton, Le cercle rouge, che appare nella primavera del 1903 sul quotidiano “Le Rappel”. A febbraio 1903 aveva ripresentato Le Suiveur per un evento del quotidiano “Le Journal”, organizzando per l’occasione con Le Verdier una festa di beneficenza.

Una piccante vignetta illustra un pezzo teatrale di Cilia de Vylars e Henri Le Verdier (“La Caricature”, 30 agosto 1902)

Nel corso del 1903 Cilia scrive la pièce in un atto Fruit vert, rappresentata al Théâtre Rabelais da luglio a dicembre, e sempre a luglio firma i tre atti di Mimi Pinson (ispirati al racconto omonimo di Alfred de Musset, 1845) per il teatro Villerville, poi riproposto al Théâtre de la Bodinière nel 1904. Dello stesso 1903 è anche La Reconnaissance, un atto rappresentato al Rabelais dal 19 novembre. Nel frattempo continua a scrivere per i giornali: firma recensioni teatrali per “Le Petit Sou” e pubblica su “Le Supplément” (15 agosto 1903) la poesia erotica Volupté, una sorta di ode ai “preliminari” nei rapporti sessuali.

Dopo il sodalizio con Le Verdier trova un nuovo partner di scrittura, avviando una stretta collaborazione con Gaston Berthey, giovane giornalista destinato a diventare suo marito. Con lui firma À l’ombre de Kali, una pièce in un atto e in versi, e il testo teatrale La bonne œuvre, allestito in più riprese al teatro Nouvelle Comédie e poi nell’estate 1906 al Théâtre des Arts. In un’occasione, Cilia si improvvisò attrice per sostituire una delle interpreti, dimostrando “un felice talento e convinzione, nonostante fosse la prima volta che calcava una scena” (“Le Soir”, 17 giugno 1906).

Cilia è molto presente nel mondo culturale parigino. Sappiamo che era interessata a temi occulti e seguace dello spiritismo, molto in voga nella Francia di allora e diventato dottrina filosofica grazie alle teorie di Allan Kardec, ma non ci sono testimonianze dettagliate su questo suo interesse. Più evidente, invece, il suo legame con ambienti socialisti e femministi.

Il 7 marzo 1905 tiene una conferenza in cui auspica “una maternità volontaria e ragionata”, nella sede della loggia massonica “La Raison Triomphante” nota per l’appoggio alle istanza femministe. È inoltre sostenitrice della rivista “Carnet de la femme” promossa dalla Contessa Marcelle Weissen-Szumlanska, archeologa ed etnologa.

Le tematiche sociali emergono anche nel suo testo Dans la Boue, “studio dei bassifondi parigini”, rappresentato nel giugno 1906 al Théâtre-Municipal. Nello stesso mese pronuncia un discorso a un evento dell’associazione di beneficenza “Dotation des mères françaises” dove analizza i rapporti tra famiglia e società. Frequenta inoltre il cenacolo intellettuale della rivista “Le Grillon”, mensile “littéraire et satirique” diretto da Edmond Teulet, poeta e chansonnier. L’impegno di Cilia si evidenzia infine nel breve poema drammatico a tema esplicitamente sociale Vers la Force (Lafolye, Vannes 1905), scritto con Gaston Berthey e più volte rappresentato nel 1907: due operai discutono della loro condizione, uno ha scelto di dimenticare i suoi problemi ricorrendo all’alcol, l’altro non rinuncia a lottare per i suoi diritti, restando fedele a un ideale. Entrambi sono destabilizzati da un’operaia che lamenta di essere dimenticata da loro: “Sopporto, più ancora di voi, le iniquità sociali”. I due operai la invitano a unire le forze tra sfruttati: “Vieni con noi, vieni a far sentire la tua voce, e dalle nostre miserie unite e solidali creeremo una nuova forza”.

La scena cruciale di L’Angoisse in una vignetta da “Comoedia” (23 febbraio 1908)

Il successo al Grand-Guignol

Quella parentesi di attivismo radicale e femminista sembra chiudersi quando, nel 1908, arriva finalmente un notevole successo teatrale grazie al testo che rimarrà il più famoso nella breve carriera di Cilia de Vylars, L’Angoisse, firmato con Pierre Mille e in scena il 20 febbraio 1908 al Théâtre du Grand-Guignol di Parigi.

Così “Comoedia” (23 febbraio 1908) riferisce della prima al Grand-Guignol: “Ecco la bellissima Cylia de Vylars, responsabile di L’Angoisse, suo complice Pierre Mille. Anche lei sembra in grande angoscia, la bella Cylia, e ritrova un po’ di calma solo per mormorarmi all’orecchio: ‘Sapete, sono felice: a Mendès [Catulle Mendès, influente scrittore di quegli anni] è piaciuta molto’”.

La trama di L’Angoisse evocava Edgar Allan Poe. Uno scultore allestisce il suo atelier nello studio che era appartenuto a un collega americano, sparito nel nulla. Ogni sera le lampade si spengono misteriosamente e strane presenze ossessionano lo scultore. Una giovane modella, medium senza saperlo, cade in trance e racconta ciò che è avvenuto in quei locali: l’artista americano aveva ucciso la moglie a martellate e sigillato il corpo in un blocco di gesso, ancora abbandonato in un angolo dello studio. “È là!”, urla la ragazza. Lo scultore rompe il blocco di gesso e trova al suo interno il cadavere mummificato.

Lo spettacolo sarà riproposto nel luglio 1914, nel gennaio 1916 e ancora nel settembre 1922 (con la celebre star del Grand-Guignol Paula Maxa, “la donna più assassinata del mondo”). Poco dopo i primi successi parigini, il Grand-Guignol de Paris portò lo spettacolo a Londra, allo Shaftesbury Theatre, e nel 1912 è Jose G. Levy ad adattarlo in lingua inglese, come farà per Le Vampire, presentandolo con il titolo The Medium e riproponendolo per molte stagioni fino al 1932.

La popolarità dello spettacolo indusse Vernon Sewell, regista britannico da riscoprire, ad acquistarne i diritti e a girare ben quattro film ispirati a L’Angoisse: il cortometraggio The Medium (1934), i film Latin Quarter / Frenzy (L’amante della morte, 1945) e Ghost Ship (1952), infine l’episodio televisivo House of Mystery (1961) della serie “Kraft Mystery Theater”. Sewell, ricordiamo, ha diretto un film vampiresco con Peter Cushing, The Blood Beast Terror (Mostro di sangue / Una bestia vestita di sangue, 1968), dove una donna si trasforma in un mostruoso lepidottero ematofago, promosso con lo slogan “The blood lust of a frenzied vampire!!” (La brama di sangue di uno sfrenato vampiro!!).

Poster per il film di Vernon Sewell tratto da L’Angoisse

La buona accoglienza di L’Angoisse e il tema “orrorifico” portano pochi mesi dopo Cilia ad avventurarsi nuovamente nel genere con Le Vampire, in scena al Little-Palace dal primo agosto 1908 e scritto con Pierre Souvestre, ennesimo e prestigioso coautore. Mentre Le Vampire e L’Angoisse mietevano successi, Cilia continua a produrre. Il 17 giugno 1908 la sua poesia L’Eternelle Prostitute è letta in una serata letteraria e teatrale al Nouveau Théâtre d’Art.

Prosegue inoltre la collaborazione dell’autrice con il teatro Little-Palace, scrivendo il balletto Ivanowska in scena a settembre. “Comoedia” (3 settembre 1908) saluta i brividi d’orrore regalati al pubblico e gli applausi trionfali: “Mme C. de Vylars eccelle nelle situazioni drammatiche di una spaventosa semplicità, tanto più atroci quanto più sono semplici”.

Lo spettacolo narra la storia di una ballerina che versa del veleno nella coppa del governatore Potenief, beve da quella stessa coppa per sviare i sospetti e danza perdutamente, torturata da atroci sofferenze, comunque con il sorriso alle labbra, fino a che il tiranno beve infine a sua volta e muore. “La Vie théâtrale” (25 settembre 1908) scrive che Ivanowska “ci permette di applaudire una nuova forma del talento di questa autrice tanto affascinante. Vi ritroviamo il segno potente dell’Angoisse e del Vampire”.

L’inquietante balletto Ivanowska (da “La Vie théâtrale”, 25 settembre 1908)

Nel 1909 Cilia, in qualità di poetessa, ha l’onore di alcune pagine di apprezzamento da parte di Jules Bertaut, critico letterario di grande prestigio. Nel suo libro La littérature féminine d’aujourd’hui (Librarie des Annales, Paris 1909), Bertaut scrive: “Vorrei citare una giovane donna, Mme Cylia de Vylars, che ha già mostrato felici disposizioni per la scena e che avrà successo, ne sono certo, perché ha saputo svincolarsi da un femminilismo eccessivo. Del resto, basta sfogliare le sue poesie per capire che tende verso la poesia baudelairiana, verso la poesia di idee e non solamente verso un semplice connubio di parole, di epiteti e di sensazioni”. Per avvalorare le sue tesi, Bertaut riportava varie strofe di una poesia di Cilia, La Gloire, dove la gloria diventa una sorta di vampiro che porta alla distruzione morale chi ne è alla ricerca, straziando chi non la ottiene.

Uno stringato trafiletto su “L’Éclair” del 31 dicembre 1909 (notizia poi ripresa da “Le Figaro” l’8 gennaio 1910) annuncia: “J. H. Rosny aîné e Mme Cilia de Vylars stanno terminando una pièce in tre atti dal titolo Les Enlisés”. Dopo Le Verdier, Berthey, Mille e Souvestre, forse Cilia aveva trovato un nuovo partner intellettuale in Rosny, grande scrittore del fantastico e pioniere della fantascienza moderna. Purtroppo il progetto non risulta mai concretizzato, ma sarebbe stato interessante assistere alle creazioni in tandem dell’autrice di Le Vampire e del futuro autore di La jeune vampire(1920).

Il 4 novembre 1910 Cilia sposa Gaston Berthey. Dopo il matrimonio la sua attività creativa sembra svanire, forse per gravi problemi di salute. Vive nel cuore di Parigi, a rue de la Rochefoucauld, ma il suo nome non compare più nei teatri o sulla stampa. Si riparla di lei solo sabato 8 luglio 1911, in un necrologio del giornale “Le Rappel”: “Si annuncia la morte di Madame Gaston Berthey, in letteratura Cilia de Vylars, sorella del nostro collega Marc Ikel della cronaca giudiziaria. Le esequie saranno celebrate venerdì. Ci si riunirà al colombarium del Père-Lachaise. Cilia de Vylars ha collaborato a numerosi periodici e il teatro del Grand-Guignol ha rappresentato con successo un atto drammatico che aveva firmato con Pierre Mille”.

