ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 8

Un presidente americano contro i vampiri

C’è stato un presidente degli Stati Uniti che ha avuto stretti rapporti con i vampiri. O meglio, con gli autori che hanno creato il vampirismo dell’immaginario novecentesco, in particolare diffondendo la figura della Vampira e di tutte le sue sorelle. È Theodore Roosevelt, detto Teddy, presidente degli Usa dal 1901 al 1909. Roosevelt è stato in contatto diretto con ben cinque nomi che abbiamo incontrato in questo viaggio alle fonti del vampiro moderno: Bram Stoker, Rudyard Kipling, Philip Burne-Jones, Porter Emerson Browne e George Sylvester Viereck.

Roosevelt vantava una vita avventurosa, prima come inflessibile capo della polizia di New York dal 1895, poi ardimentoso comandante sul campo a Cuba nella guerra contro gli spagnoli, per avviarsi quindi alla carriera politica su posizioni ultraconservatrici e diventare presidente nel 1901, subentrando a William McKinley  ucciso da un anarchico. La sua estrosa personalità lo portò a dialogare con scrittori come H. Rider Haggard e Arthur Conan Doyle.

La Vampira che popolava l’immaginario dopo la poesia di Kipling rispecchiava i pericoli che l’America correva secondo Roosevelt, il timore profondo per la svirilizzazione dell’uomo bianco e di conseguenza la messa in discussione del suo predominio sul mondo.

Roosevelt incarnava l’uomo della frontiera, con disprezzo dichiarato per gli Indiani d’America tanto che salutava lo sterminio dei nativi americani come un trionfo della civiltà su esseri paragonati a “squallide bestie feroci” (The Winning of the West, G. P. Putnam’s Sons, New York 1894). Anche verso gli asiatici nutriva ostilità, considerando i cinesi “rovinosi per la razza bianca” e quindi da tenere lontani dagli Stati Uniti (in “Sewanee Review”, maggio 1894).

Per Roosevelt i bianchi anglosassoni, specialmente americani e tedeschi (negli inglesi aveva poca fiducia), dovevano allearsi per contrastare le altre razze: neri, slavi, latini e persino irlandesi. Mantenere pura al cento per cento la razza bianca era considerato da Roosevelt il problema fondamentale della sua epoca. Intorno al 1906 incomincia a cavalcare il concetto di “race suicide”, il suicidio della razza bianca che sarebbe commesso tramite il calo delle nascite tra gli americani di origine anglosassone e con i matrimoni misti. Inoltre per Roosevelt il matrimonio doveva essere indissolubile o comunque chi divorziava non doveva avere il diritto di risposarsi.

A unire i sei nomi (Stoker, Kipling, Burne-Jones, Browne, Viereck e Roosevelt) era lo stesso retroterra ideologico: imperialismo, suprematismo bianco, discriminazione delle donne. Erano terrorizzati dai pericoli che correva il loro sistema di valori, tra popoli colonizzati in rivolta, donne che pretendevano diritti, immigrati che aumentavano. I cacciatori di vampiri in Dracula potevano profilarsi come “rappresentanti della razza anglosassone uniti contro la minaccia al sangue dell’Inghilterra che Dracula mette in atto” (Louis H. Palmer, Vampires in the New World, Praeger, Santa Barbara 2013), così come la Vampira kiplinghiana personificava le paure per un indebolimento della razza bianca e del maschio.

Theodore Roosevelt

Roosevelt e Stoker

L’incontro tra Theodore Roosevelt e Bram Stoker risale al novembre 1895, quando lo scrittore era in un tour americano con Henry Irving. In quel momento Roosevelt era capo della polizia di New York. Stoker ricorda in Personal Reminiscences of Henry Irving (Macmillan, New York 1906) di essere rimasto favorevolmente impressionato da Roosevelt che, dopo un pranzo insieme, lo invitò alla sede della polizia per presenziare a una sorta di informale “processo” ad alcuni agenti sotto accusa. Con notevoli capacità di predizione, Stoker annotò nel suo diario: “Un giorno deve diventare Presidente. Un uomo che non si può blandire, non si può spaventare né comprare”.

Stoker e Roosevelt si incontrarono ancora il primo gennaio 1904, alla Casa Bianca. Insieme a Irving, lo scrittore si trovava a Washington ed entrambi parteciparono al ricevimento presidenziale per l’anno nuovo. Da capo della polizia Roosevelt era ora presidente, la profezia di Stoker si era avverata. Nel corso della cerimonia, Stoker rimase sorpreso che dopo quasi dieci anni dal loro primo incontro Roosevelt lo riconoscesse subito e lo chiamasse per nome. Il presidente si intrattenne in privato con Irving e Stoker per un’ora.

Lo scrittore irlandese aveva un altro contatto con la famiglia Roosevelt, già prima di conoscere Teddy. Nella sua cerchia britannica, infatti, frequentava da anni Robert Roosevelt, zio di Teddy Roosevelt e amico di Oscar Wilde. Secondo un’ipotesi circolata soprattutto in rete in anni recenti, Robert sarebbe uno dei candidati come ispirazione per il personaggio di Van Helsing in Dracula. A parte provenire da una famiglia di origini olandesi (è stato anche ambasciatore Usa nei Paesi Bassi dal 1888), Robert Roosevelt non ha altro in comune con l’immaginario Abraham Van Helsing: non era uomo di scienza, ma avvocato, e non si occupava di occulto, ma di studi sulla pesca. Forse solo il suo aspetto fisico potrebbe adattarsi a Van Helsing.

Più fondata, invece, la tesi secondo cui Quincey Morris, il texano che partecipa alla caccia a Dracula nel romanzo di Stoker, possa avere dei tratti che rimandano a Theodore Roosevelt. Per Clive Leatherdale, ad esempio, Morris “è un po’ sullo stampo di Teddy Roosevelt, conforme alla visione altezzosa che si aveva nella Gran Bretagna vittoriana dell’americano rude ma genuino” (Dracula. The Novel & The Legend, The Aquarian Press, Wellingborough 1985).

Robert Roosevelt, possibile ispiratore di Van Helsing

Roosevelt e Kipling

La sua mentalità imperialista, il suprematismo bianco e l’avversione a ogni modifica del ruolo tradizionale assegnato alle donne dovevano portare inevitabilmente Roosevelt a provare simpatia per Rudyard Kipling, il “poeta dell’imperialismo”. Tra il presidente americano e lo scrittore britannico c’erano sensibilità comuni che trovavano terreno fertile nel clima culturale predominante in quegli anni, tanto che il premio Pulitzer per la storia Frank Luther Mott è arrivato ad affermare che Roosevelt e Kipling sono state le due personalità che più hanno influenzato gli intellettuali americani dell’epoca: “Roosevelt e Kipling erano divinità gemelle per gli scrittori ‘rudi e duri’ agli inizi del ventesimo secolo” (Golden Multitudes, Macmillan, New York 1947).

L’incontro tra Kipling e Roosevelt avviene un paio d’anni prima che lo scrittore britannico scrivesse The Vampire. Kipling era in America con la moglie, dove progettava di restare a lungo, e conobbe il futuro presidente Usa al  Cosmos Club di New York, rimanendone subito attratto per le sue qualità di uomo d’azione e di conservatore estremo. Da allora iniziò una frequentazione che proseguì con scambi di lettere anche dopo la partenza di Kipling dall’America nell’estate del 1896. In una lettera dell’8 gennaio 1919, Kipling definiva Roosevelt “il miglior amico” che aveva avuto in America e in occasione della morte scrisse una poesia in suo onore, Great Heart.

Roosevelt aveva letto The Vampire e non poteva che trovare consonante con le sue idee il ritratto di una donna predatrice, metafora di degrado morale, e di un uomo prosciugato e reso inutile per la difesa della nazione o degli imperi. Per Roosevelt il compito primario nella vita delle donne era prendersi cura della casa e dei figli, come teorizzò in un articolo per “Metropolitan” del maggio 1916 (The Parasite Woman), e al contrario andava promosso il culto della mascolinità, da realizzarsi attraverso il salutismo e il rafforzamento fisico. Le Vampire rappresentavano la massima minaccia, capaci com’erano di fiaccare e indebolire gli uomini fino alla consunzione. Non erano forse associabili al suo timore delle malattie veneree che, veicolate da uomini caduti tra le spire di Vampire del sesso, potevano contagiare le mogli e i figli americani?

Roosevelt poteva ben vedere nella poesia di Kipling una coincidenza con la sua battaglia “contro i degenerati effetti della sessualità femminile” (Sarah Lyons Watts, Rough Rider in the White House: Theodore Roosevelt and the Politics of Desire, University of Chicago Press, Chicago 2003). Quello che Roosevelt non poteva apprezzare in The Vampire era la descrizione troppo compiaciuta dell’uomo distrutto dalla Vampira, come testimonia una sua lettera del 28 aprile 1899 allo scrittore Elbert Hubbard che nel luglio 1897 era stato tra i primi a pubblicare la poesia The Vampire sulla sua rivista “The Philistine”. Le osservazioni di Roosevelt non erano lusinghiere: “Vi devo dire che sono deliziato dai vostri libri. Lasciatemi solo protestare contro la poesia di Kipling The Vampire. Mi ha sempre colpito per la nota decadente, molto fuori luogo nel carattere di Kipling” (in The Letters of Theodore Roosevelt, a cura di Elting E. Morison, Harvard University Press, Cambridge 1951)

Questi dissensi non indebolirono il rapporto positivo tra lo scrittore e il presidente, al punto che nella campagna per le presidenziali del 1912 Roosevelt usò la strofa di una poesia di Kipling per i suoi manifesti elettorali.

Kipling (a sinistra) e Roosevelt nel loro primo incontro al Cosmos Club (da Cassell’s Book of Knowledge, 1910)

Roosevelt e Burne-Jones

I rapporti di Roosevelt con il pittore Philip Burne-Jones, che aveva ispirato con il suo quadro la Vampira di suo cugino Kipling, furono più limitati. L’incontro tra Roosevelt e l’artista avvenne quando Burne-Jones si era provvisoriamente trasferito in America, nel 1902, alla ricerca di successo oltreoceano e per vendere i suoi quadri (come sappiamo, portò con sé anche The Vampire). Vide una prima volta il presidente americano mentre passeggiava con un ministro, apparentemente senza scorta, poi gli fu presentato durante una cerimonia alla Harvard University e un terzo incontro avvenne a Oyster Bay.

Burne-Jones nutrì la speranza di poterlo ritrarre in un suo dipinto. Roosevelt, infatti, aveva apprezzato un ritratto di Kipling realizzato dal cugino pittore, ma l’obiettivo di Burne-Jones non venne raggiunto e restò deluso il desiderio di acquisire prestigio immortalando su tela il presidente Usa.

Dell’incontro a Harvard, Burne-Jones scrisse nel suo libro Dollars and Democracy: “Ho avuto un’impressione molto precisa di quell’uomo acuto ed energico, l’incarnazione stessa della forza e del vigore mascolino. Con modi meravigliosamente allegri e cordiali, mi salutò come se fossi stata l’unica persona al mondo che era ansioso di incontrare – sicuramente la forma di cortesia più gratificante, e che ci tocca tutti all’istante – e sebbene avesse probabilmente dimenticato la mia esistenza un minuto dopo e si affrettava tra la folla entusiasta dei suoi vecchi compagni di college, come un ragazzone di buon carattere troppo cresciuto, ricevendo e facendo mille saluti, pieni, pensavo, di una bonomia leggermente accentuata, tuttavia mi restava una gradevole impressione della sua accoglienza”.

Una riproduzione del quadro di Burne-Jones dalla “Sahib Edition” delle opere di Kipling (1909)

Roosevelt e Browne

Molto stretta fu l’amicizia e la collaborazione tra Roosevelt e l’uomo che trasformò la Vampira di Kipling nel testo teatrale e nel romanzo A Fool There Was, Porter Emerson Browne. Lo scrittore era un fervente interventista durante la Prima guerra mondiale e nel 1915 Roosevelt fu attratto da un suo articolo sull’affondamento del Lusitania. L’ex presidente volle conoscerlo e tra i due ci fu subito sintonia, tanto che Browne iniziò a scrivere discorsi per Roosevelt. La loro intesa politica si rafforza quando Roosevelt partecipa attivamente al movimento dei Vigilantes, creato nel 1916 da Browne per unire gli intellettuali americani sotto una bandiera patriottica e bellicista (alla morte dello scrittore, nel 1934, il “New York Times” lo definirà “acerrimo nemico dei pacifisti”).

Browne dedicò a Theodore Roosevelt il libro Scars and Stripes (Doran, New York 1917) che raccoglie suoi testi apparsi su giornali e riviste. Tra questi, il racconto Mary and Marie che mette in contrapposizione due donne, l’una semplice, ma coraggiosa e pronta a partecipare alla guerra, l’altra benestante e indifferente a tutto, una sorta di Vampira kiplinghiana “che di nulla si cura”. Nella satira Uncle Sham, invece, Browne ridicolizza le politiche del presidente Wilson ed esalta Roosevelt.

L’attivismo di Browne a favore della partecipazione americana alla guerra si univa perfettamente alle intransigenti idee di Roosevelt e culmina in un opuscolo di propaganda a favore dell’intervento americano (A Liberty Loan Primer, pubblicato dal Liberty Loan Committee nel 1918), indirizzato ai bambini e illustrato da James Montgomery Flagg, il grande artista dei poster. L’opuscolo invitava all’acquisto delle obbligazioni emesse dal governo degli Stati Uniti per sostenere le spese militari, tramite testi e disegni dove gli americani erano eroi belli e angelici, mentre i tedeschi erano rappresentati come repellenti mostri assetati di sangue.

Come definitivo omaggio a Roosevelt, nel 1919 Browne scrisse la sceneggiatura per il film celebrativo Our Teddy, diretto da William Nigh.

Un germanico bevitore di sangue nell’opuscolo di Porter Emerson Browne A Liberty Loan Primer

Roosevelt e Viereck

La personalità connessa all’immaginario vampiresco di inizio secolo che ebbe maggiori legami con Roosevelt è senza dubbio George Sylvester Viereck, l’autore di The House of the Vampire. Il padre, tedesco, aveva collaborato nel 1904 alla campagna elettorale di Roosevelt per la presidenza, orientando i votanti della comunità americana di origini germaniche. Sylvester nel 1911 prende le redini del giornale in lingua tedesca di suo padre e ne pubblica una versione in inglese. A quel punto l’ormai ex presidente Teddy Roosevelt si incuriosisce e discute con lo scrittore le possibili iniziative per rafforzare i legami politici e culturali tra America e Germania, aiutandolo a trovare finanziamenti per il giornale. Viereck, così, da quel momento sviluppa per l’ex presidente un attaccamento filiale (vedi Phyllis Keller, George Sylvester Viereck: The Psychology of a German-American Militant, “The Journal of Interdisciplinary History”, vol. 2, n. 1, 1971) e vede in lui il tipico “superuomo” che aveva teorizzato in The House of the Vampire. Nel 1912 decide di appoggiarlo nella campagna per la candidatura alle presidenziali, mettendo momentaneamente da parte le sue ambizioni di scrittore e poeta. Quando non riesce a ottenere la nomination dei Repubblicani, Roosevelt crea un suo partito personale, il Progressive Party. Viereck partecipa alla convention dei Repubblicani a Chicago, poi appoggia la costruzione del nuovo partito ed è talmente entusiasta di Roosevelt che torna a scrivere poesie, inneggiando in The Hymn of Armageddon all’uomo che considerava ormai il suo idolo.