Gaston Berthey sopravvive a lungo alla moglie. Si stabilisce nel 1926 al Cairo, come corrispondente del giornale “Le Matin”, viaggia in Brasile e scrive per riviste brasiliane, collabora nel 1930 a “Le Journal des débats” e prosegue la sua vita in Egitto con una nuova e giovane moglie, giornalista. Gaston continuò a dedicarsi alla scrittura: legge i suoi versi nel maggio 1945 a un evento degli Amis de la Culture Française en Egypte, pubblica il romanzo Une vie atatons (Éditions de la Revue du Caire, 1948). Nel 1926 aveva dato un ultimo omaggio a Cilia, organizzando una recita al Cairo della pièce poetica che avevano scritto insieme, À l’ombre de Kali: a interpretare il poema furono due famosi attori francesi che si trovavano in tournée in Egitto, Henri Rollan e Véra Sergine, quest’ultima, va segnalato, madre di Claude Renoir che sarà direttore della fotografia per il film vampirico di Roger Vadim Il sangue e la rosa (1960).

Una scena da L’Angoisse (“Le_Monde_illustré”, 14 marzo 1908)

Cilia e gli Spiriti

Più di vent’anni dopo la morte, Cilia de Vylars torna a manifestarsi, come uno spettro, in un articolo scritto da quel Pierre Mille che aveva firmato con lei L’Angoisse. Giornalista, saggista e romanziere, Mille era stato anche incaricato governativo nel Madagascar. La sua penna salace si dedica nel 1934 a un articolo sarcastico, dove enuncia tutto il suo scetticismo verso i fenomeni soprannaturali e ricostruisce con accenti cinici e distaccati la sua collaborazione con Cilia de Vylars (Des rapports du Spiritisme avec le théâtre, “Le Temps”, 1 aprile 1934).

Mille torna al lontano 1907 quando, mentre è indaffarato nel suo studio, gli viene annunciato che alla porta c’è una dama intenzionata a incontrarlo. Nel biglietto da visita c’è il nome sconosciuto “Mme C. de Vylars”.

“Era una donna molto piccola e magra, con un grande naso”, scrive Mille (ma sappiamo che altri articolisti dell’epoca la definivano “bellissima” e “affascinante”). La donna avrebbe spiegato con queste parole il motivo della sua visita: “Monsieur, sono malata, molto malata. Condannata a morte. Mi sostengono solo con del siero di sangue di capra. Sto per morire, ma non mi importa, perché sono spiritista. E gli Spiriti mi hanno detto: ‘Prima di morire, avrai un giusto motivo di gioia e di fierezza perché scriverai un testo teatrale in collaborazione con Pierre Mille e quella pièce sarà portata in scena!’”.

Mille nel suo articolo racconta di averla creduta folle: “Sono sempre molto cortese con i folli, non li contrario mai, perché ne ho paura”. Così, per timore delle sue reazioni, accettò la proposta anche se, pur già affermato scrittore, non aveva mai avuto nessun desiderio di cimentarsi con il teatro. Cilia disse che gli Spiriti le avevano indicato anche il soggetto della pièce, un breve racconto dello stesso Mille, La peur.

Tre settimane dopo Cilia si presentò con un manoscritto, due atti intitolati L’Angoisse. Mille si limitò a qualche aggiustamento e quando il testo parve definitivo, Cilia disse: “L’ho letto agli Spiriti. Ne sono contenti, molto contenti. Sapete, amano che si parli di loro. E mi hanno detto che il signor Choisy, direttore del Grand-Guignol, non ha niente in questo momento per la sua stagione e quindi prenderà certamente questo testo, se andate a portarglielo voi stesso”.

Lo scrittore esegue, ma Choisy lo accoglie con freddezza. Mille credeva che il progetto fosse fallito, però quindici giorni dopo viene invitato alle prove dello spettacolo, in procinto di andare in scena. Mille non rimase favorevolmente impressionato e apprese poi con grande stupore che lo spettacolo era stato un grande successo e che nel pubblico si erano verificati vari malori per il terrore. I due autori dell’opera ricevettero una cospicua somma per il testo teatrale, ma tra loro non ci furono più contatti. Mille apprese solo dai giornali, tre anni dopo, della morte di Cilia.

Nel 1915 un’altra sorpresa: Mille riceve la somma del tutto imprevista di svariate migliaia di franchi per i diritti di L’Angoisse, grazie alla traduzione in inglese destinata alla versione da rappresentare in Gran Bretagna e in America. Sapeva di dover dividere gli introiti con gli eredi della sua coautrice, ma non aveva nessun recapito o contatto e ignorava che fosse sposata (“nessuno sapeva niente di lei”, sottolinea).

Due anni dopo, nel 1917, ecco un’altra visita inattesa nella sua abitazione. È un uomo che vuole conoscere lo scrittore perché sa che aveva collaborato con la sua defunta moglie. Si tratta di Gaston Berthey, di passaggio a Parigi dopo un viaggio dalla sua residenza egiziana.

Per quanto vedovo ormai da sei anni, Gaston parla con affetto della moglie, definendola una donna geniale e una sposa incomparabile. “Ma non importa”, aggiunge quasi con le stesse parole di Cilia nella sua prima visita a Mille, “sono spiritista e continuo a parlare con lei. Anche lo Spirito è rimasto in comunicazione quotidiana con lei, il cui genio si è ulteriormente accresciuto da quando si è disincarnata”.

Il racconto di Mille continua, con un distacco ironico quasi irritante. “Per caso gli Spiriti, e quello di Madame in particolare, vi hanno fatto sapere che io vi devo del denaro?”, chiede lo scrittore al vedovo. Alla risposta negativa di Gaston, Mille gli firma un assegno per saldare la parte di diritti per L’Angoisse che spettavano alla moglie.

La storia raccontata da Mille può essere certamente fantasiosa, se non inventata, ma contiene diversi elementi che hanno riscontri e comunque fornisce un ritratto unico di Cilia de Vylars. Scrittrice, poetessa, autrice teatrale e spiritista, la storia del vampiro moderno deve qualcosa anche a lei, caduta nell’oblio.

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 3

Porter Emerson Browne: la Vampira a teatro

Il quadro di Philip Burne-Jones The Vampire e la poesia omonima di Rudyard Kipling dovevano rinfocolare la loro popolarità nel 1909, grazie a uno spettacolo teatrale e a un romanzo, entrambi firmati dall’americano Porter Emerson Browne (ma come vedremo in articoli successivi, grazie anche a dei balletti e al cinema). Con l’arrivo a teatro, la figura della Vampira si concretizza per la prima volta davanti agli occhi del pubblico, accanto alla visione del decadimento fisico e morale delle sue vittime.

Nel 1907 l’attore Robert Hilliard, all’epoca idolo del teatro popolare, alto, soprannominato “Handsome Rob” (Rob il bello) e noto per la voce baritonale, propone a Porter Emerson Browne, giornalista ventottenne e aspirante scrittore, di creare un testo teatrale ispirato al quadro di Burne-Jones e alla poesia di Kipling. Nasce così A Fool There Was, con un titolo che riprende alla lettera l’incipit della poesia The Vampire.

Agente di borsa prima di diventare attore, Hilliard si impegna finanziariamente nel progetto e si accorda con il produttore Frederic Thompson, esperto di spettacoli a sensazione, creatore dei primi parchi dei divertimenti. A Fool There Was diventa così un evento destinato a grande successo di pubblico. Il 18 e 19 marzo 1909 va in scena all’Harmanus Bleecker Hall di Albany, poi seguono altre tappe nel New England fino all’esordio newyorchese, al Liberty Theatre, il 24 marzo. Le repliche a Broadway continueranno ininterrottamente fino a giugno, con un centinaio di rappresentazioni.

Foto da un opuscolo promozionale per A Fool There Was

Il testo teatrale in tre atti di due scene ciascuno non risulta conservato, ma è possibile ricostruirne i passaggi fondamentali grazie alle recensioni di allora. I nomi degli interpreti, qui di seguito, sono quelli delle prime rappresentazioni del 1909, poi in gran parte sostituiti da altri attori e attrici negli allestimenti successivi.

Primo atto, prima scena. John Schuyler (Robert Hilliard), un americano benestante in carriera diplomatica e con una famiglia felice, comunica alla moglie (Nannette Comstock) e alla figlioletta (Emily Wurster) che sta per partire: resterà lontano un mese per un’importante missione su incarico governativo.

Seconda scena. Sulla nave che deve portare Schuyler in missione. A bordo sale una donna (Katherine Kaelred), la Vampira, bella ed elegante, con un bouquet di rose. “Una donna bellissima, alta, flessuosa e languida, con le labbra rosse e i fianchi snelli che si muove ondeggiando come un serpente” (“Newark Evening Star”, 21 gennaio 1911). La donna è avvicinata da un giovane emaciato e nervoso, Parmalee (Howard Hull), che litiga con lei e la minaccia con una pistola. La vampira sorride e gli dice dolcemente: “Baciami, stupido mio”. Il giovane si punta la pistola alla testa e si spara. Appena il corpo è portato via, la Vampira si siede soddisfatta su una sdraio nello stesso punto dove il giovane è morto. Entra in scena Schuyler, accompagnato dai suoi familiari e dall’amico Tom (William Courtleigh) che vogliono salutarlo prima della partenza. In quel momento Schuyler nota la Vampira e ne è subito talmente attratto che non dà alcun peso alla notizia del suicidio di un giovane a bordo, limitandosi a sorridere recitando a Tom dei versi dalla poesia di Kipling. Quando i familiari lasciano la nave, la Vampira avvicina Schuyler e lo seduce.

Secondo atto, prima scena. Nel roseto della loro casa la signora Schuyler soffre per l’assenza del coniuge, ma sua sorella e Tom hanno appreso da una lettera che l’uomo ha rinunciato al suo incarico politico ed è in viaggio con la Vampira. Seconda scena, nella biblioteca della casa dove ora Schuyler vive da solo, lasciato dalla moglie, un mese dopo. Beve, è angosciato. L’amico Tom (che ama segretamente la moglie di Schuyler) lo scongiura di lasciare l’amante. Schuyler fa un tentativo di separarsi dalla Vampira, ma lei lo persuade del contrario ripetendo anche a lui “Baciami, stupido mio”.

Terzo atto. Un anno dopo, sempre nella biblioteca. Disordine, specchi rotti, bottiglie e bicchieri dappertutto. Tom fa un ultimo tentativo per riportare Schuyler alla ragione, ma lo trova in stato confusionale convinto di vedere le precedenti vittime della Vampira e di parlare con loro. Tom cerca invano di scuoterlo, arrivando a picchiarlo. Gli getta un bicchiere d’acqua in faccia e Schuyler si riprende, piange e sotto gli occhi di moglie e figlia promette di rompere con l’amante. Schuyler si sta apprestando a tornare dalla sua famiglia, quando la Vampira gli comunica che è stanca di lui e vuole lasciarlo. “Prima che ci separiamo, baciami, stupido mio!”, gli dice. Furioso, Schuyler tenta di strangolarla, ma è colto da malore e muore. Lei si ricompone e ridendo lascia cadere petali di rosa sul corpo di Schuyler. Sipario.

La coreografia dell’ultima scena era studiata per evocare il quadro di Burne-Jones, con la vampira vittoriosa che incombe sul cadavere dell’uomo. Niente lieto fine, la donna fatale e trasgressiva trionfa.

Pubblicità per lo spettacolo A Fool There Was

Browne dà un’identità al “fool” della poesia di Kipling. Ne fa un uomo d’affari e diplomatico, al servizio addirittura del Presidente americano. Il tema del maschio vulnerabile ai richiami della carne, tanto da farsi dissanguare economicamente e distruggere fisicamente da una Vampira, aveva ancora grande presa sul pubblico e al successo di A Fool There Was contribuì la sontuosa messa in scena. Il produttore Thompson aveva investito su scenografie che lasciavano incantato il pubblico, come la ricostruzione della nave, con una folla di comparse, o il giardino di casa Schuyler. Per le rappresentazioni serali faceva arrivare in teatro centinaia di rose rosse e agli spettatori era consegnata insieme al programma una copia della poesia di Kipling, con la riproduzione del quadro di Burne-Jones. Le rose rosse erano un tratto distintivo della Vampira: le ha con sé sulla nave, ne lascia cadere i petali sulla sua vittima, come gocce di sangue. La Vampira spiega nel corso della rappresentazione che ci sono due tipi di amore: uno come la rosa bianca, pallida e fredda, l’altro come la rosa rossa.

Gli interpreti si rivelavano ben scelti. A parte Hilliard, già famoso e ammirato, fa scalpore l’attrice inglese Katharine Kaelred nel ruolo della Vampira (che non è mai indicata con un nome proprio). Anche se i giornali prestarono maggiore attenzione al protagonista principale interpretato da Hilliard, non mancarono le lodi per la Kaelred, prima incarnazione di quella Vampira che prenderà poi il volto di numerose attrici sullo schermo cinematografico. Nelle recite newyorchesi si fa notare anche la breve apparizione di Howard Hull nella parte del giovane che si uccide a causa della Vampira. Per la cronaca, l’attore era fratello di Henry Hull, futuro licantropo in Werewolf of London (Il segreto del Tibet, 1935).

Il quadro di Burne-Jones e la poesia di Kipling utilizzati per pubblicizzare lo spettacolo teatrale

A Fool There Was ottenne gli apprezzamenti del “New York Times” e di gran parte della critica, con importanti eccezioni come “The Evening Post” (25 marzo 1909) che lo stronca senza appello, definendolo “fallimentare” e sciorinando una serie di definizioni negative: “sensazionalista”, “stravagante”, “zuccheroso”, “imitativo”, fino a un attacco diretto all’autore, al quale mancherebbe “l’ispirazione sia del pittore [Burne-Jones] che del poeta [Kipling]”.

Il pubblico, però, premiava A Fool There Was e dopo le rappresentazioni a New York iniziò un tour per gli Stati Uniti. Il cast cambia completamente, solo Hilliard mantiene il suo ruolo nello spettacolo. In particolare, la parte della Vampira va a Bernice Golden Henderson (morirà nel 1913, a trent’anni) e poi a Virginia Pearson, giovane attrice che in breve diventerà una diva del cinema muto girando una cinquantina di film. Dudley Glass su “The Atlanta Georgian and News” (24 novembre 1910) la definisce “perfetta” e loda “la stretta imitazione del dipinto di Burne-Jones con le labbra rosse e il viso mortalmente bianco, le forme flessuose da serpente e le sue rose rosse”.

Curiosamente, la Pearson apparirà nel primo film interpretato da Theda Bara, The Stain (1914). Proprio il regista di quel film, Frank Powell, prese in considerazione la Pearson per interpretare la Vampira nel film della Fox A Fool There Was, ruolo che poi andò a Theda Bara stessa. William Fox la scelse comunque come uno dei volti da affiancare a Theda Bara nelle tante pellicole che riproponevano storie incentrate sulle donne fatali. Nel 1925 la Pearson recita con Lon Chaney in The Phantom of the Opera nella parte di Carlotta, la cantante lirica che il Fantasma costringe ad abbandonare le scene per lasciare il posto alla sua amata Christine. Quando il film viene aggiornato con nuove riprese per una versione sonora, nel 1929, Virginia Pearson apparirà in alcune scene interpretando anche la madre di Carlotta. Nel corso degli anni Venti, però, la sua notorietà è in crisi, con il rapido declino delle vamp cinematografiche, le sue finanze tracollano e si riduce a vivere in una piccola stanza di hotel con il marito, l’attore Sheldon Lewis.

Due interpreti della Vampira a teatro, Katharine Kaelred e Virginia Pearson

Il successo di A Fool There Was prosegue per anni. Nel 1911 lo spettacolo è ancora tanto famoso da indurre una casa discografica a incidere un disco dove Hilliard legge The Vampire e declama altre battute dal testo teatrale di Browne. “The Washington Herald” salutava A Fool There Was come “opera audace e realistica che ha scosso i newyorchesi dal loro quaresimale letargo come una improvvisa esplosione di dinamite teatrale” (12 febbraio 1911).

Nello stesso anno un giornale chiese a Robert Hilliard se donne come la Vampira del suo spettacolo, oltre che delle opere di Burne-Jones e Kipling, esistessero davvero nel mondo reale. “Ce ne sono molte”, rispose l’attore. “Donne strane che portano distruzione a qualsiasi cosa tocchino, donne che non sono bellissime (molte di loro sono insignificanti), ma che possiedono una forza di attrazione che non manca mai di incantare ovunque si diriga. Questa forza è qualcosa di impossibile da analizzare, ma può portare un uomo, per tutta la vita indifferente o insensibile di fronte alle donne più belle, a un brivido improvviso quando gli presentano determinate donne, un brivido che lo cattura e lo scuote come un terrier fa con un topo, senza lasciarlo mai fino a che la vita e i sensi sono stravolti, lasciandolo inerme, troppo tardi consapevole della propria stupidità”.

Per rafforzare le sue tesi, Hilliard citava il caso di un illustre magistrato impegnato in politica, portato alla rovina da una vampira e morto in miseria, aggiungendo: “Non credo che le donne vampiro siano delle mercenarie: non sono mai sazie d’amore. Devono possedere completamente un uomo. Poi all’improvviso, e probabilmente senza sapere perché, se ne stancano. Non amano più quell’uomo, ma la loro natura richiede amore e così ne cercano un altro… e la storia si ripete continuamente. In altre parole, la donna nota comunemente come vampira è semplicemente una versione al femminile dell’uomo di mondo” (Bob” Hilliard Tells of Vampires in Real Life, “Buffalo Evening News”, 13 marzo 1911).

Nel 1912 Hilliard è sostituito nelle recite di A Fool There Was da William L. Gibson, mentre il ruolo della Vampira va a Elsie Jane Wilson, destinata a diventare una prolifica regista e sceneggiatrice. Per un singolare sovrapporsi di rimandi tra le attrici che interpretarono la Vampira, la neozelandese Wilson era moglie del suo conterraneo Rupert Julian, in seguito regista del già citato The Phantom of the Opera. Nel 1916 Julian aveva dato alla moglie una parte da “vampira”, una donna libertina e assassina, nel suo film The Evil Women Do.

Due copertine per la canzone A Fool There Was (1913). A sinistra, negli ovali l’attore Robert Hilliard nel primo atto dello spettacolo teatrale e nel terzo, quando il personaggio è rovinato dalla Vampira

Un altro indice della duratura popolarità di A Fool There Was si ha nel 1913, quando esce una canzone dallo stesso titolo, con testo di Alexander Dubin e musica di Gustav Benkhart “dalla poesia The Vampire di Rudyard Kipling”. Le prime parole sono significative: “Una volta un poeta scrisse dei versi ed emozionò il mondo con una verità”. L’omaggio a Kipling prosegue nella descrizione del giovane che a causa di una donna rimane con “il cuore freddo e morto”. Sulla copertina dello spartito, pubblicato contemporaneamente a Filadelfia, Londra e Sydney, non mancava il riferimento al “grande successo di Robert Hilliard”. Il 78 giri della canzone aveva la voce del tenore De Los Becker. La canzone si può ascoltare a questo link: A Fool There Was.

Come spesso accade con i vampiri (la diatriba Polidori-Byron, il sequestro di Nosferatu, ecc.) i diritti d’autore furono oggetto di contese. Nel novembre 1911 Browne accusa di plagio William Schilling che aveva scritto una commedia intitolata The Vampire Fool, sostenendo che aveva “rubato” intere parti del secondo e terzo atto di A Fool There Was. Da parte sua Hilliard nel marzo 1915 porta in tribunale una ditta cinematografica che voleva produrre un film dal titolo A Fool There Was e a luglio dello stesso anno fa causa alla Fox per aver distribuito il film con Theda Bara prima della data stabilita dal loro accordo.

In quel 1915, tuttavia, la parabola ascendente dello spettacolo teatrale di Browne e Hilliard si stava concludendo. Il suo successo si era esteso ai balletti da vaudeville, come vedremo nel prossimo articolo, ma soprattutto il cinema prendeva il posto del teatro, con una serie di pellicole che culminano nel film ovviamente intitolato A Fool There Was con Theda Bara.

Cartolina postale del 1910

Il romanzo di Porter Emerson Browne

Visto il grande successo a Broadway di A Fool There Was, Browne aveva subito trasposto in romanzo il suo testo teatrale, con lo stesso titolo. La prima edizione è pubblicata nel 1909 da The H.K. Fly Company di New York, con illustrazioni a colori di Edmund Magrath e a inchiostro di W.W. Fawcett, presto ristampato da Grosset & Dunlap. Il libro porta in copertina una riproduzione del quadro di Burne-Jones ed è dedicato a Robert Hilliard, vero promotore della saga sulla vampira. Browne rivendica anche l’ispirazione a The Vampire di Kipling, ponendo in epigrafe la prima strofa della poesia che viene poi citata espressamente nel corso del romanzo. Come nel testo teatrale, l’amico Tom, sulla nave dove si è appena ucciso il giovane Parmalee, chiede a Schuyler se ha letto la poesia di Kipling e lui risponde: “Beh, sì, ovviamente. Quasi tutti l’anno letta”. Poi ne recita i primi versi.