Il progetto di un nuovo partito fallisce e viene eletto presidente il democratico Woodrow Wilson, ma la collaborazione tra Viereck e Roosevelt prosegue, orchestrando polemiche con il nuovo inquilino della Casa Bianca.

Lo scoppio della Prima guerra mondiale doveva però incrinare l’amicizia tra loro. Viereck era deluso dalle posizioni di Roosevelt, che non sosteneva la Germania nella Grande Guerra, nonostante la simpatia che aveva dimostrato in precedenza per il Kaiser. Tra febbraio e marzo 1915 c’è uno scambio di lettere tra i due, chiuso da una ramanzina di Roosevelt al suo giovane seguace: “Hai reso evidente che tutto il tuo cuore sta con il paese che preferisci, la Germania, e non con il paese che ti ha adottato, gli Stati Uniti. In queste circostanze qui non sei un buon cittadino… Per quanto mi riguarda, non ammetto una fedeltà divisa in due per chi ha la cittadinanza degli Stati Uniti” (lettera del 15 marzo 19195 conservata al Theodore Roosevelt Center).

L’ex presidente si spinge a invitare Viereck a lasciare l’America e tenta persino di farlo espellere dalla Poetry Society. Le reprimende di Roosevelt nei confronti di Viereck, però, non divennero mai pubbliche e i due continuarono a scambiarsi lettere.

Alla morte di Roosevelt, lo scrittore gli dedicò un libro (Roosevelt: A Study in Ambivalence, Jackson Press, New York 1919) spiegando il loro rapporto di odio-amore. Per un lungo periodo avevano condiviso l’ostilità verso l’Inghilterra e l’ammirazione per la Germania, ma allo scoppio della Grande Guerra l’americanismo di Roosevelt diventò incompatibile con le posizioni di Viereck. Tuttavia, se Roosevelt condannava il Viereck filogermanico, continuava a condividere con lui idee di fondo (vedi, tra l’altro, Patrick J. Quinn, Aleister Crowley, Sylvester Viereck. Literature, Lust, and the Great War, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle upon Tyne 2021).

Anni dopo, con il nuovo conflitto mondiale, il filonazista Viereck sarà affascinato da un altro “superuomo”: nel suo ufficio di New York insieme a un ritratto di Roosevelt campeggiava una foto ancora più grande di Adolf Hitler (Rachel Maddow, Prequel: An American Fight Against Fascism, Crown, New York 2023). Per ironia della sorte, a causa delle sue attività a favore della Germania nazista Viereck si troverà contro un altro Roosevelt, il cugino di Teddy diventato a sua volta presidente degli Usa nel 1933, Franklin Delano Roosevelt.

Una lettera di George Sylvester Viereck a Theodore Roosevelt del 1912

Roosevelt e i pipistrelli succhiasangue

Finito il suo incarico presidenziale, Theodore Roosevelt si era dedicato ai viaggi e alla passione per la caccia. Da un libro che dedicò alle esperienze in Brasile (Through the Brazilian Wilderness, Scribner’s Sons, New York 1914), apprendiamo che con i suoi compagni di caccia discuteva “dei fatti inspiegabili che avvenivano sulla mutevole frontiera tra la vita e la morte, tra il conosciuto e lo sconosciuto, e di vampiri, licantropi e fantasmi”.

Proprio in Brasile, Roosevelt fece la conoscenza dei pipistrelli vampiri, trattandone in un capitolo del suo libro: “Eravamo ora nella terra dei pipistrelli succhiasangue, i pipistrelli vampiri che succhiano il sangue degli esseri viventi, aggrappati o sospesi in volo sopra la schiena di un cavallo o di una mucca, oppure sulla mano o il piede di un uomo addormentato, facendo una ferita dalla quale il sangue continua a fluire molto dopo che la sete del pipistrello si è saziata. A Tapirapoan c’erano dei bovini e uno dei vitelli si presentò una mattina indebolito per la perdita di sangue che ancora gocciolava da una ferita sulla parte anteriore della schiena, fatta da un pipistrello. Ma i pipistrelli creano pochi danni in questa zona a paragone di quanto fanno in altri luoghi, dove non solo i muli e i buoi ma anche le galline devono essere custoditi di notte dietro protezioni a prova di pipistrello, altrimenti rischiano la vita. I responsabili principali e abituali sono varie specie di pipistrelli piuttosto piccoli, ma si dice che altri tipi di pipistrelli brasiliani abbiano acquisito quella maligna abitudine, almeno sporadicamente e localmente, variando la loro consueta dieta con bevute di sangue vivo. Uno dei membri brasiliani del nostro gruppo, il botanico Hoehne, era anche zoologo. Mi informò di aver appreso che persino i grandi pipistrelli frugivori si nutrono di sangue. Secondo le sue osservazioni, non sono loro a fare la ferita iniziale, ma dopo che è stata fatta da un vero vampiro leccano il sangue che fluisce e allargano la ferita. In America del sud mancano, rispetto a Africa e India, i grandi carnivori dalla straordinaria ferocia che mangiano uomini, ma in compenso si trovano piccole creature assetate di sangue che altrove sono innocue. Solo qui dei pesci non più grandi di una trota uccidono i bagnanti e dei pipistrelli dalle dimensioni dei comuni ‘topolini volanti’ dell’emisfero settentrionale prosciugano di sangue vitale grandi animali e l’uomo stesso”.

Un’ulteriore presenza dei pipistrelli, infine, si rintraccia in un disegno che Roosevelt allegò a una lettera indirizzata al direttore di “Emporia Gazette” (1 gennaio 1917) dove illustrava i “fallimentari tentativi” di espellere dei pipistrelli da un campanile.

Il disegno di Theodore Roosevelt sui pipistrelli

Roosevelt cacciatore di vampiri

Il nesso tra Roosevelt e i vampiri si è trasferito in romanzi e racconti che lo vedono impegnato in una lotta senza quartiere, nel suo stile, contro i nonmorti. Un primo esempio è offerto da Mike Resnick, scrittore di fantascienza per cinque volte premio Hugo, in Two Hunters in Manhattan (nell’antologia The Secret History of Vampires, a cura di Darrell Schweitzer e Martin H. Greenberg, Daw Books, New York 2007; ristampato in Mike Resnick, The Other Teddy Roosevelts, Subterranean, Burton 2008). Il racconto è ambientato nel 1897, quando Roosevelt era capo della polizia di New York: il vampiro greco Demosthenes miete vittime in città e Roosevelt lo uccide trafiggendolo con un bastone da passeggio imbevuto di acqua santa. Il metodo usato da Roosevelt per eliminare il vampiro ricorda una sua celebre frase, “Speak softly and carry a big stick; you will go far” (Parla gentilmente e portati un grosso bastone; andrai lontano), che aveva utilizzato per spiegare la sua politica estera.

Roosevelt è a caccia di vampiri anche in un breve romanzo, scritto da James Fortescue, dal titolo Theodore Roosevelt: Vampire Slayer (New Street Communications, Wickford 2012). Nella prefazione, l’autore afferma di essere imparentato con Robert Roosevelt e quindi “distante cugino” di Theodore, dicendosi certo che Stoker abbia basato il personaggio di Van Helsing proprio su Teddy Roosevelt. Nel romanzo, Roosevelt poliziotto insegue i vampiri dall’università di Harvard al quartiere a luci rosse di Manhattan.

Roosevelt torna a confrontarsi con i vampiri nel romanzo The Last American Vampire (Hachette, New York 2015) di Seth Grahame-Smith che già si era dedicato ad Abramo Lincoln come cacciatore di vampiri. Il protagonista del libro, il vampiro Henry O. Sturges che aveva contagiato Lincoln, incontra Roosevelt, a conoscenza dell’esistenza dei vampiri e sicuro dell’affidabilità del suo interlocutore. A lui confida le preoccupazioni per l’uso degli anarchici da parte dei vampiri: “Secondo Roosevelt i movimenti anarchici in Europa e negli Stati Uniti, erano di fatto parte di una ‘nascosta resurrezione vampiresca’ con l’obiettivo di sovvertire i governi che erano diventati sempre più ostili nei confronti dei vampiri in seguito alla Guerra Civile. Con la diminuzione del loro numero, quei vampiri avevano approfittato di un movimento esistente, reclutando alla propria causa giovani menti ideologizzate e facilmente manipolabili. E non solo negli Stati Uniti”.

Ancora vampiri per Roosevelt in Stoker’s Wilde West (Flame Tree, London 2020), parte di una serie di romanzi scritti da Stephen Hopstaken e Melissa Prusi  che hanno come protagonisti Oscar Wilde e Bram Stoker, uniti nella lotta a minacciose forze soprannaturali. Sotto forma di romanzo epistolare ambientato nel 1882, in Stoker’s Wilde West oltre ai due scrittori irlandesi ritroviamo Henry Irving e Florence Stoker. Questa volta l’esperienza di Stoker e Wilde è richiesta da Robert Roosevelt e dal nipote Teddy che li chiamano per contribuire alla sconfitta di una banda di pistoleri vampiri dediti alle rapine nel Far West.

Due fantasie letterarie su Roosevelt cacciatore di vampiri

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 2

La vampira di Kipling

Per un trentennio il mondo anglosassone, e non solo, fu attraversato da quella che si definì “vampire craze”, una vera e propria “mania per i vampiri” (o meglio per le vampire), avviata nel 1897 con il quadro e la poesia The Vampire per poi passare il testimone, nel 1927, alla passione per Dracula grazie a Bela Lugosi.

Come abbiamo visto nell’articolo precedente, l’inizio della saga di The Vampire (imperniata su una donna che porta sventura e distruzione ai maschi, preferibilmente benestanti e sposati) è avvenuto con il quadro di Philip Burne-Jones. Ma quella vampira vittoriana dipinta forse non avrebbe avuto successo per decenni se non fosse stata accompagnata dalla poesia scritta per l’occasione dall’autore del Libro della giungla, Rudyard Kipling. È uno dei primi esempi di vampiro multimediale che attraversa differenti mezzi di comunicazione e di espressione: un quadro, una poesia, poi un testo teatrale, un romanzo, diversi film, balletti.

Le loro madri erano sorelle, quindi Kipling e Burne-Jones si erano frequentati fin da bambini e per un periodo, in età adulta, furono legati da stretta amicizia. Ci si è chiesti se per The Vampire Burne-Jones si sia ispirato alla poesia di Kipling o viceversa. Stando alle sue dichiarazioni, in occasione dell’intervista che rilasciò a “The Argus” nel 1898, il pittore aveva avuto in mente il soggetto di The Vampire per molti anni e pare ormai certo che Kipling scrisse la poesia solo dopo aver visto il quadro del cugino, per aiutarlo a lanciare la sua opera.

Due cartoline postali con la riproduzione del quadro di Burne Jones e la poesia di Kipling

La prima apparizione in forma stampata della poesia è perciò affidata alla pagina 8 nel catalogo per la mostra della New Gallery, dove il quadro era esposto come opera n. 15. Il padre di Philip, il pittore Edward Burne-Jones, sapeva che Kipling, su richiesta del cugino, aveva scritto una poesia per quel catalogo. Andrew Lycett (in Rudyard Kipling, Weidenfeld & Nicolson, London 1999) cita un ricordo dell’assistente personale dell’artista, Thomas Rooke, che il 19 aprile 1897 discusse del quadro e della poesia The Vampire con il grande pittore preraffaellita. Secondo Edward Burne-Jones, “la poesia di Ruddy sul quadro di Phil” era talmente lunga che il catalogo sarebbe stato occupato quasi tutto da quel testo. In realtà la poesia era piuttosto breve, ma di certo focalizzò l’attenzione di pubblico e critica su quell’unico quadro, a detrimento delle altre opere esposte compresi dipinti di John Singer Sargent e dello stesso Edward Burne-Jones.

Questo il testo di The Vampire, in una traduzione rielaborata da Vampirismus. Gotico e fantastico nel mito del vampiro (Alfamedia, Roma 1986):

C’era un folle e diceva le preghiere
(proprio come te e me!)
per uno straccio, un osso e una matassa di capelli
(la chiamavamo la donna che di nulla si cura)
ma il folle la chiamava la sua bella signora
(proprio come te e me!)

Oh, gli anni sprecati e le lacrime sprecate
e il lavoro della nostra mente e della nostra mano
appartengono alla donna che non sapeva
(e ora sappiamo che non avrebbe mai potuto sapere )
e che non capiva.

C’era un folle e spese i suoi beni
(proprio come te e me!)
l’onore e l’onestà e un vero ardore
(e non era quello che la signora voleva)
ma un folle deve seguire la sua inclinazione naturale
(proprio come te e me!)

Oh, le energie che abbiamo perso e i guadagni che abbiamo perso
e le grandi cose che progettavamo
appartengono alla donna che non sapeva perché
(e ora sappiamo che non avrebbe mai saputo perché)
e non capiva!

Il folle fu spogliato sino all’osso
(proprio come te e me!)
e lei poteva accorgersene quando lo gettò via
(ma non risulta che la signora abbia provato ad accorgersene)
al punto che un poco di lui visse, ma il più di lui morì
(proprio come te e me!)

E non è la vergogna e non è la colpa
che morde come un tizzone incandescente.
Ma venire a sapere che lei mai seppe perché
(vedendo, alla fine, che lei mai avrebbe potuto sapere perché)
e mai avrebbe capito.