Il romanzo ripropone con uno stile verboso le stesse situazioni melodrammatiche dello spettacolo a teatro, ma aggiungendo molti dettagli sulla biografia della Vampira e sviluppando il riferimento moralistico a opinioni molto presenti nella cultura dominante dell’epoca. Si delinea ulteriormente la connotazione “di classe” dei personaggi. John Schuyler, padre modello, erede di una stirpe virtuosa anglo-olandese, cresciuto nella Fifth Avenue di New York, è esponente della “classe dominante”, ricco, di successo e ovviamente bianco. La Vampira, invece, è di povera estrazione, provenendo da un villaggio della Bretagna, tra contadini quasi animaleschi. Lei è figlia illegittima di un aristocratico francese e di una povera donna bretone che muore dopo averla data alla luce. Il padre, pur abbandonandola cinicamente, decide di scegliere il nome per la figlia: Rien (niente). L’uomo finirà male: anni dopo torna alla misera casa della figlia e lei lo fissa negli occhi, facendolo arretrare su un precipizio fino a che cade nel vuoto.

La copertina dell’edizione Grosset & Dunlap e una delle immagini all’interno

Può sembrare assurdo ai nostri occhi attuali, ma il romanzo indicava delle ragioni genetiche per il vampirismo. La povertà era considerata un segno di inferiorità e i poveri potevano essere indicati come parassiti, quindi vampiri. La Vampira, in quanto figlia del rapporto tra una povera bretone e un nobile francese, aveva genitori europei ma “latini”, diversi dal filone genetico anglo-olandese rivendicato dagli americani dell’epoca come loro ascendenza. Era dunque frutto dell’unione tra poveri, tali per la loro inferiorità, e aristocratici, decaduti a causa del vizio: il contrario dei borghesi benestanti che si ritenevano geneticamente privilegiati e mossi da rettitudine morale per guidare gli Stati Uniti. Cedendo alle attrazioni sessuali della Vampira, Schuyler indebolisce anche il suo rigore morale. Bram Dijkstra (Evil Sisters, Alfred A. Knopf, New York 1996) segnala che il disordine e la sporcizia in cui viveva la madre della vampira è analogo a quello in cui finisce a vivere Schuyler nella sua abitazione dopo essere caduto nelle grinfie della donna fatale.

La Vampira è bianca, ma viene da un mondo contadino sordido, dai bassifondi. Socialmente meticcia, incrocio tra un nobile e una contadina, si eleva a donna borghese, colta e bella, per esercitare il suo potere ipnotico sugli uomini. Come scrive ancora Dijkstra, per Browne la Vampira fa parte della schiera di donne “strisciate fuori dalla peggior feccia della peggior specie di umanità per infettare il mondo ariano con la loro lussuria”. Browne rendeva universale quella minaccia, indicandola in apertura del romanzo come valida anche nei millenni passati

In A Fool There Was non ci sono mai accenni a possibili caratteristiche soprannaturali della Vampira. Però le condizioni fisiche di Schuyler sono molto simili a quelle delle vittime di un vampiro soprannaturale: prosciugato, ridotto a una larva, Schuyler dice che quella donna “gli succhia il cervello”. Si ciba della sua salute e più lui si indebolisce (“Il sangue mi si è trasformato in acqua e le mie ossa in gesso! Il mio cervello si è avvizzito!”), più lei diventa forte e florida.

A molti decenni dalla pubblicazione del libro di Browne, almeno due romanzi hanno utilizzato lo stesso titolo. Nel 1958 esce il “mystery” A Fool There Was (Crest Books, New York) di John Manson che aveva avuto una precedente edizione l’anno prima con il titolo It Is a Dream. La nuova versione puntava molto sul legame con la poesia di Kipling, riprodotta integralmente all’interno e richiamata in copertina. Narra la vita di un uomo stravolta dall’amore incondizionato per una ragazza, i cui “profondi occhi bruni lo avevano ipnotizzato” sin dal primo incontro. Nel 2009, poi, i versi della poesia di Kipling aiutano la poliziotta Sukey Reynolds, creata dalla scrittrice Betty Rowlands, a risolvere un caso in A Fool There Was (Severn House, London).

Copertina del romanzo del 1958 con i versi di Kipling

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 2

La vampira di Kipling

Per un trentennio il mondo anglosassone, e non solo, fu attraversato da quella che si definì “vampire craze”, una vera e propria “mania per i vampiri” (o meglio per le vampire), avviata nel 1897 con il quadro e la poesia The Vampire per poi passare il testimone, nel 1927, alla passione per Dracula grazie a Bela Lugosi.

Come abbiamo visto nell’articolo precedente, l’inizio della saga di The Vampire (imperniata su una donna che porta sventura e distruzione ai maschi, preferibilmente benestanti e sposati) è avvenuto con il quadro di Philip Burne-Jones. Ma quella vampira vittoriana dipinta forse non avrebbe avuto successo per decenni se non fosse stata accompagnata dalla poesia scritta per l’occasione dall’autore del Libro della giungla, Rudyard Kipling. È uno dei primi esempi di vampiro multimediale che attraversa differenti mezzi di comunicazione e di espressione: un quadro, una poesia, poi un testo teatrale, un romanzo, diversi film, balletti.

Le loro madri erano sorelle, quindi Kipling e Burne-Jones si erano frequentati fin da bambini e per un periodo, in età adulta, furono legati da stretta amicizia. Ci si è chiesti se per The Vampire Burne-Jones si sia ispirato alla poesia di Kipling o viceversa. Stando alle sue dichiarazioni, in occasione dell’intervista che rilasciò a “The Argus” nel 1898, il pittore aveva avuto in mente il soggetto di The Vampire per molti anni e pare ormai certo che Kipling scrisse la poesia solo dopo aver visto il quadro del cugino, per aiutarlo a lanciare la sua opera.

Due cartoline postali con la riproduzione del quadro di Burne Jones e la poesia di Kipling

La prima apparizione in forma stampata della poesia è perciò affidata alla pagina 8 nel catalogo per la mostra della New Gallery, dove il quadro era esposto come opera n. 15. Il padre di Philip, il pittore Edward Burne-Jones, sapeva che Kipling, su richiesta del cugino, aveva scritto una poesia per quel catalogo. Andrew Lycett (in Rudyard Kipling, Weidenfeld & Nicolson, London 1999) cita un ricordo dell’assistente personale dell’artista, Thomas Rooke, che il 19 aprile 1897 discusse del quadro e della poesia The Vampire con il grande pittore preraffaellita. Secondo Edward Burne-Jones, “la poesia di Ruddy sul quadro di Phil” era talmente lunga che il catalogo sarebbe stato occupato quasi tutto da quel testo. In realtà la poesia era piuttosto breve, ma di certo focalizzò l’attenzione di pubblico e critica su quell’unico quadro, a detrimento delle altre opere esposte compresi dipinti di John Singer Sargent e dello stesso Edward Burne-Jones.

Questo il testo di The Vampire, in una traduzione rielaborata da Vampirismus. Gotico e fantastico nel mito del vampiro (Alfamedia, Roma 1986):

C’era un folle e diceva le preghiere
(proprio come te e me!)
per uno straccio, un osso e una matassa di capelli
(la chiamavamo la donna che di nulla si cura)
ma il folle la chiamava la sua bella signora
(proprio come te e me!)

Oh, gli anni sprecati e le lacrime sprecate
e il lavoro della nostra mente e della nostra mano
appartengono alla donna che non sapeva
(e ora sappiamo che non avrebbe mai potuto sapere )
e che non capiva.

C’era un folle e spese i suoi beni
(proprio come te e me!)
l’onore e l’onestà e un vero ardore
(e non era quello che la signora voleva)
ma un folle deve seguire la sua inclinazione naturale
(proprio come te e me!)

Oh, le energie che abbiamo perso e i guadagni che abbiamo perso
e le grandi cose che progettavamo
appartengono alla donna che non sapeva perché
(e ora sappiamo che non avrebbe mai saputo perché)
e non capiva!

Il folle fu spogliato sino all’osso
(proprio come te e me!)
e lei poteva accorgersene quando lo gettò via
(ma non risulta che la signora abbia provato ad accorgersene)
al punto che un poco di lui visse, ma il più di lui morì
(proprio come te e me!)

E non è la vergogna e non è la colpa
che morde come un tizzone incandescente.
Ma venire a sapere che lei mai seppe perché
(vedendo, alla fine, che lei mai avrebbe potuto sapere perché)
e mai avrebbe capito.

Un’edizione americana di The Vampire del 1898

La coincidenza temporale tra la poesia di Kipling e la pubblicazione del romanzo Dracula di Bram Stoker (il 17 aprile 1897 la prima, il 26 maggio il secondo) avviò un interesse inusitato per i vampiri alla fine del secolo e per i decenni successivi. Ma in quel periodo a influenzare il senso comune e persino il linguaggio non fu Dracula, ma The Vampire. Un decennio dopo, la parola “vampire” era associata correntemente solo al vampirismo parassitario indicato da Kipling e Burne-Jones e agli esotici pipistrelli mostrati nelle fiere che si diceva succhiassero il sangue, tanto che “The New York Times” (5 marzo 1899) scriveva: “La gente oggi usa con noncuranza la parola ‘vampiro’ come termine più forte e un po’ più spregevole di ‘parassita’… Probabilmente poche persone sanno cos’è un vero vampiro”. E il quotidiano si sentiva in dovere di spiegare che i vampiri risalgono alle credenze popolari sui morti che tornano dalla tomba e si cibano del sangue dei viventi (sostenendo del tutto fantasiosamente che “questa superstizione era prevalente nel sud Italia mezzo secolo fa”). Dracula quindi non aveva lasciato il segno sui lettori di quegli anni con il suo vampiro soprannaturale, ed erano momentaneamente dimenticati The Vampyre di John Polidori (1819) e Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu (1872): a conclusione del secolo era The Vampire a imporre la concezione realistica del vampirismo, un vampirismo “psicologico”, “spirituale” e soprattutto femminile, solo metaforicamente associato alle antiche credenze sui nonmorti.

È significativo che nel 1914 Ernst Havekost, in una sua pionieristica dissertazione di dottorato sulla leggenda dei vampiri in Inghilterra (Die Vampirsage in England, Facoltà di filosofia dell’Università di Halle-Wittenberg), citi Dracula solo come titolo, in un elenco di “opere minori” sul vampirismo, a testimonianza della inferiore notorietà del libro di Stoker, nei primi due decenni del Novecento, rispetto alla poesia di Kipling, riportata integralmente nella dissertazione.

Resta comunque importante e singolare che le due opere, Dracula e The Vampire, avessero fatto la loro comparsa a poche settimana di distanza l’una dall’altra. Entrambi accesi sostenitori dell’imperialismo britannico, Kipling e Stoker si conoscevano bene e si frequentavano almeno dal 1889, dato che il Lyceum Theatre di Irving era un crocevia per incontri tra intellettuali.

Il 3 febbraio 1892, Rudyard Kipling prende un treno con la moglie Caroline per recarsi a Liverpool e iniziare un viaggio di nozze negli Stati Uniti. Alla stazione, scrittori ed editori li salutano. C’era Henry James, ma c’era anche Bram Stoker. Secondo Jimmie E. Cain l’episodio dimostrerebbe “gli stretti rapporti tra Stoker e Kipling” (Bram Stoker, Geopolitics, and War in Bram Stoker and the Late Victorian World, a cura di Matthew Gibson e Sabine Lenore Müller, Clemson University Press, Clemson 2018).

Comunque, nella primavera del 1897 mentre Stoker era ancora intento a correggere le bozze di Dracula, Kipling aveva già scritto The Vampire. Charles Carrington (Rudyard Kipling: His Life and Work, Macmillan, London 1978) sostiene che Kipling non aveva preso sul serio quella poesia, non vi aveva messo nulla di se stesso e la considerava “un pezzo occasionale, un favore per il cugino Phil: niente di più”. Ciò sarebbe confermato dal fatto che Kipling non tutelò la proprietà del suo testo consentendo, come vedremo, il diffondersi incontrollato della poesia The Vampire su giornali e pubblicazioni “pirata”.

L’edizione Mansfield (1898) e Street & Smith (1899), entrambe di New York

Appena la poesia di Kipling compare sul catalogo per la mostra alla New Gallery è immediatamente pubblicata integralmente dai giornali. Parte il “Daily Mail”, contemporaneamente all’apertura della mostra, seguito da svariati quotidiani e riviste. Anche la stampa americana veicola la poesia (“New York Tribune” il 9 maggio 1897, “Buffalo Evening News” il 10 maggio, poi molti altri).

The Vampire visse poi un grande ritorno di popolarità tra il 1902 e il 1903, in coincidenza del tour americano di Philip Burne-Jones e della relativa esposizione del quadro The Vampire nelle gallerie degli Stati Uniti. Nel soggiorno americano del pittore i giornali parlarono spesso di lui e immancabilmente della poesia di Kipling, ristampata più volte. In quel contesto la poesia subì anche una piccola modifica: sul “Record-Herald” cambiarono nella prima strofa il termine “hank” (matassa), che sembrava poco appropriato riferito ai capelli, in “hunk”, dal significato simile, ma più spesso usato per definire un ammasso di capelli.

Tre citazioni dalla poesia di Kipling diventarono luogo comune, innumerevoli volte riproposte. Si tratta dell’incipit “A fool there was” (C’era un folle), della descrizione della donna-vampiro come “a rag and a bone and a hank of hair” (uno straccio, un osso e una matassa di capelli) e “the woman who did not care” (la donna che di nulla si curava), di “But the fool he called her his lady fair” (Ma il folle la chiamava la sua bella signora), oltre al ritornello “Even as you and I” (Proprio come te e me).

La poesia di Kipling affascinò i lettori perché vedevano rappresentata una paura e un’inquietudine molto diffusa alla fine del secolo: la donna non più passiva e sottomessa, ma capace di minacciare salute e beni dell’uomo.

Nella letteratura anglosassone la donna fatale aveva una lunga tradizione, che risale almeno alla belle dame sans merci di John Keats, in bilico tra soprannaturale e naturale. Nella versione di Kipling, ancor più che nel quadro di Burne-Jones (dove la ferita sul petto dell’uomo potrebbe indicare il morso di una creatura fantastica succhiasangue), la “vampira” è ricondotta al realismo, a una vera donna senza nulla di soprannaturale, anzi diffusa e nota all’epoca quanto meno nelle fantasie maschili. “The Marion Enterprise” (10 luglio 1897) citava un articolo del “Louisville Courier-Journal” per spiegare il successo della poesia di Kipling: “Non si tratta di meriti letterari eccezionali. Semplicemente si tratta del coraggio di Kipling nel dare espressione a ciò che gli altri pensano, ma non osano dire. Quel tipo di donna è comune, sia se si voglia credere che esista davvero o che esista soltanto nell’immaginazione degli uomini”.

In The Vampire gli uomini sono ingannati dall’apparenza (a loro pareva una bellissima dama, ma era solo “uno straccio, un osso e una matassa di capelli”), si rovinano per lei (spendendo “energie” e “guadagni”), fin quasi a morirne, per poi scoprire che era una donna sventata e incapace di capire qualsiasi cosa. L’uomo della poesia prova quindi vergogna di se stesso e soffre della propria stupidità. Per quanto chiaramente dettata da una mentalità che oggi si definirebbe semplicisticamente “patriarcale”, la poesia di Kipling non è certo lusinghiera verso il maschio vittoriano, ridotto a uno stupido che cade nella trappola di una donna tanto fatale quanto superficiale (due interessanti analisi su questi aspetti sono in Anne Morey, Claudia Nelson, Phallus and Void in Kipling’s “The Vampire” and Its Progeny, “Frame”, novembre 2011; Janet Staiger, Bad Women: Regulating Sexuality in Early American Cinema, University of Minnesota Press, 1995).

Quando Kipling scrisse The Vampire, il suo matrimonio con la moglie americana Caroline era in crisi e il testo evidenzia un risentimento personale dell’autore verso il sesso femminile (lo scrittore, tra l’altro, aveva una predilezione per le donne dal carattere mascolino). Secondo alcuni, la misoginia di Kipling era dovuta all’infelice infatuazione adolescenziale per Florence Garrard, che lo respinse (Angus Wilson, The Strange Ride of Rudyard Kipling: His Life and Works, Secker & Warburg, London 1977), secondo altri alla presunta relazione segreta con l’attrice americana di vaudeville Lulu Glazer, nelle cui carte è stata trovata la poesia The Vampire con testi scritti a mano da Kipling stesso (J. Lawrence Mitchell, Rudyard Kipling, The Vampire, and the Actress, “English Literature in Transition 1880–1920”, n. 3, 2012).

Le opinioni di Kipling sulle donne, come anticipate da The Vampire, vennero poi rielaborate e confermate dalla sua poesia The Female of the Species (1911), rimasta celebre per le parole ripetute più volte “The female of the species is more deadly than the male” (La femmina di ogni specie è più letale del maschio).

Disegno ispirato al quadro di Burne-Jones dall’edizione Mansfield di The Vampire (1898)

The Vampire tornò sulle prime pagine dei giornali il 28 novembre 1911, in occasione di un infuocato processo per uxoricidio a Denver. Sul banco degli imputati c’era Gertrude Gibson Patterson, donna dalla “vita licenziosa”. Aveva sposato il giovane Charles Patterson, ma presto lui la sorprese in viaggio con l’amante, il ricco e anziano imprenditore Emil W. Strouss. Ne seguirono molte liti tra i coniugi, fino a che Charles fu ucciso da due colpi di pistola alla schiena. Gertrude prima disse che il marito si era suicidato, poi ammise il delitto affermando di essere stata picchiata e maltrattata. Al processo l’avvocato dell’accusa, Horace Benson, descrisse Gertrude come una donna avida, spietata e recitò in aula la prima strofa di The Vampire, aggiungendo dopo il verso “ma il folle la chiamava la sua bella signora” un drammatico “E lei gli sparò nella schiena” (And she shot him in the back). Nonostante l’oratoria dell’avvocato e la citazione di Kipling, la donna fu assolta grazie alla dubbia testimonianza di un passante che dichiarò di aver visto Charles picchiare la moglie in strada.

La popolarità di The Vampire prosegue per molti anni, rinvigorita dalle trasposizioni teatrali e cinematografiche. Ancora nel 1916 Francis Scott Fitzgerald, nel testo per una delle canzoni del musical Safety First!, cita la poesia di Kipling. La canzone lamenta che le ragazze della vita reale non assomiglino alle vamp del cinema e Fitzgerald scrive: “Perché non ne incontro qualcuna che non sia dolce, ma / si comporti piuttosto come le signore di Kipling?”. E per il pubblico americano il quadro e la poesia The Vampire continuarono a essere evocativi per molti anni, come dimostrano tra i tanti esempi due lunghi articoli sui vampiri di “American Weekly” nel 1927 (Mystery of the Vampire’s Bite) e del “Detroit Evening Times” il 19 ottobre 1941 (New Reason Why People Still Believe There Are“Vampires”) entrambi illustrati da una riproduzione del quadro di Burne-Jones e con riferimento alla poesia di Kipling.

Due edizioni newyorchesi: Grosset & Company (1898) e Dodge Publishing Co (1900)

Le parodie

Il successo popolare di The Vampire fu tale che quasi subito si pubblicarono parodie, con gran divertimento dei giornali, dove la poesia era riscritta in chiave umoristica o polemica. Ovviamente le prime reazioni satiriche furono da parte di donne, giustamente irritate dal ritratto della vampira mangiauomini e rovinafamiglie. Ne uscirono diverse soprattutto in America, sia scritte da uomini che da donne, caratterizzate dall’imitazione dello stile e dei versi di The Vampire, aperte spesso dalla scritta “Con scuse a Mr. Kipling” (With apologies to Mr. Kipling).

Le parodie iniziarono quasi immediatamente. Già il 27 maggio 1897 sul “Buffalo Evening News” appare una parodia di The Vampire che ironizza sul Kipling scrittore, ripresa dal settimanale “New York Press”, e il 5 agosto lo stesso quotidiano pubblica un dialogo satirico dove una signora rivendica che le donne non sono vampire, ma per la maggior parte “angeli”. Pochi giorni dopo il “San Francisco Examiner” e “The Evening Journal” (18 agosto 1897) stampano una breve parodia anonima che imita lo stile di The Vampire.

Le più popolari erano parodie che rovesciavano il punto di vista, facendo della donna la vittima di uomini spietati e ottusi. È il caso di The Vampire (From a woman’s point of view. With apologies to Rudyard Kipling) di Mary C. Low, apparsa su “The New York Bookman” (27 marzo 1899) e poi dalla rivista “The Academy” che la ristampa accanto all’originale (1 aprile 1899). Tutta virata al femminile, la poesia si apre con un rovesciamento delle parole iniziali di Kipling, trasformate in “A woman there was”, ed è l’uomo che non si prende cura di nulla e non capisce.