Un’edizione americana di The Vampire del 1898

La coincidenza temporale tra la poesia di Kipling e la pubblicazione del romanzo Dracula di Bram Stoker (il 17 aprile 1897 la prima, il 26 maggio il secondo) avviò un interesse inusitato per i vampiri alla fine del secolo e per i decenni successivi. Ma in quel periodo a influenzare il senso comune e persino il linguaggio non fu Dracula, ma The Vampire. Un decennio dopo, la parola “vampire” era associata correntemente solo al vampirismo parassitario indicato da Kipling e Burne-Jones e agli esotici pipistrelli mostrati nelle fiere che si diceva succhiassero il sangue, tanto che “The New York Times” (5 marzo 1899) scriveva: “La gente oggi usa con noncuranza la parola ‘vampiro’ come termine più forte e un po’ più spregevole di ‘parassita’… Probabilmente poche persone sanno cos’è un vero vampiro”. E il quotidiano si sentiva in dovere di spiegare che i vampiri risalgono alle credenze popolari sui morti che tornano dalla tomba e si cibano del sangue dei viventi (sostenendo del tutto fantasiosamente che “questa superstizione era prevalente nel sud Italia mezzo secolo fa”). Dracula quindi non aveva lasciato il segno sui lettori di quegli anni con il suo vampiro soprannaturale, ed erano momentaneamente dimenticati The Vampyre di John Polidori (1819) e Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu (1872): a conclusione del secolo era The Vampire a imporre la concezione realistica del vampirismo, un vampirismo “psicologico”, “spirituale” e soprattutto femminile, solo metaforicamente associato alle antiche credenze sui nonmorti.

È significativo che nel 1914 Ernst Havekost, in una sua pionieristica dissertazione di dottorato sulla leggenda dei vampiri in Inghilterra (Die Vampirsage in England, Facoltà di filosofia dell’Università di Halle-Wittenberg), citi Dracula solo come titolo, in un elenco di “opere minori” sul vampirismo, a testimonianza della inferiore notorietà del libro di Stoker, nei primi due decenni del Novecento, rispetto alla poesia di Kipling, riportata integralmente nella dissertazione.

Resta comunque importante e singolare che le due opere, Dracula e The Vampire, avessero fatto la loro comparsa a poche settimana di distanza l’una dall’altra. Entrambi accesi sostenitori dell’imperialismo britannico, Kipling e Stoker si conoscevano bene e si frequentavano almeno dal 1889, dato che il Lyceum Theatre di Irving era un crocevia per incontri tra intellettuali.

Il 3 febbraio 1892, Rudyard Kipling prende un treno con la moglie Caroline per recarsi a Liverpool e iniziare un viaggio di nozze negli Stati Uniti. Alla stazione, scrittori ed editori li salutano. C’era Henry James, ma c’era anche Bram Stoker. Secondo Jimmie E. Cain l’episodio dimostrerebbe “gli stretti rapporti tra Stoker e Kipling” (Bram Stoker, Geopolitics, and War in Bram Stoker and the Late Victorian World, a cura di Matthew Gibson e Sabine Lenore Müller, Clemson University Press, Clemson 2018).

Comunque, nella primavera del 1897 mentre Stoker era ancora intento a correggere le bozze di Dracula, Kipling aveva già scritto The Vampire. Charles Carrington (Rudyard Kipling: His Life and Work, Macmillan, London 1978) sostiene che Kipling non aveva preso sul serio quella poesia, non vi aveva messo nulla di se stesso e la considerava “un pezzo occasionale, un favore per il cugino Phil: niente di più”. Ciò sarebbe confermato dal fatto che Kipling non tutelò la proprietà del suo testo consentendo, come vedremo, il diffondersi incontrollato della poesia The Vampire su giornali e pubblicazioni “pirata”.

L’edizione Mansfield (1898) e Street & Smith (1899), entrambe di New York

Appena la poesia di Kipling compare sul catalogo per la mostra alla New Gallery è immediatamente pubblicata integralmente dai giornali. Parte il “Daily Mail”, contemporaneamente all’apertura della mostra, seguito da svariati quotidiani e riviste. Anche la stampa americana veicola la poesia (“New York Tribune” il 9 maggio 1897, “Buffalo Evening News” il 10 maggio, poi molti altri).

The Vampire visse poi un grande ritorno di popolarità tra il 1902 e il 1903, in coincidenza del tour americano di Philip Burne-Jones e della relativa esposizione del quadro The Vampire nelle gallerie degli Stati Uniti. Nel soggiorno americano del pittore i giornali parlarono spesso di lui e immancabilmente della poesia di Kipling, ristampata più volte. In quel contesto la poesia subì anche una piccola modifica: sul “Record-Herald” cambiarono nella prima strofa il termine “hank” (matassa), che sembrava poco appropriato riferito ai capelli, in “hunk”, dal significato simile, ma più spesso usato per definire un ammasso di capelli.

Tre citazioni dalla poesia di Kipling diventarono luogo comune, innumerevoli volte riproposte. Si tratta dell’incipit “A fool there was” (C’era un folle), della descrizione della donna-vampiro come “a rag and a bone and a hank of hair” (uno straccio, un osso e una matassa di capelli) e “the woman who did not care” (la donna che di nulla si curava), di “But the fool he called her his lady fair” (Ma il folle la chiamava la sua bella signora), oltre al ritornello “Even as you and I” (Proprio come te e me).

La poesia di Kipling affascinò i lettori perché vedevano rappresentata una paura e un’inquietudine molto diffusa alla fine del secolo: la donna non più passiva e sottomessa, ma capace di minacciare salute e beni dell’uomo.

Nella letteratura anglosassone la donna fatale aveva una lunga tradizione, che risale almeno alla belle dame sans merci di John Keats, in bilico tra soprannaturale e naturale. Nella versione di Kipling, ancor più che nel quadro di Burne-Jones (dove la ferita sul petto dell’uomo potrebbe indicare il morso di una creatura fantastica succhiasangue), la “vampira” è ricondotta al realismo, a una vera donna senza nulla di soprannaturale, anzi diffusa e nota all’epoca quanto meno nelle fantasie maschili. “The Marion Enterprise” (10 luglio 1897) citava un articolo del “Louisville Courier-Journal” per spiegare il successo della poesia di Kipling: “Non si tratta di meriti letterari eccezionali. Semplicemente si tratta del coraggio di Kipling nel dare espressione a ciò che gli altri pensano, ma non osano dire. Quel tipo di donna è comune, sia se si voglia credere che esista davvero o che esista soltanto nell’immaginazione degli uomini”.

In The Vampire gli uomini sono ingannati dall’apparenza (a loro pareva una bellissima dama, ma era solo “uno straccio, un osso e una matassa di capelli”), si rovinano per lei (spendendo “energie” e “guadagni”), fin quasi a morirne, per poi scoprire che era una donna sventata e incapace di capire qualsiasi cosa. L’uomo della poesia prova quindi vergogna di se stesso e soffre della propria stupidità. Per quanto chiaramente dettata da una mentalità che oggi si definirebbe semplicisticamente “patriarcale”, la poesia di Kipling non è certo lusinghiera verso il maschio vittoriano, ridotto a uno stupido che cade nella trappola di una donna tanto fatale quanto superficiale (due interessanti analisi su questi aspetti sono in Anne Morey, Claudia Nelson, Phallus and Void in Kipling’s “The Vampire” and Its Progeny, “Frame”, novembre 2011; Janet Staiger, Bad Women: Regulating Sexuality in Early American Cinema, University of Minnesota Press, 1995).

Quando Kipling scrisse The Vampire, il suo matrimonio con la moglie americana Caroline era in crisi e il testo evidenzia un risentimento personale dell’autore verso il sesso femminile (lo scrittore, tra l’altro, aveva una predilezione per le donne dal carattere mascolino). Secondo alcuni, la misoginia di Kipling era dovuta all’infelice infatuazione adolescenziale per Florence Garrard, che lo respinse (Angus Wilson, The Strange Ride of Rudyard Kipling: His Life and Works, Secker & Warburg, London 1977), secondo altri alla presunta relazione segreta con l’attrice americana di vaudeville Lulu Glazer, nelle cui carte è stata trovata la poesia The Vampire con testi scritti a mano da Kipling stesso (J. Lawrence Mitchell, Rudyard Kipling, The Vampire, and the Actress, “English Literature in Transition 1880–1920”, n. 3, 2012).

Le opinioni di Kipling sulle donne, come anticipate da The Vampire, vennero poi rielaborate e confermate dalla sua poesia The Female of the Species (1911), rimasta celebre per le parole ripetute più volte “The female of the species is more deadly than the male” (La femmina di ogni specie è più letale del maschio).

Disegno ispirato al quadro di Burne-Jones dall’edizione Mansfield di The Vampire (1898)

The Vampire tornò sulle prime pagine dei giornali il 28 novembre 1911, in occasione di un infuocato processo per uxoricidio a Denver. Sul banco degli imputati c’era Gertrude Gibson Patterson, donna dalla “vita licenziosa”. Aveva sposato il giovane Charles Patterson, ma presto lui la sorprese in viaggio con l’amante, il ricco e anziano imprenditore Emil W. Strouss. Ne seguirono molte liti tra i coniugi, fino a che Charles fu ucciso da due colpi di pistola alla schiena. Gertrude prima disse che il marito si era suicidato, poi ammise il delitto affermando di essere stata picchiata e maltrattata. Al processo l’avvocato dell’accusa, Horace Benson, descrisse Gertrude come una donna avida, spietata e recitò in aula la prima strofa di The Vampire, aggiungendo dopo il verso “ma il folle la chiamava la sua bella signora” un drammatico “E lei gli sparò nella schiena” (And she shot him in the back). Nonostante l’oratoria dell’avvocato e la citazione di Kipling, la donna fu assolta grazie alla dubbia testimonianza di un passante che dichiarò di aver visto Charles picchiare la moglie in strada.

La popolarità di The Vampire prosegue per molti anni, rinvigorita dalle trasposizioni teatrali e cinematografiche. Ancora nel 1916 Francis Scott Fitzgerald, nel testo per una delle canzoni del musical Safety First!, cita la poesia di Kipling. La canzone lamenta che le ragazze della vita reale non assomiglino alle vamp del cinema e Fitzgerald scrive: “Perché non ne incontro qualcuna che non sia dolce, ma / si comporti piuttosto come le signore di Kipling?”. E per il pubblico americano il quadro e la poesia The Vampire continuarono a essere evocativi per molti anni, come dimostrano tra i tanti esempi due lunghi articoli sui vampiri di “American Weekly” nel 1927 (Mystery of the Vampire’s Bite) e del “Detroit Evening Times” il 19 ottobre 1941 (New Reason Why People Still Believe There Are“Vampires”) entrambi illustrati da una riproduzione del quadro di Burne-Jones e con riferimento alla poesia di Kipling.

Due edizioni newyorchesi: Grosset & Company (1898) e Dodge Publishing Co (1900)

Le parodie

Il successo popolare di The Vampire fu tale che quasi subito si pubblicarono parodie, con gran divertimento dei giornali, dove la poesia era riscritta in chiave umoristica o polemica. Ovviamente le prime reazioni satiriche furono da parte di donne, giustamente irritate dal ritratto della vampira mangiauomini e rovinafamiglie. Ne uscirono diverse soprattutto in America, sia scritte da uomini che da donne, caratterizzate dall’imitazione dello stile e dei versi di The Vampire, aperte spesso dalla scritta “Con scuse a Mr. Kipling” (With apologies to Mr. Kipling).

Le parodie iniziarono quasi immediatamente. Già il 27 maggio 1897 sul “Buffalo Evening News” appare una parodia di The Vampire che ironizza sul Kipling scrittore, ripresa dal settimanale “New York Press”, e il 5 agosto lo stesso quotidiano pubblica un dialogo satirico dove una signora rivendica che le donne non sono vampire, ma per la maggior parte “angeli”. Pochi giorni dopo il “San Francisco Examiner” e “The Evening Journal” (18 agosto 1897) stampano una breve parodia anonima che imita lo stile di The Vampire.

Le più popolari erano parodie che rovesciavano il punto di vista, facendo della donna la vittima di uomini spietati e ottusi. È il caso di The Vampire (From a woman’s point of view. With apologies to Rudyard Kipling) di Mary C. Low, apparsa su “The New York Bookman” (27 marzo 1899) e poi dalla rivista “The Academy” che la ristampa accanto all’originale (1 aprile 1899). Tutta virata al femminile, la poesia si apre con un rovesciamento delle parole iniziali di Kipling, trasformate in “A woman there was”, ed è l’uomo che non si prende cura di nulla e non capisce.

Le parodie di The Vampire sono state innumerevoli ed è impossibile citarle tutte. Tre parodie sono riportate da Robert Thurston Hopkins in un suo libro (Rudyard Kipling: ALiterary Appreciation, Simpkin, Marshall, Hamilton, Kent & Co., London 1915). Hopkins segnalava la “vasta circolazione” della parodia scritta da Felicia Blake dove al posto della vampira c’è un uomo egoista e maschilista (i giornali la ristamparono ancora nel 1919), mentre T.W.H. Crosland nel 1899 sostituiva la vampira con “il pubblico che non compra poesie”. Hopkins citava infine i versi di The Vampire riscritti dal poeta James Douglas per polemizzare con Kipling intorno alla presunta “stupidità” dell’uomo di fronte alla donna-vampiro. Per inciso, Robert Thurston Hopkins si intendeva di vampiri: scrittore e “cacciatore di fantasmi”, è stato autore di The Vampire of Woolpit Grange (1938), racconto ispirato alla leggenda di una strega che ritorna dalla tomba.

Le parodie riprendono vigore con l’esposizione americana del quadro di Burne-Jones. Così, “The Brooklyn Daily Eagle” l’11 febbraio 1902 ne pubblica una di Harvey E. Williams, comica riscrittura di The Vampire dedicata al rapporto tra uomini e automobili, con l’aggiunta di un “coro” alle strofe originali. Su “The Sunday Telegraph” del 2 marzo 1902 c’era invece una parodia di The Vampire scritta da John Joseph Beekman, incentrata sul divorzio. Il giornale nei giorni successivi riceve una lettera firmata da un certo R. Blount che risponde alla poesia di Beekman con un’altra parodia, come se si fosse sentito tirato in causa per le sue personali vicende familiari (“The Morning Telegraph”, 7 marzo 1902). Non pago, “The Sunday Telegraph” due giorni dopo dedica un’intera pagina a una vignetta che ironizza sul quadro di Burne-Jones (definito “il dipinto che i versi di Kipling e il press agent di Mrs. Patrick Campbell hanno reso famoso”) e a un’ennesima parodia della poesia di Kipling, questa volta intitolata The Umpire (L’arbitro), accompagnata da un testo satirico.

Parodie e vignette da “The Coolgardie Pioneer” (1898) e “The Sunday Telegraph” (1902)

La moda delle parodie di The Vampire arrivò anche in Australia. Il 18 marzo 1898 “The Euroa Advertiser” pubblica la poesia originale di Kipling e di seguito “The Woman Version”, firmata da Isobel Henderson Floyd. Il 18 ottobre 1902 tocca a “The Western Mail” affidare una parodia a Ethel Howell che inizia la prima strofa con un “A girl there was”. Curiosa la parodia in chiave di satira politica su “The Coolgardie Pioneer” (3 settembre 1898), accompagnata da una vignetta che riproduce stilizzato il quadro di Burne-Jones, dove la donna ha sul vestito la scritta “Westralia” (l’Australia occidentale) e l’uomo esanime “The Toiler” (il lavoratore). Il testo altera la poesia di Kipling trasformandola in una critica a quella parte dell’Australia che, con promesse non mantenute, “vampirizza” il resto del paese. E in questo caso le scuse sono per il pittore e non per il poeta: “With apologies to Burne-Jones”.