Le parodie di The Vampire sono state innumerevoli ed è impossibile citarle tutte. Tre parodie sono riportate da Robert Thurston Hopkins in un suo libro (Rudyard Kipling: ALiterary Appreciation, Simpkin, Marshall, Hamilton, Kent & Co., London 1915). Hopkins segnalava la “vasta circolazione” della parodia scritta da Felicia Blake dove al posto della vampira c’è un uomo egoista e maschilista (i giornali la ristamparono ancora nel 1919), mentre T.W.H. Crosland nel 1899 sostituiva la vampira con “il pubblico che non compra poesie”. Hopkins citava infine i versi di The Vampire riscritti dal poeta James Douglas per polemizzare con Kipling intorno alla presunta “stupidità” dell’uomo di fronte alla donna-vampiro. Per inciso, Robert Thurston Hopkins si intendeva di vampiri: scrittore e “cacciatore di fantasmi”, è stato autore di The Vampire of Woolpit Grange (1938), racconto ispirato alla leggenda di una strega che ritorna dalla tomba.

Le parodie riprendono vigore con l’esposizione americana del quadro di Burne-Jones. Così, “The Brooklyn Daily Eagle” l’11 febbraio 1902 ne pubblica una di Harvey E. Williams, comica riscrittura di The Vampire dedicata al rapporto tra uomini e automobili, con l’aggiunta di un “coro” alle strofe originali. Su “The Sunday Telegraph” del 2 marzo 1902 c’era invece una parodia di The Vampire scritta da John Joseph Beekman, incentrata sul divorzio. Il giornale nei giorni successivi riceve una lettera firmata da un certo R. Blount che risponde alla poesia di Beekman con un’altra parodia, come se si fosse sentito tirato in causa per le sue personali vicende familiari (“The Morning Telegraph”, 7 marzo 1902). Non pago, “The Sunday Telegraph” due giorni dopo dedica un’intera pagina a una vignetta che ironizza sul quadro di Burne-Jones (definito “il dipinto che i versi di Kipling e il press agent di Mrs. Patrick Campbell hanno reso famoso”) e a un’ennesima parodia della poesia di Kipling, questa volta intitolata The Umpire (L’arbitro), accompagnata da un testo satirico.

Parodie e vignette da “The Coolgardie Pioneer” (1898) e “The Sunday Telegraph” (1902)

La moda delle parodie di The Vampire arrivò anche in Australia. Il 18 marzo 1898 “The Euroa Advertiser” pubblica la poesia originale di Kipling e di seguito “The Woman Version”, firmata da Isobel Henderson Floyd. Il 18 ottobre 1902 tocca a “The Western Mail” affidare una parodia a Ethel Howell che inizia la prima strofa con un “A girl there was”. Curiosa la parodia in chiave di satira politica su “The Coolgardie Pioneer” (3 settembre 1898), accompagnata da una vignetta che riproduce stilizzato il quadro di Burne-Jones, dove la donna ha sul vestito la scritta “Westralia” (l’Australia occidentale) e l’uomo esanime “The Toiler” (il lavoratore). Il testo altera la poesia di Kipling trasformandola in una critica a quella parte dell’Australia che, con promesse non mantenute, “vampirizza” il resto del paese. E in questo caso le scuse sono per il pittore e non per il poeta: “With apologies to Burne-Jones”.

Le parodie continueranno per un ventennio. Il 4 marzo 1914 “The Day Book” di Chicago pubblica A Cop There Was di H.M. Cochran, rielaborazione di The Vampire per criticare il malcostume dei poliziotti. La saga delle parodie culmina nel 1920 quando circola a Los Angeles un volantino, firmato Mrs. Stella Gilbert e intitolato The ‘He’ Vampire, dove la poesia di Kipling è riscritta in chiave esplicitamente e marcatamente femminista, invocando l’eguaglianza di diritti per le donne e con questa chiusa: “Alla fine gli uomini sono in fuga… / E noi abbiamo vinto! / (e loro non possono capire)”. È probabile che il volantino sia stato stampato in occasione della conquista del diritto di voto per le donne americane. Lo spirito polemico della parodia era segnalato anche dalla scritta sotto il titolo, che in questo caso sentenziava “Senza scuse a Kipling” (With no apologies to Kipling).

Il volantino femminista del 1920

La poesia di Kipling era tanto nota che i suoi versi potevano essere utilizzati anche come didascalia per vignette satiriche. È il caso di una vignetta apparsa su “Life” il 3 maggio 1917, vent’anni dopo la pubblicazione di The Vampire, e firmata da C.D. Gibson, un illustratore interventista che agiva anche politicamente per spingere l’America a partecipare alla Grande Guerra: “And the fool, he called her his lady fair”, recita la didascalia. Nota anche con il titolo Harlot of War (Prostituta di guerra), la vignetta ritraeva l’imperatore Guglielmo II nel panico alla vista della sua amante, una orribile megera ingioiellata e in vestito elegante, con la scritta “Guerra” sul copricapo, che simboleggia la morte.

Passano altri vent’anni e di nuovo la poesia di Kipling è utilizzata per un’ulteriore vignetta di satira politica, con la didascalia “But the fool he called her his lady fair” (Even as you and I)”. Pubblicata dal “Daily News” di New York il 21 settembre 1937 e il giorno dopo da “Washington Time”, era tipica del razzismo antigiapponese che tornava a crescere in America in concomitanza con i bombardamenti del Giappone sulla Cina. La vignetta raffigura nuovamente una vampira in abiti seducenti, ma con il volto da teschio e la scritta “War” sul torace: davanti a lei, un militare giapponese inginocchiato che porta sulla schiena la scritta “Yellow Race”.

Le vignette di “Life” (1917) e “Daily News” (1937)

Vampoesia per bibliomani

The Vampire è stato un vero e proprio caso editoriale di notevole interesse: per quanto breve, la poesia fu subito stampata in agili fascicoli, senza autorizzazione da parte di Kipling. Sui giornali americani comparve anche una presunta lettera inviata da Kipling a Burne-Jones dove gli cederebbe tutti i diritti della sua poesia: “I versi per The Vampire, che chiameremo vampoesia [vampoetry], sono di tua proprietà. Quindi chiunque voglia portarli sul palcoscenico, farne un’incisione, metterli in musica, dipingerli di celeste, tradurli in gaelico, celtico o ittita, usarli come pubblicità di tintura per capelli o come inno per la Chiesa d’Inghilterra, deve accordarsi con quest’uomo” (vedi “The Daily Republican”, 17 aprile 1902; “The Argonaut”, 3 marzo 1902).

Vera o meno che sia quella lettera, di certo Kipling non tutelò in nessun modo il suo testo, consentendo così un’ampia diffusione “pirata” della poesia. Kipling non inserì The Vampire nelle sue opere ufficiali fino al 1919, ma dal 1898 la poesia appare comunque in varie collezioni di testi di Kipling, per varie case editrici, tanto che lo scrittore fece causa a un editore che aveva pubblicato la sua poesia vampiresca assieme ad altre.

Il fenomeno più straordinario è però il diffondersi di “libricini”, sia in Inghilterra sia in America, che in edizioni “non autorizzate” riproponevano The Vampire ai lettori come singolo volumetto. In genere erano fascicoli di poche pagine, in carta color crema, con ornamenti e disegni spesso di colore rosso, a volte rilegati con un nastrino di seta, in molti casi con la riproduzione all’interno del quadro di Philip Burne-Jones. La sopravvivenza fino ai giorni nostri di molte copie di quei libretti conferma che ebbero una consistente diffusione, complessivamente in migliaia di copie.

Una delle prime edizioni è pubblicata a Boston nel 1898 in due versioni. Il frontespizio indica che il volumetto è “Privately Printed”, senza nome dell’editore (si è ipotizzato che si tratti della Cornhill Press). Sulla copertina svettano pipistrelli in rosso, su un cielo dove si staglia una falce di luna, disegnati da E. J. Clark e ripetuti in ogni pagina, su carta color crema, una strofa per pagina. Un’altra versione ha un frontespizio con il disegno in rosso di una donna, tra le tombe di un cimitero, che gioca con un pipistrello (lo stesso disegno si ripete come cornice di ogni strofa della poesia). Va segnalato che diverse edizioni di The Vampire sovrapponevano nell’iconografia il vampirismo leggendario associato al notturno pipistrello e la donna in carne e ossa.

Due versioni dell’edizione di Boston

Nello stesso 1898 The Vampire è stampato anche a Washington da Woodward & Lothrop, in 20 pagine su carta lucida, e a marzo e giugno di quell’anno in due varianti con carta diversa per M.F. Mansfield di New York. Quest’ultima edizione aveva copertina rossa con scritte in oro ed era illustrata da un pipistrello stilizzato in copertina e all’interno, opera di Blanche McManus (moglie dell’editore Mansfield). Stampata in 650 copie, ospitava un disegno che riproduce parzialmente il quadro di Burne-Jones. Un’altra edizione in sole 4 pagine è stampata per il giorni di San Valentino 1898 da Adirondack Press, di Gouverneur, nello stato di New York

Tra le tante edizioni, si segnala quella di Grosset & Co., New York (1898), con in copertina una testa di donna con ali da pipistrello su inserti in rosso e all’interno la riproduzione fotografica del quadro di Burne-Jones. La casa editrice Doxey di San Francisco stampa The Vampire nel 1899 con illustrazioni di Florence Lundborg e poi nel 1901 con illustrazioni di Lander Phelps. Tra il 1898 e il 1899 The Vampire compare anche su un solo foglio di grande formato.

Una certa fortuna ebbero infine i minilibri di piccolissima dimensione con la ristampa di The Vampire, quasi sempre assieme ad altre poesie di Kipling, ma con il titolo di copertina dedicato esclusivamente al testo vampiresco.

Copertine di vari volumi in piccolo formato

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 1

La vampira del quadro: The Vampire di Philip Burne-Jones

Il 1897 è l’anno di nascita dell’immaginario vampiresco moderno. Il 18 maggio si tiene la rappresentazione teatrale di Dracula: ovvero il Non-Morto, prima apparizione pubblica della creatura di Bram Stoker. Poi il 26 maggio il romanzo Dracula esce in libreria (e il 22 giugno si celebra il Giubileo di diamante della Regina Vittoria: può sembrare fuori tema, eppure non lo è). Un mese prima, però, i vampiri avevano già infestato l’immaginario grazie a un quadro e una poesia, oggi poco noti, ma per alcuni anni più popolari del conte Dracula. Il termine “vampire” si allontanava dalla sua valenza soprannaturale, indicando non tanto un morto che torna dalla tomba, quanto una creatura spietata, di sesso femminile, che sugge energie e provoca sciagure: di lì a poco la parola sarebbe stata sintetizzata in “vamp”.