Le parodie continueranno per un ventennio. Il 4 marzo 1914 “The Day Book” di Chicago pubblica A Cop There Was di H.M. Cochran, rielaborazione di The Vampire per criticare il malcostume dei poliziotti. La saga delle parodie culmina nel 1920 quando circola a Los Angeles un volantino, firmato Mrs. Stella Gilbert e intitolato The ‘He’ Vampire, dove la poesia di Kipling è riscritta in chiave esplicitamente e marcatamente femminista, invocando l’eguaglianza di diritti per le donne e con questa chiusa: “Alla fine gli uomini sono in fuga… / E noi abbiamo vinto! / (e loro non possono capire)”. È probabile che il volantino sia stato stampato in occasione della conquista del diritto di voto per le donne americane. Lo spirito polemico della parodia era segnalato anche dalla scritta sotto il titolo, che in questo caso sentenziava “Senza scuse a Kipling” (With no apologies to Kipling).

Il volantino femminista del 1920

La poesia di Kipling era tanto nota che i suoi versi potevano essere utilizzati anche come didascalia per vignette satiriche. È il caso di una vignetta apparsa su “Life” il 3 maggio 1917, vent’anni dopo la pubblicazione di The Vampire, e firmata da C.D. Gibson, un illustratore interventista che agiva anche politicamente per spingere l’America a partecipare alla Grande Guerra: “And the fool, he called her his lady fair”, recita la didascalia. Nota anche con il titolo Harlot of War (Prostituta di guerra), la vignetta ritraeva l’imperatore Guglielmo II nel panico alla vista della sua amante, una orribile megera ingioiellata e in vestito elegante, con la scritta “Guerra” sul copricapo, che simboleggia la morte.

Passano altri vent’anni e di nuovo la poesia di Kipling è utilizzata per un’ulteriore vignetta di satira politica, con la didascalia “But the fool he called her his lady fair” (Even as you and I)”. Pubblicata dal “Daily News” di New York il 21 settembre 1937 e il giorno dopo da “Washington Time”, era tipica del razzismo antigiapponese che tornava a crescere in America in concomitanza con i bombardamenti del Giappone sulla Cina. La vignetta raffigura nuovamente una vampira in abiti seducenti, ma con il volto da teschio e la scritta “War” sul torace: davanti a lei, un militare giapponese inginocchiato che porta sulla schiena la scritta “Yellow Race”.

Le vignette di “Life” (1917) e “Daily News” (1937)

Vampoesia per bibliomani

The Vampire è stato un vero e proprio caso editoriale di notevole interesse: per quanto breve, la poesia fu subito stampata in agili fascicoli, senza autorizzazione da parte di Kipling. Sui giornali americani comparve anche una presunta lettera inviata da Kipling a Burne-Jones dove gli cederebbe tutti i diritti della sua poesia: “I versi per The Vampire, che chiameremo vampoesia [vampoetry], sono di tua proprietà. Quindi chiunque voglia portarli sul palcoscenico, farne un’incisione, metterli in musica, dipingerli di celeste, tradurli in gaelico, celtico o ittita, usarli come pubblicità di tintura per capelli o come inno per la Chiesa d’Inghilterra, deve accordarsi con quest’uomo” (vedi “The Daily Republican”, 17 aprile 1902; “The Argonaut”, 3 marzo 1902).

Vera o meno che sia quella lettera, di certo Kipling non tutelò in nessun modo il suo testo, consentendo così un’ampia diffusione “pirata” della poesia. Kipling non inserì The Vampire nelle sue opere ufficiali fino al 1919, ma dal 1898 la poesia appare comunque in varie collezioni di testi di Kipling, per varie case editrici, tanto che lo scrittore fece causa a un editore che aveva pubblicato la sua poesia vampiresca assieme ad altre.

Il fenomeno più straordinario è però il diffondersi di “libricini”, sia in Inghilterra sia in America, che in edizioni “non autorizzate” riproponevano The Vampire ai lettori come singolo volumetto. In genere erano fascicoli di poche pagine, in carta color crema, con ornamenti e disegni spesso di colore rosso, a volte rilegati con un nastrino di seta, in molti casi con la riproduzione all’interno del quadro di Philip Burne-Jones. La sopravvivenza fino ai giorni nostri di molte copie di quei libretti conferma che ebbero una consistente diffusione, complessivamente in migliaia di copie.

Una delle prime edizioni è pubblicata a Boston nel 1898 in due versioni. Il frontespizio indica che il volumetto è “Privately Printed”, senza nome dell’editore (si è ipotizzato che si tratti della Cornhill Press). Sulla copertina svettano pipistrelli in rosso, su un cielo dove si staglia una falce di luna, disegnati da E. J. Clark e ripetuti in ogni pagina, su carta color crema, una strofa per pagina. Un’altra versione ha un frontespizio con il disegno in rosso di una donna, tra le tombe di un cimitero, che gioca con un pipistrello (lo stesso disegno si ripete come cornice di ogni strofa della poesia). Va segnalato che diverse edizioni di The Vampire sovrapponevano nell’iconografia il vampirismo leggendario associato al notturno pipistrello e la donna in carne e ossa.

Due versioni dell’edizione di Boston

Nello stesso 1898 The Vampire è stampato anche a Washington da Woodward & Lothrop, in 20 pagine su carta lucida, e a marzo e giugno di quell’anno in due varianti con carta diversa per M.F. Mansfield di New York. Quest’ultima edizione aveva copertina rossa con scritte in oro ed era illustrata da un pipistrello stilizzato in copertina e all’interno, opera di Blanche McManus (moglie dell’editore Mansfield). Stampata in 650 copie, ospitava un disegno che riproduce parzialmente il quadro di Burne-Jones. Un’altra edizione in sole 4 pagine è stampata per il giorni di San Valentino 1898 da Adirondack Press, di Gouverneur, nello stato di New York

Tra le tante edizioni, si segnala quella di Grosset & Co., New York (1898), con in copertina una testa di donna con ali da pipistrello su inserti in rosso e all’interno la riproduzione fotografica del quadro di Burne-Jones. La casa editrice Doxey di San Francisco stampa The Vampire nel 1899 con illustrazioni di Florence Lundborg e poi nel 1901 con illustrazioni di Lander Phelps. Tra il 1898 e il 1899 The Vampire compare anche su un solo foglio di grande formato.

Una certa fortuna ebbero infine i minilibri di piccolissima dimensione con la ristampa di The Vampire, quasi sempre assieme ad altre poesie di Kipling, ma con il titolo di copertina dedicato esclusivamente al testo vampiresco.

Copertine di vari volumi in piccolo formato

ALLE FONTI DEL VAMPIRO MODERNO / 1

La vampira del quadro: The Vampire di Philip Burne-Jones

Il 1897 è l’anno di nascita dell’immaginario vampiresco moderno. Il 18 maggio si tiene la rappresentazione teatrale di Dracula: ovvero il Non-Morto, prima apparizione pubblica della creatura di Bram Stoker. Poi il 26 maggio il romanzo Dracula esce in libreria (e il 22 giugno si celebra il Giubileo di diamante della Regina Vittoria: può sembrare fuori tema, eppure non lo è). Un mese prima, però, i vampiri avevano già infestato l’immaginario grazie a un quadro e una poesia, oggi poco noti, ma per alcuni anni più popolari del conte Dracula. Il termine “vampire” si allontanava dalla sua valenza soprannaturale, indicando non tanto un morto che torna dalla tomba, quanto una creatura spietata, di sesso femminile, che sugge energie e provoca sciagure: di lì a poco la parola sarebbe stata sintetizzata in “vamp”.

In un freddo sabato 24 aprile 1897, alla New Gallery di Londra si inaugura un’esposizione di quadri in occasione della decima mostra estiva (Tenth Annual Summer Exhibition) della galleria. La maggior curiosità è subito creata da un dipinto racchiuso in una cornice dorata, The Vampire di Philip Burne-Jones, e dalla poesia omonima scritta per l’occasione da Rudyard Kipling, cugino dell’artista, e stampata nel catalogo. Nel quadro, un giovane uomo giace riverso sul letto, morente o in deliquio. Sul petto scoperto c’è una ferita e una donna lo sovrasta, in camicia da notte, le braccia nude e le labbra socchiuse in un sorriso enigmatico. Secondo gli articoli dell’epoca, nel dipinto (oggi perduto e mai riprodotto a colori se non in una cartolina poco attendibile) al bianco vestito della vampira si accostavano il verde e il rosso degli arredi, mentre sul petto del giovane esanime si notava una macchia vermiglia.

Oggi il quadro ci appare certamente innocuo, ma nel 1897 l’immagine di un uomo soggiogato e vampirizzato da una femmina predatrice era ancora capace di far nascere turbamenti. “The Sunday Times” (25 aprile 1897) scriveva che The Vampire “colpisce il pubblico”: “La donna appoggiata sul giovane morto, della cui linfa vitale si è nutrita, è dipinta con tale forza che cattura l’attenzione”. “Tutti si fermano davanti al quadro di Mr. Philip Burne-Jones”, esposto nella South Room della galleria, e leggono la poesia di Kipling, aggiungeva il “Country Life Illustrated” (1 maggio 1897).

The Vampire in una riproduzione del 1902 e, accanto, colorizzato con l’intelligenza artificiale

In breve The Vampire si rivela un evento e l’interesse si moltiplica grazie ai versi di Kipling, mentre il quadro viene proposto in fotografia da vari giornali (“The International Studio” ne pubblica una riproduzione a tutta pagina, nella sua edizione speciale per la mostra alla New Gallery). I critici sono generalmente benevoli, a parte qualcuno che trovò il soggetto “sgradevole”.

L’autore del quadro portava un nome illustre, perché il padre Edward Burne-Jones era uno dei più apprezzati pittori preraffaelliti (e la madre Georgiana, pittrice a sua volta e zia di Kipling, tra l’altro presenziò all’inaugurazione della mostra alla New Gallery, in abiti elegantissimi). Di carattere instabile, Philip Burne-Jones frequentava le cerchie di Oscar Wilde e poi di Virginia Woolf. Quest’ultima nei suoi diari non dà giudizi molto positivi del suo amico Phil, definendolo “una specie di dissipatore degenerato” che spendeva tutte le sterline guadagnate con i quadri in “avventure galanti e lussi”. Tra le frequentazioni di Philip non mancava Bram Stoker: i due si conoscevano bene, da tempo. Il padre dell’artista, Edward, aveva realizzato scenografie per il Lyceum, il teatro londinese di Henry Irving gestito da Stoker, e nel 1882 aveva disegnato un ritratto di Florence Balcombe, moglie dello scrittore. Sono conservate inoltre lettere del 1895 tra Edward Burne-Jones e Stoker. Sappiamo anche che il pittore preraffaellita era ospite a pranzi e cene con Irving e Stoker all’esclusivo Beefsteak Club, a conferma di una familiarità che senza dubbio coinvolgeva anche Philip. Quest’ultimo, inoltre, nel 1888 aveva collaborato lui stesso a scenografie per il Lyceum e il suo nome è citato nei ricordi di Ellen Terry, la diva indiscussa di quel teatro.

Inconsapevole di aver anticipato con il suo quadro una stagione destinata a fondare l’immaginario vampiresco successivo, Philip Burne-Jones ricevette in omaggio il romanzo Dracula da Stoker in persona. Lo testimonia una sua lettera datata 16 giugno 1897: “Caro Bram Stoker, la tua gentilissima promessa dell’altra sera si è concretizzata con grande piacere oggi, quando il tuo libro è arrivato. Inutile dire con quanto interesse lo leggerò o quanto valore abbia per me in quanto dono del suo dotato autore. Appena ne avrò una copia ti prego di accettare una fotografia del mio ‘Vampire’ – una donna in questo caso, tanto per creare il giusto equilibrio!”.

L’uscita di Dracula a poche settimane dalla mostra della New Gallery non poteva che collegarsi a un crescente interesse, non solo “anglosassone”, per i vampiri. La recensione di Dracula sul “Weekly Sun” del 6 giugno 1897 metteva in diretta relazione il quadro di Burne-Jones e il romanzo di Stoker: “Solo quando ho letto il libro del signor Stoker ho capito in pieno il significato e la stranezza misteriosa [weirdness] di quel dipinto” (non ho rintracciato l’articolo originale, citato in due testi di David J. Skal: Fatal Image. The Artist, the Actress, and “The Vampire”, in Vampires: Encounters with the Undead, Black Dog & Leventhal, New York 2001; Something in the Blood, W. W. Norton & Company, New York 2016. Su Stoker e i Burne-Jones vedi anche Barbara Belford, Bram Stoker: A Biography of the Author of Dracula, Weidenfeld & Nicolson, London 1996).

Gossip vampireschi

Philip Burne-Jones dopo The Vampire si trovò al centro di una grande attenzione da parte dei giornali e il quadro scatenò subito una marea di pettegolezzi, perché nel volto della vampira si notò una straordinaria somiglianza con un’attrice inglese che si vociferava avesse avuto una tempestosa relazione con l’artista: Beatrice Tanner, di madre italiana, nota sulle scene come Mrs. Patrick Campbell (dal nome del primo marito).

La stampa, anche oltreoceano, evidenziò subito la vicenda, all’inizio senza citare il nome dell’”attrice inglese”, la quale – scrivevano – si sarebbe irritata non solo per essere apparentata a una vampira nel quadro, ma soprattutto per la descrizione impietosa contenuta nella poesia di Kipling. Di fronte al clamore intorno a quel dipinto, l’attrice si confidò proprio con la sorella di Burne-Jones, Margaret, sua amica e vicina di casa.

Mrs. Patrick Campbell

Il critico teatrale Elwyn Barron, su “The Brooklyn Daily Eagle” (27 giugno 1897), sarà poi esplicito, facendo nome e cognome: “Chi guarda quel quadro vede abbastanza chiaramente nella donna un eccellente ritratto di Mrs. Patrick Campbell. La somiglianza è casuale?”. La risposta di Barron era negativa, dato che era notorio il legame tra l’artista e l’attrice: Burne-Jones era stato un “generoso amico” e “benefattore” per Mrs. Campbell (i gossip dicevano che l’avesse ricoperta di gioielli e pellicce), fino a che lei gli aveva voltato le spalle, inducendolo alla “vendetta”.

Mrs. Patrick Campbell era all’epoca molto nota. Ritratta anche da Aubrey Beardsley, aveva recitato al teatro Lyceum in ruoli scespiriani ed era diventata famosa nel 1893 con la parte del titolo in The Second Mrs Tanqueray di Arthur Wing Pinero. Per certi aspetti era un ruolo di vamp ante litteram, una donna dalla grande libertà sessuale che alla fine non regge ai pregiudizi sociali verso il suo comportamento e si uccide. In seguito l’attrice diventerà la grande passione amorosa di George Bernard Shaw.

Il teatro ha dunque un ruolo importante nella nascita dell’idea moderna di vampiro. Se Dracula fa il suo esordio sul palcoscenico, prima ancora che in libreria, la donna vampiro pare connessa strettamente al teatro e alle attrici. Non solo Stoker in Dracula paragona apertamente Lucy diventata vampira a Ellen Terry, ma con tutta probabilità il volto della vampira di Burne-Jones era quello dell’attrice teatrale Campbell. Negli anni immediatamente successivi, come vedremo in un prossimo articolo, proprio a teatro si manifesterà più spesso la vampira, recitando o ballando.

Le fonti della vampira di Burne-Jones

Anche se alla sua prima apparizione londinese The Vampire ottenne buone recensioni dai critici d’arte, il quadro deve la sua popolarità soprattutto all’argomento scottante della temuta emancipazione femminile e al gossip su Mrs. Campbell. L’artista, poi, doveva sostenere il peso del paragone con il celebre padre. Edward Burne-Jones ritraeva spesso donne che apparivano svenute o addormentate e di fatto il figlio Philip ribaltava quelle concezioni, facendo della donna una predatrice. Ma ci sono almeno due importanti eccezioni nell’opera di Edward Burne-Jones che anticipano proprio il dipinto del figlio e ne sono state ispirazione. Come The Vampire, anche quei quadri fecero scandalo e sensazione. Si tratta di Phyllis and Demophoon (1870) e The Depths of the Sea (1887).

Il primo dipinto evoca il mito di Fillide e Demofonte, descritto da Ovidio e poi da Geoffrey Chaucer. Fillide, regina della Tracia, si innamora di Demofonte che però la abbandona. Fillide si impicca e gli dei la trasformano in un albero di mandorla. Demofonte pentito abbraccia l’albero e Fillide si materializza nei germogli della pianta. Aprendo uno scrigno che Fillide gli aveva donato, Demofonte inciampa e muore trafitto dalla sua spada. Edward Burne-Jones rielabora il mito facendo di Fillide una sorta di vampira che torna dalla morte per rivendicare gli abbracci del suo amante.

Ad apparentare Phyllis and Demophoon e The Vampire concorrono anche le polemiche che circondarono entrambi i quadri. Se Philip Burne-Jones fece scalpore per aver ritratto una nota attrice a cui era stato legato, sia Fillide che Demofonte avevano nell’opera di Edward Burne-Jones il volto della modella Maria Zambaco, con la quale l’artista aveva avuto una relazione. Quando il quadro fu presentato a una mostra della Old Watercolour Society nel 1870 si sollevarono grandi polemiche per la rappresentazione di Demofonte nudo, con i genitali esposti, tanto che dopo due settimane Burne-Jones ritirò il dipinto e poi si dimise dalla Society. Oltre un decennio dopo, il pittore rielaborerà il quadro con il titolo The Tree of Forgiveness (1882), lasciando il volto della Zambaco solo nelle fattezze di Phyllis: quasi per scherno verso i critici dell’opera precedente, ora il nudo integrale era della fanciulla, mentre il giovane maschio era pudicamente coperto nelle parti intime da un velo.

Le due versioni di Phyllis and Demophoon

Il tema della donna fatale è poi proposto ancora da Edward Burne-Jones con The Depths of the Sea (1886, oggi è visibile al pubblico solo una copia realizzata successivamente), dove un’androgina sirena trascina il corpo di un giovane nudo nelle profondità marine. Di nuovo il soggetto suscitò polemiche, per il sorriso indefinibile della sirena che pare compiaciuta dal destino fatale del giovane annegato e che, come un serpente, avvolge il maschio nelle sue spire.

The Depths of the Sea di Edward Burne-Jones

A parte l’ispirazione alle opere del padre, i riferimenti innegabili di Philip Burne-Jones per The Vampire risalgono a L’incubo (1781) di Johann Heinrich Füssli e La morte di Chatterton (1856) di Henry Wallis. La posizione reclinata dell’uomo in The Vampire coincide con quella della donna nel quadro di Füssli, ma al posto del demone che le pesa sul corpo c’è la vampira, la donna emancipata ormai diventata l’incubo del maschio vittoriano, il pericolo da cui fuggire. Così come la posizione del giovane vampirizzato è identica a quella di La morte di Chatterton, ispirato al suicidio con arsenico del poeta diciassettenne Thomas Chatterton.

In alto, L’incubo di Johann Heinrich Füssli e in basso La morte di Chatterton di Henry Wallis

Per quanto riguarda il soggetto di The Vampire, Philip Burne-Jones ne ha parlato in un’intervista rilasciata, nel suo grande studio londinese di West Kensington, a un anonimo giornalista (o a una giornalista: raramente all’epoca gli articoli dei quotidiani erano firmati) che esprimeva un’ammirazione sconfinata per il pittore e per The Vampire, al punto di sostenere che con quel quadro l’artista aveva “tristemente distrutto la mia serenità mentale e la mia capacità di lavorare” (“The Argus”, 26 giugno 1898). L’intervista è interessante perché Burne-Jones spiega le sue intenzioni nella realizzazione del quadro: “Volevo dipingere una di quelle donne che portano rovina, che prosciugano la linfa vitale di un uomo e i versi di Kipling rendevano l’idea. Un uomo può essere consapevole che la donna amata è malvagia, priva di anima, irragionevole, una vera Vampira egoista e avida, ma nonostante questa consapevolezza continuerà ad amarla. Ha calcolato il costo, ha considerato la pena: si tratta di rovina e morte, ma lui non può resistere. Di sicuro era così per l’uomo del mio quadro, ma era contento che andasse in quel modo ed è morto con un sorriso in parte di pietà, in parte d’amore, ma senza rimprovero negli occhi”.

Un disegno che riproduce una prima versione di The Vampire (da “The Argus”, 26 giugno 1898)

The Vampire in America

Nel 1902, Philip Burne-Jones tentò la fortuna negli Stati Uniti, partendo con un carico di suoi dipinti nella speranza di venderli a clienti americani e aprendo un suo studio a New York. Portò con sé anche The Vampire, il cui valore era stimato intorno ai 15.000 dollari, una cifra non alta considerato il clamore che circondava il quadro. A un certo punto, durante il soggiorno in America di Burne-Jones, corse voce che il dipinto fosse stato venduto a 18.400 dollari, ma l’autore si affrettò a smentire e sostenne che non era in vendita.

Philip Burne-Jones nel suo studio di New York con The Vampire alla parete

L’artista (che nel 1898 alla morte del padre aveva ereditato il titolo di baronetto, diventando Sir Philip) espose The Vampire alla galleria M. Knoedler & Co, sulla Quinta Strada di New York, dal 17 al 29 marzo 1902, con un catalogo che nella seconda pagina ristampava la poesia di Rudyard Kipling. Le recensioni, a distanza di cinque anni dalla mostra londinese, questa volta non furono positive. “The New York Press” definì il quadro “ripugnante” e “morboso” (28 marzo 1902), ma il culmine fu la stroncatura del “New York Times” (20 marzo 1902), severo e sprezzante per altro sia verso il padre Edward che verso lo stesso Kipling. “Sir Philip ha il talento di un topolino”, sentenziò l’autorevole quotidiano.

Mentre Philip era in America, sua madre si rese protagonista di un episodio che coinvolgeva proprio Kipling. Convinta pacifista, la signora Burne-Jones aveva appeso uno striscione alla finestra della sua abitazione contro la seconda guerra boera, appena vinta dalle truppe britanniche con un bagno di sangue: “Avete ucciso, avete conquistato”, si leggeva nello striscione. Una folla inferocita di nazionalisti prese d’assedio la casa della signora e solo l’intervento di Kipling, che abitava nella stessa zona, sedò gli animi. Il “poeta dell’imperialismo”, come era definito allora, scese in piazza e convinse sua zia Georgiana a togliere lo striscione e i manifestanti ad andarsene.

Sir Philip era lontano dalle posizioni politiche di sua madre e in America pensava solo a promuoversi nel mondo artistico. Espose The Vampire anche a Chicago, nel gennaio 1903 alla Russell’s Gallery, ancora suscitando scandalo e richieste di rimozione da parte dei sostenitori di Mrs. Campbell. L’attrice era a Chicago con il suo agente, ospitata nello stesso residence di Sir Philip, per la gioia dei giornalisti che potevano ricamare sul vecchio gossip intorno a The Vampire. Così, Burne-Jones si trovò costretto a smentire con la stampa qualsiasi nesso tra la sua vampira e l’innominata star del teatro: sostenne che la modella del ritratto, a pagamento, era una ragazza di Bruxelles e non la famosa attrice. Mrs. Campbell invece inviò una lettera a “The Daily News” (16 gennaio 1903), negando di trovarsi a Londra quando venne realizzato il dipinto, ma senza sfatare l’ipotesi di essere la “donna del ritratto”.

Incalzato da William Salisbury (ne scriverà in The Career of a Journalist, B. W. Dodge & Company, New York 1908), Burne-Jones rispondeva di non conoscere affatto Mrs. Campbell. Peccato che il giornalista si sia recato subito dall’attrice chiedendole se conosceva l’artista: “Beh, certo. Lo conosco e conoscevo bene suo padre. Sua sorella l’ho sempre considerata una delle mie più care amiche”. “Eravate voi l’originale di The Vampire?”, preme Salisbury. “Questo non posso dirlo. Ho sentito che il quadro ha una somiglianza impressionante con me e che questo ha dato origine al suo successo sensazionale”. Dunque Burne-Jons smentisce, mentre Mrs. Campbell implicitamente conferma e anzi lancia la stilettata: sarebbe solo grazie a lei se The Vampire aveva fatto tanto discutere.

I gossip proseguirono per giorni, tanto che secondo Salisbury “alla fine l’artista ci ha chiesto, quasi in lacrime, di non nominargli più ‘quella donna’”. A un ballo della buona società si invitarono sia Mrs. Campbell che Sir Philip, sperando forse nelle scintille di un incontro tra i due, ma il pittore se ne andò accuratamente prima dell’arrivo di lei, per evitare di vederla, e continuò a prendersela con i giornalisti fino alla sua partenza per l’Inghilterra. Dopo un anno, infatti, Burne-Jones lasciò l’America e tornò in patria, senza aver migliorato radicalmente la sua carriera. Il destino di The Vampire è a questo punto oscuro. Il quadro trovò un compratore negli Stati Uniti o seguì il suo autore a Londra? Certamente è svanito nel nulla.

Sir Philip Burne-Jones dall’esperienza americana trasse un libro, Dollars and Democracy (D. Appleton & Company, New York 1904), illustrandolo con eleganti e ironiche vignette. Non era per nulla soddisfatto del soggiorno negli States e con il libro mise in atto un’altra vendetta, dopo quella verso la Campbell che lo aveva lasciato, in questo caso una vendetta verso un paese che non lo aveva trattato troppo bene: criticò l’amore per il denaro dei cittadini, l’assenza di “deferenza” da parte della servitù e dei subalterni, le differenze di costumi tra le donne americane e quelle europee.

Negli anni successivi Burne-Jones non vide mai decollare la sua carriera di artista. Ebbe molte relazioni, ma non si sposò mai. Nel 1926 muore a Londra, all’età di 63 anni, ufficialmente per un infarto, ma alcune voci dell’epoca insinuavano che si fosse tolto la vita.

Dopo il successo clamoroso del suo quadro, Philip Burne-Jones era restato sempre “il pittore di The Vampire”, identificato con quell’unica opera. Era vittima della maledizione che pare colpire chiunque si apparenti al tema dei vampiri (da John W. Polidori a Bram Stoker, da Bela Lugosi a Christopher Lee): rimanere ingabbiato nel riferimento al vampirismo, come un marchio indelebile.

LA VAMPIRA DI MARRAKESH

Questa è la storia di un bizzarro cortometraggio “di vampiri” e del suo ancor più bizzarro regista, entrambi poco noti anche agli appassionati del genere. Il cortometraggio si intitola Quest of the Perfect Woman: The Vampire of Marrakesh, diretto e interpretato da Tom Terriss nel 1934. Per capire quanto sia curioso l’autore di quel corto basti anticipare, come vedremo tra poco, che Terris ha conosciuto di persona Bram Stoker, ha intervistato Bela Lugosi, ha lanciato la “danza dei vampiri”, portandola a teatro e sullo schermo, e sosteneva di aver presenziato all’apertura della tomba di Tutankhamen.

Tom Terriss

Prima di arrivare a The Vampire of Marrakesh è quindi utile fare la conoscenza con Tom Terris, per decenni famosissimo soprattutto in America e oggi dimenticato.

La sua vita è quanto meno romanzesca. Nato a Londra nel 1872, era figlio di William Terriss, celebre attore scespiriano che ha fatto parte della compagnia di Henry Irving al londinese Lyceum Theatre. Sì, si tratta proprio della compagnia per la quale lavorava come manager Bram Stoker, l’autore di Dracula.

La sua fantasiosa biografia vuole che Tom da giovanissimo abbia studiato a Oxford, sia stato apprendista marinaio, allevatore di pecore in Australia, minatore nel Colorado, rimanendo intrappolato in una tormenta sulle Montagne Rocciose dove i riflessi della neve gli danneggiarono permanentemente la vista, e impiegato alla Borsa di Londra (così si legge, ad esempio, in John Parker, The New Dramatic List. Who’s Who in the Theatre, Small, Maynard and Company, Boston 1914). Seguendo le orme del padre, nel 1890 fa il suo esordio teatrale nella parte di Osric in Amleto, al Globe Theatre di Londra, poi per tre anni recita al Theatre Royal. Nel 1897, però, nella sua vita irrompe una tragedia: il padre è ucciso a coltellate da un pazzo, in un episodio che colpì molto l’opinione pubblica. Per decenni, dopo il delitto, si è vociferato che il fantasma di William Terriss apparisse nella stazione della metropolitana di Covent Garden e all’Adelphi Theatre.

L’amico di Bram Stoker

Il padre di Tom Terriss è un personaggio molto interessante. Dopo aver cercato fortuna alle isole Falkland come allevatore si era dedicato al teatro, diventando uno degli attori principali che lavoravano con Irving e di fatto il “numero due” del Lyceum. William Terriss era forse l’unico che si poteva permettere di dare consigli a Irving, uomo notoriamente dal carattere molto forte. Irving aveva tale stima di Terriss che gli consegnò un reperto storico in suo possesso, la spada impugnata dal grande attore inglese Edmund Kean nella messa in scena del Riccardo III nel 1814, a lui tramandata. Irving e Terriss insieme furono ricevuti dalla Regina. Una volta, Stoker chiese a Terriss di sostituire per il Re Lear il grande Irving in persona, a letto con l’influenza, ma William rifiutò quel compito troppo impegnativo. Terriss suscitò anche l’interesse della figlia di Karl Marx, Eleanor. Nei suoi articoli sul teatro per la rivista “Time” si leggono molte parole di apprezzamento di Eleanor Marx per Terriss (e si scopre anche un accenno a Bram Stoker, da lei definito “il principe dei manager teatrali”).