In un freddo sabato 24 aprile 1897, alla New Gallery di Londra si inaugura un’esposizione di quadri in occasione della decima mostra estiva (Tenth Annual Summer Exhibition) della galleria. La maggior curiosità è subito creata da un dipinto racchiuso in una cornice dorata, The Vampire di Philip Burne-Jones, e dalla poesia omonima scritta per l’occasione da Rudyard Kipling, cugino dell’artista, e stampata nel catalogo. Nel quadro, un giovane uomo giace riverso sul letto, morente o in deliquio. Sul petto scoperto c’è una ferita e una donna lo sovrasta, in camicia da notte, le braccia nude e le labbra socchiuse in un sorriso enigmatico. Secondo gli articoli dell’epoca, nel dipinto (oggi perduto e mai riprodotto a colori se non in una cartolina poco attendibile) al bianco vestito della vampira si accostavano il verde e il rosso degli arredi, mentre sul petto del giovane esanime si notava una macchia vermiglia.

Oggi il quadro ci appare certamente innocuo, ma nel 1897 l’immagine di un uomo soggiogato e vampirizzato da una femmina predatrice era ancora capace di far nascere turbamenti. “The Sunday Times” (25 aprile 1897) scriveva che The Vampire “colpisce il pubblico”: “La donna appoggiata sul giovane morto, della cui linfa vitale si è nutrita, è dipinta con tale forza che cattura l’attenzione”. “Tutti si fermano davanti al quadro di Mr. Philip Burne-Jones”, esposto nella South Room della galleria, e leggono la poesia di Kipling, aggiungeva il “Country Life Illustrated” (1 maggio 1897).

The Vampire in una riproduzione del 1902 e, accanto, colorizzato con l’intelligenza artificiale

In breve The Vampire si rivela un evento e l’interesse si moltiplica grazie ai versi di Kipling, mentre il quadro viene proposto in fotografia da vari giornali (“The International Studio” ne pubblica una riproduzione a tutta pagina, nella sua edizione speciale per la mostra alla New Gallery). I critici sono generalmente benevoli, a parte qualcuno che trovò il soggetto “sgradevole”.

L’autore del quadro portava un nome illustre, perché il padre Edward Burne-Jones era uno dei più apprezzati pittori preraffaelliti (e la madre Georgiana, pittrice a sua volta e zia di Kipling, tra l’altro presenziò all’inaugurazione della mostra alla New Gallery, in abiti elegantissimi). Di carattere instabile, Philip Burne-Jones frequentava le cerchie di Oscar Wilde e poi di Virginia Woolf. Quest’ultima nei suoi diari non dà giudizi molto positivi del suo amico Phil, definendolo “una specie di dissipatore degenerato” che spendeva tutte le sterline guadagnate con i quadri in “avventure galanti e lussi”. Tra le frequentazioni di Philip non mancava Bram Stoker: i due si conoscevano bene, da tempo. Il padre dell’artista, Edward, aveva realizzato scenografie per il Lyceum, il teatro londinese di Henry Irving gestito da Stoker, e nel 1882 aveva disegnato un ritratto di Florence Balcombe, moglie dello scrittore. Sono conservate inoltre lettere del 1895 tra Edward Burne-Jones e Stoker. Sappiamo anche che il pittore preraffaellita era ospite a pranzi e cene con Irving e Stoker all’esclusivo Beefsteak Club, a conferma di una familiarità che senza dubbio coinvolgeva anche Philip. Quest’ultimo, inoltre, nel 1888 aveva collaborato lui stesso a scenografie per il Lyceum e il suo nome è citato nei ricordi di Ellen Terry, la diva indiscussa di quel teatro.

Inconsapevole di aver anticipato con il suo quadro una stagione destinata a fondare l’immaginario vampiresco successivo, Philip Burne-Jones ricevette in omaggio il romanzo Dracula da Stoker in persona. Lo testimonia una sua lettera datata 16 giugno 1897: “Caro Bram Stoker, la tua gentilissima promessa dell’altra sera si è concretizzata con grande piacere oggi, quando il tuo libro è arrivato. Inutile dire con quanto interesse lo leggerò o quanto valore abbia per me in quanto dono del suo dotato autore. Appena ne avrò una copia ti prego di accettare una fotografia del mio ‘Vampire’ – una donna in questo caso, tanto per creare il giusto equilibrio!”.

L’uscita di Dracula a poche settimane dalla mostra della New Gallery non poteva che collegarsi a un crescente interesse, non solo “anglosassone”, per i vampiri. La recensione di Dracula sul “Weekly Sun” del 6 giugno 1897 metteva in diretta relazione il quadro di Burne-Jones e il romanzo di Stoker: “Solo quando ho letto il libro del signor Stoker ho capito in pieno il significato e la stranezza misteriosa [weirdness] di quel dipinto” (non ho rintracciato l’articolo originale, citato in due testi di David J. Skal: Fatal Image. The Artist, the Actress, and “The Vampire”, in Vampires: Encounters with the Undead, Black Dog & Leventhal, New York 2001; Something in the Blood, W. W. Norton & Company, New York 2016. Su Stoker e i Burne-Jones vedi anche Barbara Belford, Bram Stoker: A Biography of the Author of Dracula, Weidenfeld & Nicolson, London 1996).

Gossip vampireschi

Philip Burne-Jones dopo The Vampire si trovò al centro di una grande attenzione da parte dei giornali e il quadro scatenò subito una marea di pettegolezzi, perché nel volto della vampira si notò una straordinaria somiglianza con un’attrice inglese che si vociferava avesse avuto una tempestosa relazione con l’artista: Beatrice Tanner, di madre italiana, nota sulle scene come Mrs. Patrick Campbell (dal nome del primo marito).

La stampa, anche oltreoceano, evidenziò subito la vicenda, all’inizio senza citare il nome dell’”attrice inglese”, la quale – scrivevano – si sarebbe irritata non solo per essere apparentata a una vampira nel quadro, ma soprattutto per la descrizione impietosa contenuta nella poesia di Kipling. Di fronte al clamore intorno a quel dipinto, l’attrice si confidò proprio con la sorella di Burne-Jones, Margaret, sua amica e vicina di casa.

Mrs. Patrick Campbell

Il critico teatrale Elwyn Barron, su “The Brooklyn Daily Eagle” (27 giugno 1897), sarà poi esplicito, facendo nome e cognome: “Chi guarda quel quadro vede abbastanza chiaramente nella donna un eccellente ritratto di Mrs. Patrick Campbell. La somiglianza è casuale?”. La risposta di Barron era negativa, dato che era notorio il legame tra l’artista e l’attrice: Burne-Jones era stato un “generoso amico” e “benefattore” per Mrs. Campbell (i gossip dicevano che l’avesse ricoperta di gioielli e pellicce), fino a che lei gli aveva voltato le spalle, inducendolo alla “vendetta”.

Mrs. Patrick Campbell era all’epoca molto nota. Ritratta anche da Aubrey Beardsley, aveva recitato al teatro Lyceum in ruoli scespiriani ed era diventata famosa nel 1893 con la parte del titolo in The Second Mrs Tanqueray di Arthur Wing Pinero. Per certi aspetti era un ruolo di vamp ante litteram, una donna dalla grande libertà sessuale che alla fine non regge ai pregiudizi sociali verso il suo comportamento e si uccide. In seguito l’attrice diventerà la grande passione amorosa di George Bernard Shaw.

Il teatro ha dunque un ruolo importante nella nascita dell’idea moderna di vampiro. Se Dracula fa il suo esordio sul palcoscenico, prima ancora che in libreria, la donna vampiro pare connessa strettamente al teatro e alle attrici. Non solo Stoker in Dracula paragona apertamente Lucy diventata vampira a Ellen Terry, ma con tutta probabilità il volto della vampira di Burne-Jones era quello dell’attrice teatrale Campbell. Negli anni immediatamente successivi, come vedremo in un prossimo articolo, proprio a teatro si manifesterà più spesso la vampira, recitando o ballando.

Le fonti della vampira di Burne-Jones

Anche se alla sua prima apparizione londinese The Vampire ottenne buone recensioni dai critici d’arte, il quadro deve la sua popolarità soprattutto all’argomento scottante della temuta emancipazione femminile e al gossip su Mrs. Campbell. L’artista, poi, doveva sostenere il peso del paragone con il celebre padre. Edward Burne-Jones ritraeva spesso donne che apparivano svenute o addormentate e di fatto il figlio Philip ribaltava quelle concezioni, facendo della donna una predatrice. Ma ci sono almeno due importanti eccezioni nell’opera di Edward Burne-Jones che anticipano proprio il dipinto del figlio e ne sono state ispirazione. Come The Vampire, anche quei quadri fecero scandalo e sensazione. Si tratta di Phyllis and Demophoon (1870) e The Depths of the Sea (1887).

Il primo dipinto evoca il mito di Fillide e Demofonte, descritto da Ovidio e poi da Geoffrey Chaucer. Fillide, regina della Tracia, si innamora di Demofonte che però la abbandona. Fillide si impicca e gli dei la trasformano in un albero di mandorla. Demofonte pentito abbraccia l’albero e Fillide si materializza nei germogli della pianta. Aprendo uno scrigno che Fillide gli aveva donato, Demofonte inciampa e muore trafitto dalla sua spada. Edward Burne-Jones rielabora il mito facendo di Fillide una sorta di vampira che torna dalla morte per rivendicare gli abbracci del suo amante.

Ad apparentare Phyllis and Demophoon e The Vampire concorrono anche le polemiche che circondarono entrambi i quadri. Se Philip Burne-Jones fece scalpore per aver ritratto una nota attrice a cui era stato legato, sia Fillide che Demofonte avevano nell’opera di Edward Burne-Jones il volto della modella Maria Zambaco, con la quale l’artista aveva avuto una relazione. Quando il quadro fu presentato a una mostra della Old Watercolour Society nel 1870 si sollevarono grandi polemiche per la rappresentazione di Demofonte nudo, con i genitali esposti, tanto che dopo due settimane Burne-Jones ritirò il dipinto e poi si dimise dalla Society. Oltre un decennio dopo, il pittore rielaborerà il quadro con il titolo The Tree of Forgiveness (1882), lasciando il volto della Zambaco solo nelle fattezze di Phyllis: quasi per scherno verso i critici dell’opera precedente, ora il nudo integrale era della fanciulla, mentre il giovane maschio era pudicamente coperto nelle parti intime da un velo.

Le due versioni di Phyllis and Demophoon

Il tema della donna fatale è poi proposto ancora da Edward Burne-Jones con The Depths of the Sea (1886, oggi è visibile al pubblico solo una copia realizzata successivamente), dove un’androgina sirena trascina il corpo di un giovane nudo nelle profondità marine. Di nuovo il soggetto suscitò polemiche, per il sorriso indefinibile della sirena che pare compiaciuta dal destino fatale del giovane annegato e che, come un serpente, avvolge il maschio nelle sue spire.