William Terriss dichiarava di possedere misteriosi poteri ipnotici che mise alla prova in presenza di Stoker, inscenando una fittizia seduta di ipnosi con la complicità della giovane attrice Jessie Millward, sua partner a teatro e nella vita privata.

Lasciato il Lyceum, Terriss divenne l’attore di punta dell’Adelphi Theatre di Covent Garden, continuando una prestigiosa carriera. Ed è proprio uscendo dall’Adelphi che troverà la morte, il 16 dicembre 1897: un uomo lo colpisce al cuore e alla schiena con un coltello da macellaio. A ucciderlo è un altro attore, Richard Archer Prince, convinto che Terriss ostacolasse la sua sfortunata attività sui palcoscenici. Prince aveva recitato in piccoli ruoli sulle scene britanniche, ma si trovava in miseria ed era noto nell’ambiente teatrale come “Mad Archer” per il suo comportamento folle, tra accessi di rabbia, dedizione all’alcol e dichiarazioni deliranti (sosteneva spesso di essere Gesù Cristo). È curioso che quel personaggio inquietante, ben conosciuto sicuramente da Stoker, si chiamasse Archer, cognome molto simile all’Harker protagonista del romanzo Dracula.

L’assassino fu catturato subito e sfuggì al linciaggio. Irving e Stoker si recarono a porgere personalmente le loro condoglianze sia alla vedova che all’amante del defunto, Jessie.

L’assassinio di William Terriss in un’illustrazione dell’epoca

Il delitto fece molto scalpore e il figlio della vittima, il nostro Tom Terriss (con il vero nome Thomas Lewin), sarà chiamato a testimoniare al processo. Per Archer si aprirono le porte del manicomio criminale, dove durante la detenzione allestiva spettacoli teatrali e musicali.

Della vicenda Stoker tornò a occuparsi un paio d’anni dopo, perché l’assassino inviò dal manicomio una lettera a Irving che secondo i giornali conteneva minacce di morte (giurava che, appena rilasciato, per prima cosa avrebbe ucciso Irving). Stoker precisò al quotidiano scozzese “The Dundee Courier” (6 aprile 1899), interessato alla vicenda perché l’assassino era nato proprio a Dundee, che la lettera era piena di accuse al mondo teatrale, senza però contenere minacce di morte nei confronti di Irving.

I nomi di William Terriss e Bram Stoker erano quindi strettamente legati, in quella fine del secolo. L’anno dopo la morte di Terriss, inoltre, una sua biografia fu pubblicata dallo stesso editore del Dracula di Stoker, Constable. I due erano considerati “amici”, ma le poche citazioni del nome di Terriss nei libri scritti da Stoker non sono tutte lusinghiere (sui rapporti tra i due, vedi tra l’altro David J. Skal, Something in the Blood, Liveright, New York 2016). Nella corrispondenza di Stoker conservata alla Brotherton Library dell’Università di Leeds ci sono lettere del 1893 dove Terriss lamenta di essere stato sottopagato per un tour in America, accusando poi Stoker di averne messo al corrente Irving. L’attrice Jessie Millward nelle sue memorie (Myself and Others, Hutchinson, London 1923) ricorda che proprio durante quel tour furono Terriss e Stoker a convincere la polizia di New York al rilascio di un membro della compagnia, arrestato per offese a pubblici ufficiali.

Il nesso tra Terriss e Stoker è stato anche preso a pretesto, nel 2004, per uno spettacolo dell’Equity Theatre di Tampa, in Florida: Sherlock and Shaw: The Adventure of the Missing Vampire Diaries di Aubrey Hampton. Nel testo teatrale si immagina che il corpo di Terriss fosse stato prosciugato dal sangue e che Bram Stoker avesse consegnato all’attore una copia del suo presunto manoscritto Vampire Diaries, sparito misteriosamente dopo il delitto.

La danza della vampira

Usufruendo dell’eredità ricevuta alla morte del padre, molto ricco grazie ai successi teatrali, Tom Terriss si dedica alla sua passione per i viaggi, scrivendo reportage, ma prosegue il lavoro di attore diventando noto per le messe in scena dei racconti e romanzi di Charles Dickens (era tra l’altro nipote del prestigioso storico George Grote che conosceva Dickens di persona), in particolare legandosi al personaggio di Ebenezer Scrooge dal racconto di fantasmi A Christmas Carol.

Nel 1909 Tom conosce una giovane ballerina e la sposa. Nata in America nel 1884, era stata una delle ragazze dei primi spettacoli di vaudeville Ziegfeld Follies. Per liberarsi del suo vero cognome, un troppo banale Smith, aveva scelto uno pseudonimo con almeno quattro varianti: Mildred De Vere, Devere, Deveres, Deverez.

Con quest’ultimo pseudonimo, Deverez, insieme al marito si appassiona a un tema molto in voga all’inizio del nuovo secolo: i vampiri, o meglio “la” vampira, intesa come donna fatale che porta alla distruzione il maschio, depredandolo di beni ed energia. Non tanto i vampiri soprannaturali del Dracula di Stoker, ma creature femminili portatrici di disastro che avevano ottenuto grande popolarità grazie a un quadro e a una poesia.

Il quadro era The Vampire di Philip Burne-Jones (figlio del più noto pittore preraffaellita Edward Burne-Jones) in mostra, proprio mentre usciva Dracula nelle librerie, durante la primavera 1897 alla New Gallery di Londra: una donna in sottoveste bianca, i lunghi capelli scuri sciolti, si erge predatrice su un uomo coricato, esanime (il dipinto è perduto, ma ne sopravvivono riproduzioni dell’epoca in bianco e nero). Nel catalogo della mostra era contenuta una poesia con lo stesso titolo del quadro, scritta dal cugino dell’artista, Rudyard Kipling: è il lamento misogino di un uomo che si sente devastato da una donna spietata. Quadro e poesia avevano poi dato origine nel 1906 a un testo teatrale di Porter Emerson Browne intitolato con le stesse parole con cui iniziava la poesia di Kipling, A Fool There Was, e dall’autore trasposto in forma di romanzo nel 1909. Browne immagina la storia che fa da premessa al quadro, narrando di un diplomatico portato alla rovina da una donna senza scrupoli (A Fool There Was, trasformato in film, nel 1915 lancerà la figura della “vamp” grazie all’interpretazione di Theda Bara).

Nel 1909 lo spettacolo teatrale di Browne ebbe il massimo successo e anche la “danza della vampira” era diventata popolare in quell’anno, grazie a un breve balletto ispirato al quadro di Burne-Jones, intitolato The Vampire e rappresentato nel luglio 1909 a New York da Alice Eis e Bert French (della “Vampire Dance” nell’immaginario durante il passaggio tra Ottocento e Novecento ci occuperemo specificamente in un successivo articolo).

Tom Terriss e Mildred Deverez decisero di replicare quel successo con un loro balletto per il vaudeville ispirato a sua volta alla figura della donna vampiro. Il 29 novembre 1909, così, si verifica a Londra una sfida tra due “danze di vampiri”. Quel giorno esordiscono contemporaneamente sulle scene londinesi la “Vampire Dance”di Eis e French, all’Hippodrome, e quella di Mildred Deverez e Tom Terriss al Tivoli.

Una pagina di “The Sketch” dedicato alla danza vampiresca di Terriss-Deverez

Il ballo di Deverez e Terriss può essere immaginato in base alle descrizioni della stampa di allora (ad esempio su “Auckland Star”, 5 febbraio 1910, e “Wairarapa Daily Times”, 4 maggio 1910). All’alzarsi del sipario si vede una donna (Deverez) appoggiata a una colonna, il corpo avvolto in un velo rosso semi-trasparente. Lentamente si toglie il velo, mentre una voce melodiosa declama la poesia di Rudyard Kipling. Tolto il velo si scopre una donna bellissima dai lunghi capelli rossi, in abito quattrocentesco. Inizia a danzare, sensuale, quando entra in scena un giovane pittore (Terriss) che si siede meditando su una sua opera. La vampira lo vede e corre silenziosa lungo il palcoscenico “come una pantera verso la sua vittima”. Il ballo tentatore affascina l’uomo che però tenta di distrarsi ricominciando a lavorare sui suoi schizzi. Lei lo attrae nuovamente a sé con i suoi poteri ipnotici e lui resiste, poi lentamente torna da lei. Con la sua danza che si fa più selvaggia lei lo soggioga, l’artista tenta di allontanarsi, ma poi bacia la donna sulle labbra e cade inerme ai pedi della vampira che lo morde alla gola. Il giovane rotola lungo una scala, morto. Lei ride e balla, in attesa di un’altra vittima. Il momento del morso fatale era illuminato da una luce verde, proprio come accadrà un ventennio dopo con le rappresentazioni teatrali di Dracula interpretate da Bela Lugosi.

Il duplice balletto sulle vampire di quel novembre 1909 fece scalpore e Mildred Deverez da allora continuò a proporre delle variazioni sulla sua “Vampire Dance” sia in America che in Europa, prima di ritirarsi dalle scene negli anni Venti. In The Poison Kiss, pantomima ambientata in una Venezia del Cinquecento e rappresentata nel 1911, la Deverez è Lucrezia, decisa a vendicare la morte della sorella, causata dallo spregiudicato Giovanni, mettendosi del veleno sulle labbra e scoccando un bacio micidiale. Un anno dopo la Deverez è ancora una femme fatale in The Love Dream, dove un ufficiale della marina è sedotto alle Hawaii dalle danze di una donna del luogo. Sta per rinunciare a tornare sulla sua nave, poi riesce a trovare la forza di liberarsi dall’incanto della donna. In questo caso, come in Madama Butterfly, è la donna a morire, piantandosi un coltello nel cuore.

Dopo aver lanciato la “danza della vampira” nelle sale britanniche, Tom Terriss decide di lasciare l’Inghilterra e porta in America e Canada i suoi spettacoli ispirati a Dickens. Con l’avvento del cinema si trasferisce a New York e diventa regista, dirigendo The Chimes (1914), ancora tratto da Dickens, e poi oltre 40 film d’avventura, romantici e drammatici (in alcune delle sue prime pellicole fece recitare anche la figlia di quattro anni Millie). Nel 1915 progetta una sua casa produttrice, due anni dopo ottiene la cittadinanza americana. Come attore appare tra l’altro accanto a Charles Chaplin in Sunnyside (Charlot in campagna, 1919). La “danza della vampira” rimarrà un dato caratterizzante dell’attività di Terriss, anche al cinema. Nel 1915, infatti, unisce l’esotismo al vampirismo femminile, dirigendo il film Flame of Passion, ambientato in Giamaica: una donna fatale del luogo porta al disastro un ricco americano. Una foto superstite del film evoca chiaramente il quadro di Burne-Jones all’origine della “Vampire Dance”. Nella parte della vampira, tra l’altro, Terriss fa recitare sua sorella Ellaline, come lui famosa attrice di teatro e moglie di Seymour Hicks, autore teatrale e produttore.

Ellaline Terriss in Flame of Passion (1915)

Tom Terriss e Tutankhamen

Nel novembre 1922, secondo le sue dichiarazioni, Terriss vive un’esperienza eccezionale: assiste all’apertura della tomba di Tutankhamen con la squadra di Lord Carnarvon. Terriss era in Egitto in quei giorni, impegnato a preparare il film di produzione britannica Fires of Fate (uscirà nel 1923 e un anno dopo negli USA con il titolo The Desert Sheik), tratto dal romanzo di Arthur Conan Doyle La tragedia del Korosko (The Tragedy of the Korosko, 1898) che racconta le vicissitudini di alcuni turisti in viaggio sul Nilo presi prigionieri dai dervisci. Terriss ha sostenuto in differenti circostanze di essere stato invitato a quell’evento straordinario oppure di essersi “infiltrato” spacciandosi per giornalista (espediente strano, dato che c’era una rigida esclusiva a “The Times”), unendosi alle 15 persone, o 24 secondo alcune fonti, che presenziarono all’apertura della tomba (molti dettagli su Terriss e Tutankhamen si trovano in Matthew Coniam, Egyptomania Goes to the Movies, McFarland & Company, Jefferson 2017).

In un’intervista rilasciata alla regina del gossip cinematografico Louella Parsons (“Morning Telegraph”, 23 settembre 1923), Terriss raccontava le sue sensazioni: “Lo scavo della tomba è stata l’esperienza più emozionante che io abbia mai avuto. Il battere dei martelli sulle mura era una sorta di rumore soprannaturale che risuonava con forza nella silenziosa stanza dove non si diceva una parola. Eravamo in una grande camera che portava proprio al luogo di sepoltura di Re Tutankhamen. Ci aspettavamo di trovare un’altra stanza enorme. Al contrario il sarcofago era appoggiato in verticale al muro. Il freddo getto d’aria che seguì l’apertura del muro è stata l’esperienza più strana che io abbia mai vissuto. Era esattamente come se qualcuno ci avesse colpito la spina dorsale con un getto di acqua gelata”.

Non c’è nessuna conferma che il racconto sia vero, ma Terriss ha continuato a ripeterlo (fornendo varie versioni dell’episodio) per tutta la vita. Mancano riscontri, nessuno dei testimoni di quel giorno ha mai fatto il suo nome né esiste documentazione a riguardo. In un’occasione Terriss lasciò intendere che girò delle immagini dell’apertura della tomba, ma non ne esiste traccia.

Ovviamente anche Terriss doveva fare i conti con la cosiddetta “maledizione di Tutankhamen”. Si disse che era uno dei pochi sopravvissuti alla maledizione e lui stesso alludeva a una grave malattia che avrebbe contratto subito dopo aver partecipato all’apertura della tomba del re egizio. Sui giornali si arrivò a scrivere che Terriss era uno dei soli quattro superstiti, sfuggiti alla vendetta del faraone. Per sfruttare queste voci, nel 1934 Terriss tentò, senza esito, di realizzare un film sulla maledizione di Tutankhamen.

L’albo a fumetti Famous Funnies (1953) ricostruisce la storia di Terriss e Tutankhamen

La fatale marocchina

Arriviamo infine al cortometraggio The Vampire of Marrakesh che discende direttamente dall’attrazione per l’orientalismo e l’esotico maturata da Tom Terriss con l’esperienza egiziana. La vera popolarità Terriss la ottiene all’inizio degli anni Trenta, quando si specializza in “travelogue”, diari di viaggio filmati e conditi di fiction, girati con la sua troupe dotata di cinepresa e microfoni per immortalare le voci del nativi e le loro musiche. Dal 1927 aveva raccontato i suoi viaggi in giro per il mondo alla stazione radio KFI di Los Angeles e due anni dopo porta sugli schermi la stessa idea di fondo. Terriss da attore e regista del cinema muto si trasforma in esploratore, realizzando un’infinita serie di corti della durata di circa 10 minuti (una bobina), caratterizzati da una miscela di avventura esotica, commedia e accenni di nudo.

Noti come Vagabond Adventures, i filmati erano inizialmente prodotti e distribuiti con il sostegno della Pathé, e poi RKO, da Alfred T. Mannon e Amedee Van Beuren, pionieristico produttore di film, cortometraggi e cartoni animati (vedi Hal Erickson, A Van Beuren Production, McFarland & Company, Jefferson 2020). La formula era semplice: riprese di luoghi insoliti, inserti drammatizzati, una voce fuori campo. A volte Terriss appariva di persona, più spesso era la voce narrante. I corti uscivano ogni due settimane e in seguito una volta al mese. Alcune scene di pura fiction erano girate in California con attori professionisti da Elmer Clifton, già assistente alla regia di D.W. Griffith e caduto in disgrazia nel 1923 quando un’attrice era morta bruciata sul set di un suo film.

Nei cortometraggi di Terriss sono ricorrenti i riferimenti a leggende macabre, come in Glacier’s Secret (1931), dove si racconta di una donna rimasta intatta nel ghiaccio per quarant’anni, e nell’analogo The Frozen Bride (1946) imperniato su una leggenda svizzera relativa a una donna conservata perfettamente dai ghiacci per mezzo secolo. Gli intrecci tra i documentari di Terriss e l’immaginario nero non finiscono qui. A lui si deve un corto con la sua voce narrante girato per la RKO-Pathé, The Song of the Voodoo (1931), dove si assiste a una cerimonia voodoo nell’isola di Haiti. Secondo gli studiosi di cinema fantastico sarebbe il primo film in assoluto a occuparsi di voodoo, dato che anticipa White Zombie, la pellicola con Bela Lugosi uscita nel 1932. E a proposito dell’attore ungherese, Terriss nel 1931 ha intervistato Lugosi per il cinegiornale “Voice of Hollywood”, chiedendogli quale effetto abbia avuto su di lui recitare il ruolo di Dracula (l’attore rispose che lo considerava una sfida e si diceva molto lieto che si fosse conclusa, evidentemente ancora ignaro del suo imminente destino di identificazione totale con il personaggio). Durante il periodo d’oro della sua notorietà come “regista vagabondo”, Terriss progetta una serie di 13 cortometraggi, lo stesso numero di tante odierne serie tv, con il titolo Quest of the Perfect Woman (Alla ricerca della donna perfetta). Agli inizi del 1934 annunciava il completamento di due episodi, The Vampire of Marrakesh e The Veiled Dancer of El Oued. Del terzo episodio, North of Sahara, non si hanno notizie a parte che era ambientato in Etiopia e di certo la serie non ha poi avuto seguito. I primi due episodi sono tuttora disponibili e The Vampire of Marrakesh è apparso nel 2002 come extra nel DVD del film Doctor Gore della Something Weird.

I titoli di testa di The Vampire of Marrakesh indicavano come produzione la Hammer Pictures Inc. Forse siamo di fronte al primo film di vampiri della famosa casa produttrice britannica che realizzerà molti anni dopo Dracula il vampiro (Dracula, 1958) e una serie di indimenticabili pellicole gotiche? Pare proprio di no: il produttore Arthur Hammer, che si occupava dei cortometraggi avventurosi di Quest of the Perfect Woman, non ha nulla a che fare con l’azienda cinematografica che nasceva in Inghilterra nello stesso periodo. Non si tratta nemmeno di una versione ridotta del già citato Flame of Passion, come sostengono alcuni, dato che contiene sì temi simili, ma si svolge in tutt’altra ambientazione.

Una scritta in apertura di The Vampire of Marrakesh spiega: “Esiste la donna perfetta? Forse una tale rarità la si può trovare non dove la civilizzazione ha creato valori artificiali, ma nei paesi più primitivi dove la semplicità e la natura dominano supreme?”.

Tom Terriss e il suo amico Jimmy nella loro ricerca della donna perfetta si recano a Marrakesch, definita “barbaric city”. Dopo qualche ripresa di panorami marocchini, il giorno successivo all’arrivo Tom si presenta dall’amico con il viso stanco e racconta l’esperienza appena vissuta con quella che descrive come “la creatura del male”, una “vampira”.

Rielaborazione video della scena cruciale di The Vampire of Marrakesh

Un flashback mostra la sua avventura. Per introdursi in un edificio principesco, convinto che nasconda un harem, Tom entra di nascosto nel giardino del palazzo, dove una donna dai lunghi capelli scuri prende il sole nuda accanto a una piscina (il nome dell’attrice è ignoto). Lei lo vede: “I suoi occhi mi tentavano, invitandomi a seguirla”. Tom nel palazzo trova altre donne in succinti abiti orientali che lo osservano senza parlare. In un cortile, la donna che lo aveva attratto è adagiata su un divano e assiste a uno spettacolo di musica e danze. Tom si inginocchia e bacia la mano della donna (“I suoi occhi erano come fuoco opalescente”), che ha i seni scoperti e gli porge un bicchiere. “Dopo che ho bevuto la sua voce è diventata come il distante tintinnio di una campana d’argento”. Tom si risveglia in un’altra stanza e mentre riprende conoscenza la donna si avvicina a lui danzando, le gambe avvolte in un velo trasparente e i seni nudi coperti solo dai capelli corvini: “Ho capito dagli occhi e dai denti aguzzi tra le rosse labbra che ero alla mercé di una vampira”. La donna si china su di lui, coricato, in una sorta di rielaborazione del dipinto di Burne-Jones. Il flashback finisce e Tom racconta di essersi risvegliato in mezzo a una strada.

Una donna araba che porta sventura ritorna nel successivo episodio, The Veiled Dancer of El Oued, dove Terriss accresce lo stile “realistico”, da documentario: Tom e Jimmy parlano agli operatori, seguiti dalle cineprese della troupe. Il corto ripropone una femmina pericolosa, capace di affascinare gli occidentali e portare loro disgrazia, per quanto senza accenni al vampirismo. Tom Terriss e il suo amico Jimmy sono in Algeria. Tom è attratto da una seducente algerina che danza in strada a seno nudo. La fanciulla, però, si rivela anche in questo caso insidiosa, perché indica agli abitanti del luogo la troupe cinematografica così che possano rapinarla. Dopo l’aggressione, Tom e Jimmy finiscono in ospedale, accuditi da una bella infermiera (per altro molto simile alla ballerina di strada) che potrebbe forse essere la vera “donna perfetta”, finalmente individuata.

Concluso l’esperimento precocemente interrotto di Quest of the Perfect Woman, Tom Terriss continuerà la saga delle Vagabond Adventures con altre produzioni, fino alla metà degli anni Quaranta, portando il suo format anche alla radio della NBC e facendo apparizioni sul piccolo schermo all’alba della televisione. I suoi cortometraggi documentaristici in terre esotiche gli avevano portato la celebrità, quasi un anticipatore di odierni programmi come l’italiano Freedom. E si rese talmente noto al pubblico angloamericano appassionato di viaggi e avventure da diventare protagonista dei fumetti, fino agli inizi degli anni Cinquanta, con gli albi Tom Terriss the Vagabond Adventurer, nella collana Famous Funnies: in un episodio (n. 206, 1953) si ricostruisce la sua ipotetica partecipazione all’apertura della tomba di Tutankhamen e la relativa maledizione.

Tom Terriss è morto ultranovantenne nel 1964. Un mese prima era morta sua moglie Mildred, la vampira della danza. 

GLI ALTRI VIAGGI DEL “DEMETER”

E’ appena arrivato nelle sale il film Demeter – Il risveglio di Dracula di André Øvredal. Nel recente passato, però, non sono mancati gli omaggi alla traversata della nave Demeter verso l’Inghilterra, come descritta in Dracula di Bram Stoker. A parte le sequenze di vari film su Dracula in cui si assiste al viaggio navale del vampiro (per primi Nosferatu di F.W. Murnau e Dracula di Tod Browning), una specifica attenzione è stata dedicata a quella parte del romanzo. Un esempio interessante è Demeter (Edicions de Ponent, Alicante 2007), con testi e disegni di Ana Juan. Il volume illustrato riproduce parti del registro di bordo “da Varna a Whitby” accompagnato da grandi immagini a tutta pagina. Il volume, tra l’altro, contiene un breve saggio di Felipe Hernandez Cava sul rapporto tra Stoker e il mare. Curiosamente, il vampiro per quanto stilizzato ha le stesse caratteristiche animalesche simili a un pipistrello che si ritrovano nel film Demeter – Il risveglio di Dracula.

La copertina e un’illustrazione di Demeter.
Una doppia pagina da Demeter.

Un fumetto pubblicato nel 2010 dalla IDW in quattro albi aveva addirittura un sottotitolo identico al film di Øvredal, che in originale è The Last Voyage of the Demeter. Si tratta di Death Ship – The Last Voyage of the Demeter, scritto da Gary Gerani e illustrato da Stuart Sayger. Con suggestivi disegni a colori si ripercorrono le allucinazioni della ciurma, decimata dal vampiro, fino a che resta solo il capitano (non manca un bambino a bordo). Anche in questo caso il vampiro sulla nave ha l’aspetto mostruoso delle illustrazioni di Ana Juan e del film di Øvredal.

La copertina del n. 4 di Death Ship e una tavola del fumetto.
Un’altra immagine da Death Ship.

Nel 2012 è stato girato un cortometraggio ispirato alle stesse pagine del romanzo di Stoker, The Final Voyage of the Good Ship Demeter, diretto da Bryan Enk. E’ un monologo in cui si raccontano gli orribili eventi sulla nave, con il protagonista inquadrato continuamente in primo piano. Enk è un filmmaker dell’Ohio che ha la passione (o l’ossessione) per Dracula di Stoker. Ha dedicato una lunga serie di sue opere al celebre personaggio. Innanzitutto la trilogia Dracula (1993), Dracula Returns (1994) e Blood Daughter (2022). Poi il corto Mina Seward (2001) e il monologo The Curious Case of R.M. Renfield (2006). ​In lavorazione dal 2007, è annunciato per il 2023 The Heartless Cruelty of Lucy Westenra, altro monologo ispirato a Stoker. I film di Enk sono visibili su Vimeo.

The Final Voyage of the Good Ship Demeter, diretto da Bryan Enk.

Da segnalare, infine, lo spettacolo teatrale Nosferatu del Proper Job Theatre, in tour per la Gran Bretagna nel 2015. Riportiamo dal libro Nosferatu – Il capolavoro di F. W. Murnau un secolo dopo: “Su un testo scritto dal poeta inglese Ian McMillan e con musiche di Rod Beale, si svolge interamente a bordo della nave che trasporta il conte Orlok (da Varna a Whitby, come nel romanzo). La scena è quasi buia, con effetti speciali creati da un illusionista, tre soli attori e una cantante. Orlok di fatto non si vede, ma ‘possiede’ il corpo del capitano della nave. Dopo essere stato vampirizzato, il capitano si toglie il lungo soprabito e rivela la militaresca giacca con i bottoni di Orlok, protendendo le mani ad artiglio”.

Nosferatu del Proper Job Theatre.

DRACULA SENZA CONFINI: IL MANGA #DRCL

Dracula, il romanzo di Bram Stoker, a distanza di quasi 130 anni resta una fonte inesuribile di suggestioni e idee per l’immaginario contemporaneo. I personaggi di quel testo sono stati e sono rimaneggiati, riscritti, modificati in infinite varianti. Sorprende per fedeltà al romanzo e nello stesso tempo per innovazione radicale un manga recente, #DRCL. Uscito a puntate dal 2020 su una rivista giapponese di manga e poi riunito in volumi, è appena giunto in Giappone al terzo volume. Il primo volume è atteso in italiano per le Edizioni BD a settembre 2023.

Le copertine dei primi tre volumi.

I raffinati disegni ci accompagnano in una riscrittura apparentemente figlia del politically correct, con l’inserimento nella classica storia stokeriana di tematiche omosessuali, transessuali ed etniche. In realtà non è la solita presenza obbligata di temi e figure che gli “algoritmi” odierni impongono a sceneggiatori e scrittori (abbiamo già parlato su “Vampyrismus” di esempi a loro modo grotteschi in questo senso). In #DRCL, al contrario, tutto è estremizzato e stravolto, pur rimanendo incredibilmente aderente al testo e allo spirito del romanzo di Stoker. La scelta di proporre personaggi adolescenti come protagonisti, uniti dalla frequentazione di una scuola, è già stata utilizzata da manga e anime diverse volte, ma mai con l’estremismo dissacratore di #DRCL (con tanto di atti blasfemi in una chiesa, per esempio). Le diversità di genere non sono proposte con il mieloso perbenismo di tante serie tv americane, ma con fantasiosa crudezza, al punto da renderle mostruose.

Una tavola dal primo volume.

La vicenda è fatta di continui omaggi al libro di Stoker, anche alla lettera. L’inizio vede il tradizionale arrivo sulle coste inglesi della nave russa Demeter, con il suo carico di casse dal contenuto inquietante. Questo permette a #DRCL di incentrare l’ambientazione ottocentesca in una scuola esclusiva di Whitby, la città costiera che Stoker aveva scelto per l’approdo del vampiro. I personaggi hanno gli stessi nomi del romanzo, ma sono tutti adolescenti o giovani.

I personaggi principali

Mina Murray, con due lunghe trecce di capelli rossi, è un’esperta lottatrice di catch wrestling, goffa e sgraziata, con la passione per la scrittura. La sua amica Lucy Westenra è in realtà il maschio Luke che per uno sdoppiamento di personalità diventa donna di notte: è la prima vittima di Dracula che con i suoi morsi la fa avvizzire. Non mancano Arthur Holmwood, studente aristocratico e vigliacco, e Quincey Morris che qui è un ricco ragazzo afroamericano del Texas dedito a bullizzare Mina. Joe Suwa è il John Seward del romanzo di Stoker, qui trasformato in un giovane fotografo giapponese che vuole fare il medico. Renfield è una suora diventata devota adoratrice di Dracula e tenuta sotto contrallo da Suwa nella sua abitazione. Van Helsing, giovanotto tatuato e sfregiato, fa l’insegnante alla scuola di Whitby. E poi c’è Dracula che ha una caratteristica straordinaria e inedita: ha il controllo del mondo vegetale, oltre a quello animale ben noto. Non solo, in virtù della sua appartenenza all’Ordine del Drago ha la capacità di apparire sotto forma di drago volante (ma alle sue vittime si presenta anche come giovane ballerino dai lunghi capelli corvini).