The Depths of the Sea di Edward Burne-Jones

A parte l’ispirazione alle opere del padre, i riferimenti innegabili di Philip Burne-Jones per The Vampire risalgono a L’incubo (1781) di Johann Heinrich Füssli e La morte di Chatterton (1856) di Henry Wallis. La posizione reclinata dell’uomo in The Vampire coincide con quella della donna nel quadro di Füssli, ma al posto del demone che le pesa sul corpo c’è la vampira, la donna emancipata ormai diventata l’incubo del maschio vittoriano, il pericolo da cui fuggire. Così come la posizione del giovane vampirizzato è identica a quella di La morte di Chatterton, ispirato al suicidio con arsenico del poeta diciassettenne Thomas Chatterton.

In alto, L’incubo di Johann Heinrich Füssli e in basso La morte di Chatterton di Henry Wallis

Per quanto riguarda il soggetto di The Vampire, Philip Burne-Jones ne ha parlato in un’intervista rilasciata, nel suo grande studio londinese di West Kensington, a un anonimo giornalista (o a una giornalista: raramente all’epoca gli articoli dei quotidiani erano firmati) che esprimeva un’ammirazione sconfinata per il pittore e per The Vampire, al punto di sostenere che con quel quadro l’artista aveva “tristemente distrutto la mia serenità mentale e la mia capacità di lavorare” (“The Argus”, 26 giugno 1898). L’intervista è interessante perché Burne-Jones spiega le sue intenzioni nella realizzazione del quadro: “Volevo dipingere una di quelle donne che portano rovina, che prosciugano la linfa vitale di un uomo e i versi di Kipling rendevano l’idea. Un uomo può essere consapevole che la donna amata è malvagia, priva di anima, irragionevole, una vera Vampira egoista e avida, ma nonostante questa consapevolezza continuerà ad amarla. Ha calcolato il costo, ha considerato la pena: si tratta di rovina e morte, ma lui non può resistere. Di sicuro era così per l’uomo del mio quadro, ma era contento che andasse in quel modo ed è morto con un sorriso in parte di pietà, in parte d’amore, ma senza rimprovero negli occhi”.

Un disegno che riproduce una prima versione di The Vampire (da “The Argus”, 26 giugno 1898)

The Vampire in America

Nel 1902, Philip Burne-Jones tentò la fortuna negli Stati Uniti, partendo con un carico di suoi dipinti nella speranza di venderli a clienti americani e aprendo un suo studio a New York. Portò con sé anche The Vampire, il cui valore era stimato intorno ai 15.000 dollari, una cifra non alta considerato il clamore che circondava il quadro. A un certo punto, durante il soggiorno in America di Burne-Jones, corse voce che il dipinto fosse stato venduto a 18.400 dollari, ma l’autore si affrettò a smentire e sostenne che non era in vendita.

Philip Burne-Jones nel suo studio di New York con The Vampire alla parete

L’artista (che nel 1898 alla morte del padre aveva ereditato il titolo di baronetto, diventando Sir Philip) espose The Vampire alla galleria M. Knoedler & Co, sulla Quinta Strada di New York, dal 17 al 29 marzo 1902, con un catalogo che nella seconda pagina ristampava la poesia di Rudyard Kipling. Le recensioni, a distanza di cinque anni dalla mostra londinese, questa volta non furono positive. “The New York Press” definì il quadro “ripugnante” e “morboso” (28 marzo 1902), ma il culmine fu la stroncatura del “New York Times” (20 marzo 1902), severo e sprezzante per altro sia verso il padre Edward che verso lo stesso Kipling. “Sir Philip ha il talento di un topolino”, sentenziò l’autorevole quotidiano.

Mentre Philip era in America, sua madre si rese protagonista di un episodio che coinvolgeva proprio Kipling. Convinta pacifista, la signora Burne-Jones aveva appeso uno striscione alla finestra della sua abitazione contro la seconda guerra boera, appena vinta dalle truppe britanniche con un bagno di sangue: “Avete ucciso, avete conquistato”, si leggeva nello striscione. Una folla inferocita di nazionalisti prese d’assedio la casa della signora e solo l’intervento di Kipling, che abitava nella stessa zona, sedò gli animi. Il “poeta dell’imperialismo”, come era definito allora, scese in piazza e convinse sua zia Georgiana a togliere lo striscione e i manifestanti ad andarsene.

Sir Philip era lontano dalle posizioni politiche di sua madre e in America pensava solo a promuoversi nel mondo artistico. Espose The Vampire anche a Chicago, nel gennaio 1903 alla Russell’s Gallery, ancora suscitando scandalo e richieste di rimozione da parte dei sostenitori di Mrs. Campbell. L’attrice era a Chicago con il suo agente, ospitata nello stesso residence di Sir Philip, per la gioia dei giornalisti che potevano ricamare sul vecchio gossip intorno a The Vampire. Così, Burne-Jones si trovò costretto a smentire con la stampa qualsiasi nesso tra la sua vampira e l’innominata star del teatro: sostenne che la modella del ritratto, a pagamento, era una ragazza di Bruxelles e non la famosa attrice. Mrs. Campbell invece inviò una lettera a “The Daily News” (16 gennaio 1903), negando di trovarsi a Londra quando venne realizzato il dipinto, ma senza sfatare l’ipotesi di essere la “donna del ritratto”.

Incalzato da William Salisbury (ne scriverà in The Career of a Journalist, B. W. Dodge & Company, New York 1908), Burne-Jones rispondeva di non conoscere affatto Mrs. Campbell. Peccato che il giornalista si sia recato subito dall’attrice chiedendole se conosceva l’artista: “Beh, certo. Lo conosco e conoscevo bene suo padre. Sua sorella l’ho sempre considerata una delle mie più care amiche”. “Eravate voi l’originale di The Vampire?”, preme Salisbury. “Questo non posso dirlo. Ho sentito che il quadro ha una somiglianza impressionante con me e che questo ha dato origine al suo successo sensazionale”. Dunque Burne-Jons smentisce, mentre Mrs. Campbell implicitamente conferma e anzi lancia la stilettata: sarebbe solo grazie a lei se The Vampire aveva fatto tanto discutere.

I gossip proseguirono per giorni, tanto che secondo Salisbury “alla fine l’artista ci ha chiesto, quasi in lacrime, di non nominargli più ‘quella donna’”. A un ballo della buona società si invitarono sia Mrs. Campbell che Sir Philip, sperando forse nelle scintille di un incontro tra i due, ma il pittore se ne andò accuratamente prima dell’arrivo di lei, per evitare di vederla, e continuò a prendersela con i giornalisti fino alla sua partenza per l’Inghilterra. Dopo un anno, infatti, Burne-Jones lasciò l’America e tornò in patria, senza aver migliorato radicalmente la sua carriera. Il destino di The Vampire è a questo punto oscuro. Il quadro trovò un compratore negli Stati Uniti o seguì il suo autore a Londra? Certamente è svanito nel nulla.

Sir Philip Burne-Jones dall’esperienza americana trasse un libro, Dollars and Democracy (D. Appleton & Company, New York 1904), illustrandolo con eleganti e ironiche vignette. Non era per nulla soddisfatto del soggiorno negli States e con il libro mise in atto un’altra vendetta, dopo quella verso la Campbell che lo aveva lasciato, in questo caso una vendetta verso un paese che non lo aveva trattato troppo bene: criticò l’amore per il denaro dei cittadini, l’assenza di “deferenza” da parte della servitù e dei subalterni, le differenze di costumi tra le donne americane e quelle europee.

Negli anni successivi Burne-Jones non vide mai decollare la sua carriera di artista. Ebbe molte relazioni, ma non si sposò mai. Nel 1926 muore a Londra, all’età di 63 anni, ufficialmente per un infarto, ma alcune voci dell’epoca insinuavano che si fosse tolto la vita.

Dopo il successo clamoroso del suo quadro, Philip Burne-Jones era restato sempre “il pittore di The Vampire”, identificato con quell’unica opera. Era vittima della maledizione che pare colpire chiunque si apparenti al tema dei vampiri (da John W. Polidori a Bram Stoker, da Bela Lugosi a Christopher Lee): rimanere ingabbiato nel riferimento al vampirismo, come un marchio indelebile.

MARXISTI E VAMPIRI

Nei giorni scorsi è stato disponibile su ARTE, il canale culturale in streaming, il film tedesco Blutsauger (Succhiasangue), che la stessa ARTE ha coprodotto.
Scritto, montato e diretto da Julian Radlmaier, il film è del 2020 ed è stato presentato l’anno dopo alla Berlinale. Le versioni in inglese e in francese portano il sottotitolo Una commedia marxista di vampiri che sintetizza il contenuto del film.

Ambientato in Germania nel 1928, Blutsauger si avvia con le immagini di un “gruppo di lettura” intento a discutere sui brani del Capitale di Marx dove il capitalismo che “succhia lavoro vivo” è paragonato ai vampiri. E se non fosse una metafora e i “padroni” fossero davvero dei vampiri? Su questa domanda si sviluppa la trama, volutamente surreale.
L’attore russo Ljowuschka (Alexandre Koberidze) cerca fortuna in occidente dopo aver interpretato Trotski in Ottobre! di Serghei Eisenstein, per poi constatare che tutte le sue scene erano state tagliate dal film su ordine di Stalin. Fingendosi un barone in fuga dai bolscevichi, Ljowuschka fa la conoscenza della bizzarra intellettuale, e ricca ereditiera, Octavia (Lilith Stangenberg). In realtà è una vampira come gli altri esponenti della sua classe sociale, ma Ljowuschka si innamora di lei e non vuole credere che sia una succhiasangue, anche quando lui stesso è morso al collo. Per aiutare il russo a fare carriera nel cinema, tra l’altro, Octavia realizza un film di vampiri, dove lei in persona recita la parte della vittima di un vampiro cinese. Nonostante tra la popolazione aumentino le morti attribuite ai vampiri, i proletari-rivoluzionari sono incapaci di capire la realtà: decidono che il vero vampiro è l’orientale del film e si accaniscono su capri espiatori, assolvendo così la ricca Octavia e gli altri borghesi-vampiri che restano liberi di continuare le loro attività predatorie.

Il film è costruito su interminabili scene con camera fissa, rese tollerabili dall’ottima fotografia, e su dialoghi da teatro dell’assurdo. La stessa ambientazione storica è paradossale, con abiti odierni accanto a vestiti d’epoca e con espliciti sfasamenti temporali: ad esempio, vediamo Jakob (Alexander Herbst), assistente-maggiordomo vampirizzato da Octavia, bere un’anacronistica lattina di cocacola negli anni Venti del secolo scorso.

Blutsauger è l’ennesima dimostrazione delle infinite suggestioni che il tema vampiresco continua a suscitare, prestandosi agli approcci più svariati. Al di là del giudizio sulla riuscita dell’esperimento, qui il vampirismo è occasione per una satira contemporaneamente dei marxisti “ortodossi” e della borghesia anticomunista.