Il morso di Dracula.

A scrivere e disegnare #DRCL è Shinichi Sakamoto, artista cinquantenne già autore tra l’altro del breve manga Dorachuu (2020), storia del vampiresco amore omosessuale tra due bambini di 10 anni. In Transilvania il giovanissimo Bloody, figlio di Dracula, fa amicizia con l’orfanello Quincey, cieco da un occhio. Bloody è perseguitato dal padre che lo considera un figlio degenere perché si ciba di frutta e beve solo il proprio sangue. Per dare energia all’amico vampiro così che possa sfuggire all’ira di Dracula, Quincey chiede di farsi vampirizzare. L’uno a disagio nel mondo dei vampiri, l’altro a disagio nel mondo degli umani, Bloody e Quincey da allora passeranno 400 anni insieme. Dorachuu, quindi, si presenta come un’anticipazione delle vicende deliranti che Sakamoto propone in #DRCL.

Il figlio di Dracula in Dorachuu.

50 SFUMATURE DI DRACULA

Il politically correct continua a far strage di vampiri. Dopo First Kill, ecco The Invitation diretto da Jessica M. Thompson, con Nathalie Emmanuel e Thomas Doherty nei due ruoli principali, appena uscito in Blu-ray e Dvd dopo una rapida ma lucrosa uscita sui grandi schermi (non in Italia).

Il best seller 50 sfumature di grigio ha imposto un cliché: la bella ragazza di modeste condizioni economiche che si innamora di un seducente e ricchissimo giovanotto, per poi scoprirne il lato oscuro. Ecco che il cliché viene utilizzato per una moderna vicenda in cui Dracula (ribattezzato stokerianamente De Ville, uno pseudonimo del vampiro nel romanzo) si trova al posto di Mister Grey.

The Invitation poteva essere un gioiello del gotico vampiresco, grazie alle sontuose atmosfere stile Hammer nel maniero dove si ambienta la vicenda, grazie alla violenza di alcune immagini e alle famiglie di umani al servizio dei vampiri che cenano celati da maschere evocando The Kiss of the Vampire (Il mistero del castello, 1963). Non mancano le citazioni da Bram Stoker (due anziani Jonathan Harker e Mina Murray, le tre spose di Dracula, Carfax, ecc.) e si assiste anche a una singolare vampirizzazione alla caviglia…


Spicca poi il Dracula dell’occasione, l’attore scozzese Thomas Doherty. Già interprete del vampiro Sebastian in 10 episodi della serie The Legacies (oltre a una piccola apparizione nella serie tv Dracula del 2013), ha qualcosa che a tratti ricorda l’indimenticabile Udo Kier in Dracula cerca sangue di vergine… (1974). La sua fisionomia particolare batte quella di Claes Bang nella miniserie Dracula del 2020.

Thomas Doherty vampiro in “The Legacies” e “The Invitation”

Questo potenziale gioiello è rovinato irreparabilmente dall’imposizione delle nuove regole ispirate al politicamente corretto. 50 sfumature di grigio era persino più audace, inscenando una complicità tra la donna vittima e l’uomo perverso. Qui invece la protagonista (che ovviamente non è “bianca”) non ha mai un cedimento alle “perversioni” di Dracula e la regista (australiana e bianchissima) aggiunge un frettoloso finale pseudofemminista con due donne, nere, amicissime ed entrambe disgustate dai maschi, che agiscono insieme come novelle ammazzavampiri. Il piatto politically correct è servito.

Il matrimonio di Dracula in “The Invitation”


DRACULA: non solo libro

Il romanzo Dracula di Bram Stoker vanta ormai innumerevoli ristampe, complice l’assenza di diritti d’autore e il richiamo sempre vivo (paradossalmente) del celebre non-morto. Ora non bastano più nuove edizioni, magari ampiamente annotate, per i cultori di quel testo: serve qualcosa di più. E un segmento di editoria ha deciso di puntare recentemente su esperienze multiformi da accompagnare al libro cartaceo. Sono così fiorite le edizioni in carta pregiata (vedi un nostro precedente post), elegantemente illustrate e con custodie immaginifiche. Ma ora si sta andando ancora oltre.

Beehive Books: varie edizioni “immersive” di Dracula

Se avete 1600 dollari da spendere (circa 1362 euro), ecco un’iniziativa nata su Kickstarter, con una raccolta di fondi. Si chiedevano almeno 85.000 dollari per concretizzare il progetto, attualmente si sono superati di gran lunga i 170.000, con un versamento medio di circa 270 dollari a sottoscrittore. Cosa offre il progetto “Dracula: The Evidence” per quella cifra? Non solo il romanzo, in un contenitore di pelle con targa in metallo, ma anche una mappa della Londra vittoriana, immaginarie repliche delle lettere tra i personaggi di Dracula, telegrammi, articoli di giornale e foto, due dischi con le registrazioni al fonografo del dottor Seward, stampe con illustrazioni in tema. Chi sottoscrive almeno 1600 dollari ha diritto a tutto questo, in un’edizione di soli 26 esemplari, firmata dai curatori. Con meno spesa (minimo 100 dollari) si ottiene la semplice versione cartacea con sontuosa copertina rigida e solo alcuni dei gadget creati per l’occasione.

La Beehive Books aveva già sperimentato edizioni “prestigiose” di Dracula a tiratura limitata, una custodita in una valigetta ottocentesca (300 euro) e una seconda racchiusa in un cofanetto di legno simile a una bara. Tra gli artefici del progetto c’è l’immancabile Dacre Stoker, discendente dello scrittore irlandese, che sta capitalizzando i suoi dati anagrafici con una miriade di iniziative commerciali su Dracula.

Abeditore: il “Drac-Pack”

Anche in Italia sono arrivati libri vampireschi “immersivi”, grazie alla casa editrice Abeditore: il loro DraculeaRacconti e documenti di veri o presunti atti di Vampirismo accompagna un libro cartaceo, che offre estratti da noti testi sui vampiri, a una lettera su pergamena vergata “Dracula” con sigillo di ceralacca, la foto di un vampiro, il poster con l’illustrazione della copertina del libro creata da Marco Calvi, un segnalibro a forma di bara e un finto articolo di giornale. Il costo è minimo, rispetto all’esperimento della Beehive: solo 20 euro (allo stato attuale il “Drac-Pack” con i gadget risulta esaurito).

L’edizione italiana del testo teatrale di Dracula, scritto da Bram Stoker

Siamo quindi di fronte a un fenomeno crescente, che si ispira ai giochi di ruolo dove già si erano proposti cofanetti con oggettistica varia. E di “giochi” o “giocattoli” si tratta, in fondo, per intenditori e appassionati. Noi di “Vampyrismus” preferiamo comunque i contenuti letterari e critici, pur ammirando le pregevoli edizioni vampiriche odierne. Si può fare un libro a tema draculesco esteticamente soddisfacente, ma nello stesso tempo che offre un testo inedito e un apparato critico, come il nostro Dracula: ovvero il Non-Morto.

DRACULA ovvero: il Non-Morto

Il testo teatrale di Bram Stoker, tradotto e curato da Fabio Giovannini

Il 18 maggio 1897 faceva la sua prima apparizione pubblica un personaggio dell’immaginario destinato a diventare immortale: Dracula. Quel giorno, infatti, per la prima volta in assoluto viene tenuto a battesimo il conte vampiro della Transilvania, grazie a uno spettacolo teatrale intitolato Dracula: or The Un-Dead (Dracula, ovvero: il Non-Morto) e presentato al Lyceum Theatre di Londra. L’autore era Bram Stoker, che pochi giorni dopo pubblicherà il romanzo Dracula. Il manoscritto di quel testo teatrale, a lungo sconosciuto, è oggi custodito alla British Library.

DRACULA ovvero: il Non-Morto consente per la prima volta al lettore italiano di scoprire un testo raro, pubblicato solo una volta in lingua originale nel 1997. Questo testo teatrale permette un’esperienza nuova anche all’appassionato o allo studioso che già conosce Stoker e il suo Dracula.

Con una prefazione di oltre 50 pagine firmata da Fabio Giovannini, curatore e traduttore di questa introvabile opera sconosciuta di Bram Stoker. Un volume fuori commercio, arricchito da numerose illustrazioni d’epoca: 336 pagine, in un’edizione a tiratura limitata di sole 100 copie numerate.

Per ricevere il libro vai qui e premi il pulsante a fondo pagina.

Per scaricare l’indice e le prime pagine della Prefazione clicca qui sotto:

Freddy Ruthven, ovvero il Dracula della BBC

In rete si moltiplicano i commenti alla miniserie tv Dracula della BBC/Netflix. Non si può che constatare una grande rivitalizzazione dell’interesse per il principe dei vampiri, all’alba del nuovo decennio, ed esserne lieti. I commenti in genere si dividono tra entusiasti della serie e detrattori delusi, con una quasi unanime denigrazione del terzo episodio, quello in cui Dracula è portato ai giorni nostri. Tutti si interrogano sulla dose di fedeltà o sul tradimento rispetto al romanzo di Bram Stoker. Io riassumo la mia opinione cambiando nome al protagonista della serie, ribattezzandolo Freddy Ruthven. Perché?

Claes Bang in Dracula (2020)

Partiamo dal cognome. Il Dracula della BBC assomiglia nei comportamenti e nell’aspetto molto più al lord Ruthven del racconto Il vampiro di John Polidori che al Dracula di Stoker. Il suo rapporto con Jonathan Harker è simile a quello di Ruthven con Aubrey, il giovane narratore di Il vampiro: lo irride, lo seduce, lo porta alla perdizione, quindi si dedica alla donna amata dal suo amico-vittima. Il look byroniano del Dracula targato BBC ne è una conferma. Ed è satanico, come Ruthven, privo di sentimenti umani, selvaggio nell’abbeverarsi. Il Dracula di Stoker era un antico e orgoglioso guerriero diventato immortale, lontano anni luce dall’immagine del dandy.

Dracula con Jonathan

Passiamo al nome, Freddy. Il Dracula BBC si caratterizza per le sue battute umoristiche, sardoniche, ciniche, in particolare di fronte alle sue vittime e prima di commettere atti efferati. Nello stesso modo si comportava Freddy Krueger, il serial killer dei sogni molto popolare negli anni Ottanta con i film della saga Nightmare. Il cliché è identico. Gli sceneggiatori devono aver pensato, anche senza riferirsi consapevolmente all’orrido Freddy, che questo stile del vampiro aumentava la complicità da parte dello spettatore odierno, cattivo abbastanza da godere se un mostro deride le vittime e fa battute alla Oscar Wilde prima di uccidere. La più bella, e trasgressiva, avviene quando Dracula spiega che la sua paura della croce è dovuta all’aver ingerito il sangue di tanti popolani timorati di Dio, dai quali ha assorbito anche i terrori cristiani: “Non vedo l’ora di poter mangiare degli atei”, commenta diabolico (con la voce profonda e cadenzata dell’attore Claes Bang, ben diversa da quella del doppiaggio italiano). Insopportabile, invece, quando per ben due volte Dracula ripete l’ormai logora battuta lugosiana per ricordarci che “non bevo mai… vino”.

Dracula al cellulare

Per quanto riguarda la diffamata terza puntata, non sono così severo, fermo restando le altre riserve sulla serie. Anche il Dracula di Stoker, in fondo, arrivava da una quasi medioevale Transilvania alla popolosa e avveniristica Londra vittoriana. Vederlo confrontarsi con i ritrovati moderni è in fondo divertente, senza dimenticare che i suoi avversari nel libro di Stoker utilizzavano ritrovati allora modernissimi o anticipatori come il telegrafo.

Harker nella sala da pranzo del castello in Dracula (1958) e nella serie della BBC

Grazie a Mark Gatiss alla sceneggiatura (archeologo del gotico cinematografico: interessante il suo documentario messo in rete in occasione della miniserie, In Search of Dracula), ci sono citazioni a raffica, per lo più nascoste a uso dei più astuti fan del genere (ritratti alle pareti con Christopher Lee e Peter Cushing, riproposta di celebri situazioni dal Dracula di Terence Fisher o allusioni a Bela Lugosi, ecc.).

Dracula vecchio

Due parole sull’interprete principale. Per quanto Claes Bang abbia mietuto molti commenti positivi, il suo aspetto non si avvicina nemmeno lontanamente all’impatto di altri grandi Dracula dello Schermo: Lugosi, Lee, Carradine, Langella, Kinski, Schreck, solo per fare qualche nome. Ho delle profonde riserve, poi, sull’acconciatura con la riga… Se si guarda la scena del terzo episodio dove Dracula emerge dalle acque del mare, con i capelli bagnati e lucidi, si capisce quanto sarebbe stata adeguata un’altra pettinatura al volto dell’attore. A questo proposito va detto che proprio la conformazione del viso di Bang non si presta nemmeno al trucco da vecchio delle sue prime apparizioni. Non si capisce perché il make up abbia fatto tanti passi indietro, anche in film e telefilm a grosso budget. Il mascherone da ottuagenario applicato a Bang fa il paio con quello ancor più improbabile visto in Nos4a2: non siamo nemmeno all’altezza dell’invecchiamento di David Bowie in Miriam si sveglia a mezzanotte, quasi quarant’anni fa. Ma una delle responsabilità sta proprio nelle caratteristiche del viso di Bang, troppo tondo e solido per prestarsi a un credibile “effetto vecchiaia”.

Il castello di Orava in Dracula (2020)

Delusione, infine per un’occasione perduta nella prima puntata. E’ stata girata nel vero castello che fu scenario per Nosferatu (1922) di F. W. Murnau, il castello di Orava in Slovacchia (vedi il post https://vampyrismus.altervista.org/dracula-e-tornato-a-casa), ma l’impressionante maniero si vede poco e lo si sfrutta male, facendo rimpiangere le immagini di un secolo orsono che valorizzavano, ad esempio, la fallica torre del castello. Anche Whitby, la cittadina inglese dove approda Dracula nel romanzo, fa solo brevemente da sfondo nella terza puntata.

Il poster “cangiante” di Dracula (2020)

In conclusione, un Dracula da era dei social, in una commistione di allusioni colte e cinefile, banalità assolute, demitizzazioni fuori tempo massimo, innovazioni ardite e concessioni quasi ironiche al politically correct (Van Helsing suora, personaggi gay e di colore). Avevo a suo tempo tessuto le lodi del ruolo di Twilight (con tutto il male che se ne può dire) nel diffondere tra i giovanissimi una rinnovata passione per i vampiri, non posso che rallegrarmi se il Dracula BBC (ancora, con tutto il male che se ne può dire) riaccende nel 2020 la popolarità del vampiro e l’interesse per il suo mito.